Lezioni per il futuro
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Lezioni per il futuro

Sette paradossi del mondo nuovo

  1. 120 pagine
  2. Italian
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Lezioni per il futuro

Sette paradossi del mondo nuovo

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Negli ultimi decenni abbiamo più volte sentito dire che il mondo «non sarà mai più lo stesso». È accaduto all'indomani dell'11 settembre, dopo la recessione del 2008-2009 e la crisi dei rifugiati nel 2015. Tuttavia le cose cambiano non perché ci sia una volontà di cambiamento, ma «perché non si può tornare indietro».

Mentre trascorreva il lockdown nella sua nativa campagna bulgara, Ivan Krastev, politologo e opinionista del «New York Times», ha cominciato a interrogarsi sugli effetti della pandemia da Covid-19 e su come sarebbe cambiato il futuro. Benché tracciare la storia di una trasformazione ancora in atto renda difficile avanzare delle ipotesi, è innegabile che l'esperimento sociale della quarantena abbia scoperto nodi politici ed economici irrisolti, che accomunano le singole realtà nazionali. In poche settimane, il «cigno grigio» della pandemia ha catapultato Stati e continenti nell'incertezza. Dalla Cina all'Italia, dalla Svezia agli Stati Uniti. Tanto nelle democrazie liberali quanto nei regimi autoritari, però, i governanti si sono dimostrati sprovvisti degli strumenti interpretativi necessari per fronteggiare una crisi inedita rispetto a quelle più recenti e si sono ingenuamente ostinati a operare attraverso leggi d'emergenza. Eppure, la pandemia produrrà cambiamenti irreversibili, e a farne le spese potrebbe essere soprattutto l'Unione Europea, insieme a uno dei fondamentali assunti comunitari, ovvero che l'interdipendenza generi sicurezza e prosperità. Attraverso sette paradossi, Krastev analizza questo incerto presente, teatro tra gli altri del «fallimento dei leader politici mondiali nel mobilitare una risposta collettiva» a una crisi che non potrà essere superata senza un progetto politico responsabile e condiviso.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2020
ISBN
9788835704881
II

Democrazia come dittatura dei confronti

Le epidemie infettano la società con la paura. Possono tirar fuori il meglio dalle persone, ma portano anche alla luce il peggio nei governi. In letteratura le epidemie sono la tipica metafora della perdita di libertà e dell’avvento dell’autoritarismo. Per Niccolò Machiavelli la peste e la malattia illustrano quello che accade nel corpo politico quando si lasciano imperversare il cattivo governo e la corruzione, mentre La peste di Camus è una metafora del fascismo. L’avvento del coronavirus segnala quindi il declino delle democrazie liberali occidentali? Istilla nelle società il virus dell’autoritarismo?
Secondo un resoconto di «openDemocracy» dell’aprile 2020, oltre due miliardi di persone vivono in paesi dove attualmente l’attività parlamentare è stata sospesa o limitata dalle misure d’emergenza anti-COVID-19.1 Ma il problema non riguarda solo i lavori del parlamento. Il lockdown ha ridimensionato anche il ruolo dei tribunali. Alle persone è stato vietato lasciare le proprie abitazioni. Le elezioni sono state sospese oppure si sono svolte in circostanze che hanno reso impossibile un’equa competizione politica. Sono proliferate le restrizioni sui media; e, mentre la pandemia ha reso cruciale come non mai l’affidabilità delle informazioni, la crisi economica minaccia la sopravvivenza finanziaria dei mezzi di comunicazione che rilevano e ritrasmettono quelle informazioni.
Molti analisti politici temono che la pandemia porterà al potere i populisti e che, una volta al comando, questi demagoghi useranno la crisi per soffocare la democrazia e imporre qualche forma di governo autoritario. Le conseguenze politiche a lungo termine del COVID-19, secondo questi commentatori, saranno legislazioni restrittive che rimarranno in vigore a lungo dopo la scomparsa del coronavirus. Infine, si dice, l’esito geopolitico più significativo della crisi sarà l’aumento dell’influenza cinese a livello globale.
Condivido molte di queste preoccupazioni. Il COVID-19 è particolarmente pericoloso per soggetti «con disturbi pregressi», e in Occidente le democrazie liberali negli ultimi dieci anni hanno manifestato diversi sintomi, provocando un drastico declino della fiducia nei sistemi democratici. I partiti populisti hanno guadagnato terreno in società in preda a rabbia e frustrazione. Sono eloquenti in tal senso i titoli di due libri recenti: Come muoiono le democrazie di Steven Levitsky e Daniel Ziblatt2 e Così finisce la democrazia di David Runciman.3 È logico aspettarsi che il COVID-19 consoliderà e farà precipitare almeno alcune delle tendenze politiche negative precedenti alla crisi. Comunque, pur restando valide queste preoccupazioni per il futuro della democrazia in Europa, ho la sensazione che il quadro sia più complicato di così, ma forse non altrettanto cupo.

Le rane possono prendere il COVID-19?

Sappiamo tutti qual è il sistema migliore per cuocere una rana: se la si getta nell’acqua bollente salterà subito fuori, ma, se la si mette nell’acqua fredda che poi si fa riscaldare lentamente, non si accorgerà del pericolo e finirà cotta a puntino. Secondo molti osservatori, le democrazie liberali durante la pandemia di COVID-19 sono come le rane, e il primo ministro ungherese Viktor Orbán sta lentamente aumentando la temperatura dell’acqua nel suo paese.
Il 30 marzo 2020 l’Ungheria ha varato una legge che conferisce al primo ministro il potere di governare per decreto senza limiti di tempo. Tra i nuovi poteri c’è la possibilità di sospendere alcune leggi, e non solo quelle strettamente legate alla crisi. Si introducono anche pene carcerarie per la diffusione di notizie false o distorte, una misura, questa, che ha suscitato una rinnovata apprensione per le condizioni in cui versa la libertà di stampa nel paese. E non sorprende che le elezioni e i referendum in Ungheria saranno sospesi per tutta la durata dell’emergenza. L’iniziativa è stata approvata senza intoppi dal parlamento di Budapest con 137 voti contro 53.
Com’era prevedibile, i partiti di opposizione hanno subito contestato le misure adottate giudicandole non necessarie e bollandole come il tentativo di smantellare la già debilitata democrazia ungherese. In un’intervista alla rivista tedesca «Der Spiegel», Donald Tusk, ex presidente del Consiglio europeo e attualmente presidente del Partito popolare europeo, ha commentato malignamente che «Carl Schmitt sarebbe molto orgoglioso di Viktor Orbán».4 È vero che il celebre giurista tedesco, che ridusse la politica al rapporto tra amici e nemici e quindi appoggiò il regime nazista, sarebbe stato orgoglioso del primo ministro ungherese, ma lo stratagemma di Orbán, in ultima analisi, lascia più perplessi che atterriti.
L’eccezionalità del caso ungherese è che Orbán non aveva alcun bisogno di spedire in quarantena il parlamento per esercitare un potere illimitato, poiché godeva già di una forte maggioranza costituzionale. Inoltre l’Ungheria non ha abbandonato la strada della democrazia liberale a causa dell’attuale crisi, dato che non la seguiva nemmeno prima.5 Che bisogno avrebbe avuto Orbán di usurpare poteri di cui già disponeva? Sostenere che il COVID-19 sia stato per lui l’occasione di fomentare un colpo di mano è una spiegazione pigra e poco utile. Sembra molto più significativo dire che Orbán sta usando la crisi del COVID-19 per dimostrare a Bruxelles che a lui è permesso violare le regole comunitarie.
I teorici della politica hanno ragione quando affermano che i leader autoritari sguazzano nelle crisi e che il linguaggio della paura è quello che conoscono meglio; tuttavia, è importante notare che le crisi che preferiscono in assoluto sono quelle che loro stessi hanno architettato, o almeno quelle che sono in grado di gestire; al contrario, non sopportano le crisi che minacciano di cambiare il mondo che conoscono. Carl Schmitt colse nel segno dicendo che i dittatori vogliono un potere divino, ma all’Onnipotente non è mai stato chiesto di risolvere un problema che non avesse lui stesso creato.
Agli autoritari non piacciono le crisi alle quali si debba rispondere con delle regole. Non sono né la genialità né la forza del leader, ma scelte più prosaiche, come lavarsi le mani regolarmente, lo strumento migliore per contenere la diffusione di un virus.
Centrale per l’esercizio del potere assoluto è la libertà di decidere da soli quali crisi meritino una risposta, ma il COVID-19 non lascia questo margine d’azione. Non sorprende che i quattro leader che più strenuamente negano l’esistenza stessa della pandemia siano autoritari: il presidente brasiliano Jair Bolsonaro, l’uomo forte della Bielorussia Alexander Lukashenko, il presidente autocratico del Turkmenistan Gurbanguly Berdimuhamedow e il dittatore del Nicaragua Daniel Ortega. Questo quartetto, che Oliver Stuenkel, professore di relazioni internazionali della fondazione Getúlio Vargas di San Paolo, ha battezzato «la lega dello struzzo»,6 è la miglior prova che il COVID-19 non è il convitato ideale alla tavola di un dittatore. Per questi quattro leader la pandemia rappresenta una minaccia e una costrizione, invece che un’opportunità. Il suo emergere come crisi globale, a cui tutti i governi del mondo devono rispondere, di fatto limita il potere degli autoritari.

Il COVID-19 porterà i populisti al potere?

«La paura supera in asprezza tutti gli altri accidenti» scriveva nel XVI secolo l’umanista e filosofo Michel de Montaigne. Ed è la paura che porta i populisti al potere. Non sorprende quindi che siano in molti a ritenere che saranno i populisti di destra a trarre il maggior vantaggio dalla crisi. Ma l’insorgere del populismo nel corso dell’ultimo decennio si spiega meglio con la paura o con l’ansia?
Se gli psicologi lasciano intendere che paura e ansia siano parenti stretti (entrambe infatti contengono l’idea del pericolo), fanno anche notare che la paura è una reazione a una minaccia specifica e osservabile, come il timore di essere contagiati da una malattia mortale. Al contrario, l’ansia è un pensiero pervasivo, sfocato, privo di un oggetto determinato, che riguarda il futuro. Le persone sono in ansia perché i propri figli vivranno meno agiatamente di loro; perché i migranti li potrebbero sostituire; per l’avvento dell’apocalisse climatica o per la prospettiva di un’invasione aliena. Chi è ansioso è anche arrabbiato, mentre per chi ha paura la collera è un lusso, essendo troppo impegnato nel tentativo di sopravvivere. I populisti hanno abilmente cavalcato le ire degli ansiosi. Chi è in preda all’ansia non si comporta come chi ha paura. Sempre più spesso la psicologia sociale conferma che in condizioni di paura «gli individui sviluppano maggior concentrazione e consapevolezza riguardo ai limiti della libertà di azione e, come obiettivo primario, vogliono ripristinare un maggior livello di coerenza e di certezza».7 Nella sua autobiografia, il critico letterario Marcel Reich-Ranicki ci fa entrare con grande efficacia nella natura unidimensionale della mente impaurita quando confessa che, nei mesi trascorsi nel ghetto di Varsavia durante la seconda guerra mondiale, pur passando tutto il tempo a leggere, non prese mai in mano un romanzo perché temeva che sarebbe potuto morire prima di finirlo.
Una volta superata la fase più acuta della crisi, quando la gente smetterà di temere per la propria vita, monterà di nuovo la rabbia; e i politici populisti come Marine Le Pen o Matteo Salvini probabilmente torneranno sulla cresta dell’onda. Nei primi giorni della crisi, però, l’intensità della paura provocata dal COVID-19 spiega perché è stata la retorica governativa e non quella populista a prevalere. Il gradimento di Emmanuel Macron e Giuseppe Conte è cresciuto, mentre quello dei loro antagonisti populisti è andato declinando. Anziché cercare qualcuno che dia voce alle loro frustrazioni, gli impauriti cercano qualcuno che li protegga e abbia le giuste competenze. Il COVID-19 ha quindi cambiato l’atteggiamento pubblico nei confronti della competenza. Diversamente da quanto era accaduto in seguito alla crisi finanziaria con la sfiducia negli esperti e nei tecnocrati, l’epidemia ha reso evidente il beneficio per la società di un governo competente.

Il «virus cinese» sarà utile al «modello cinese»?

Nei primi giorni della crisi non sono stato il solo ad avere l’impressione che la Cina sarebbe uscita dalla pandemia strategicamente più forte di tutti gli altri paesi. La crisi sembra aver legittimato gli Stati autoritari agli occhi dei propri cittadini, mentre i primi dati evidenziano che la pandemia ha reso i cinesi più critici nei confronti del modello americano.8 Il fatto che la Cina sia stata colpita per prima dal virus significa anche che è stata la prima a imboccare la ripresa economica, il che ha giocato a suo favore.
Con il passare del tempo, però, sono sempre meno sicuro che il gigante asiatico possa beneficiare della crisi più degli altri paesi. Il sentimento anticinese è cresciuto in seguito alla rivelazione che Pechino ha mentito sul numero dei morti e dei contagiati. L’aggressiva campagna propagandistica volta a dipingere quella cinese come l’unica risposta efficace alla pandemia e la ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Lezioni per il futuro
  4. Il cigno grigio
  5. I. Nazionalismo in chiave domestica
  6. II. Democrazia come dittatura dei confronti
  7. Conclusione
  8. Note
  9. Ringraziamenti
  10. Copyright