La spagnola
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La spagnola

Storia dell'influenza che cambiò il mondo

  1. 400 pagine
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La spagnola

Storia dell'influenza che cambiò il mondo

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Tra ottobre 1918 e febbraio 1919 in tutto il mondo si scatenò una terribile pandemia influenzale: la cosiddetta «spagnola». Paragonabile solo alla Morte Nera del Trecento, fece oltre ventuno milioni di vittime e coinvolse - si stima - oltre un miliardo di persone, più della metà della popolazione del globo. L'ambiente medico internazionale arrivò a temere per la sopravvivenza stessa della civiltà.

Poi, così com'era giunta, la spagnola passò, praticamente senza lasciare traccia.

In questo libro Richard Collier, basandosi sui racconti, le lettere, le testimonianze di 1700 sopravvissuti, ricostruisce l'evoluzione della malattia, rivelandoci non tanto gli aspetti sanitari quanto quelli umani di quei 120 giorni di epidemia cruciali nella storia del pianeta.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2020
ISBN
9788835705444
Argomento
Storia
III

«Stiamo forse per essere spazzati via?»

1° ottobre-8 ottobre 1918
Di tutti i momenti critici che il dottor Frederick Willmot, viceufficiale sanitario di Cape Town, si era trovato a dover affrontare nella sua vita, il peggiore fu forse quello della telefonata che gli pose davanti in una sola angosciata domanda il dilemma della sua città. All’altro capo del filo, con la voce serrata per l’emozione, c’era il suo vecchio amico William Davies, facoltoso dirigente di una società immobiliare, appena di ritorno allora dall’ospedale Groote Schuur, distante circa sei chilometri.
«Rispondi, ti prego, a questa mia franca domanda» gli stava chiedendo Davies. «Stiamo forse per essere spazzati via?»
Willmot non poté temporeggiare troppo. «Ti dirò ciò che non direi a nessun altro uomo dell’Unione Sudafricana» dovette ammettere. «Per la prima volta in vita mia ho paura, e credo proprio che stiamo per esserlo.»
Era una confessione scoraggiante, poiché nessuno meglio di Willmot e del suo capo, dottor Jasper Anderson, sapeva che Cape Town era una città in ginocchio. Lungo tutta la penisola, da Seepunt, giù per i tuguri di Salt River e di Woodstock, fino alle lussuose residenze in legno di False Bay, il morbo non risparmiava né uomini, né donne, né bambini. Nei cervelli di Willmot e di Anderson risuonava inespressa la domanda che solo Davies aveva avuto il coraggio di formulare: fino a quando Cape Town avrebbe potuto tirare avanti?
Per entrambi i medici, inoltre, c’era l’amara constatazione che il governo dell’Unione – il quale risiedeva a Pretoria, a quasi millecinquecento chilometri di distanza – non aveva preso nessuna iniziativa per combattere il morbo che ora stava imperversando nella zona del Capo. Il 1° settembre precedente era giunta loro notizia che in Sierra Leone cinquecento stivatori neri erano stati colpiti dall’influenza, ma sempre il ministero della Sanità aveva insistito che i problemi locali dovevano essere affrontati dalle autorità locali. Cape Town aveva dovuto quindi cavarsela da sola.
Ciò che era seguito era negligenza vergognosa. Il 13 settembre, il piroscafo Jaroslav, proveniente dalla Sierra Leone, era entrato nella Baia della Tavola di Cape Town. Recava a bordo millecinquecento soldati del Genio, di ritorno dal servizio militare. In un viaggio da incubo durato nove giorni, novanta di loro erano già morti di spagnola, senza che nessuno avesse pensato di preavvertire Anderson. In ogni caso, soltanto un mese dopo – il 14 ottobre – il governo dell’Unione dichiarava l’«epidemia influenzale» malattia «per la quale è necessario l’isolamento».
Così, data la situazione, né Anderson né Willmot avevano avuto la facoltà di impedire a tutti coloro che fossero stati in grado di superare con passo vacillante la passerella dello Jaroslav l’ingresso a Cape Town o di prendere il treno per le città, i villaggi e i kraals di tutto il Sudafrica.
Pochi giorni dopo, i medici inorriditi potevano vedere la pandemia per quello che era esattamente: un livido mortifero cavaliere, che batteva persino la guerra. Lungo Adderley Street, la strada principale di Cape Town, uomini e donne si fermavano di colpo come se fossero stati pugnalati, aggrappandosi disperatamente ai lampioni o ai pali telegrafici, quindi scivolavano – agonizzando a poco a poco – e cadevano a terra in stato di incoscienza.
All’improvviso iniziò una disperata gara contro il tempo. I malati andavano soprattutto nutriti: per la prima volta nella storia, la «mensa dei poveri» (ormai cosa di ordinaria amministrazione in Europa) raggiunse i luoghi più riposti. Anderson e Willmot avevano rivolto un pubblico appello alle donne della città perché preparassero pentoloni di minestra, ma, benché le volontarie non mancassero, ecco che si era presentato un altro problema: i macellai erano tutti troppo malati per macellare gli animali. Ma al momento opportuno cento studenti di medicina dell’Università di Cape Town si fecero avanti a colmare il vuoto cedendo il bisturi in cambio della mannaia.
Il municipio venne ben presto ad assomigliare a un immenso supermercato: quarti di bue crudi erano ammucchiati alla rinfusa fra bastoni di pane, sacchi di patate, eleganti piramidi di carote e cipolle, un autentico ossario di ossi per brodo. Non mancavano nemmeno i medicinali, perché Anderson doveva rispondere normalmente a ottomila richieste al giorno. Ma ora cominciava a presentarsi una nuova situazione critica. La malattia colpiva così duramente e velocemente che molte famiglie nomsn avevano neppure un solo membro in grado di recarsi in un magazzino a ritirare le provviste.
La risposta a questo era stata un maggior numero di volontari, anche se, per quanto Anderson e Willmot disponessero di un continuo servizio navetta fornito da centocinquanta auto private e ventisette camion, ne sarebbero serviti ancora di più.
Di qui il sollievo di Willmot dopo la telefonata di William Davies perché, sebbene l’uomo d’affari avesse preteso di sapere come stavano realmente le cose, aveva ancora da proporre un’utilissima azione pratica. Davies chiedeva ora con urgenza: «Mi puoi affidare la Scuola superiore femminile Ellerslie di Seepunt?».
«Ma per farne che?»
«La trasformerò immediatamente in un ospedale.»
Willmot provò un travolgente senso di conforto perché sulla strada aperta da Davies altri eminenti cittadini di Cape Town, dirigenti di società, avvocati e simili, l’avrebbero certamente seguito come volontari. Pieno di gioia, gli rispose: «Dacci dentro, allora! E se qualcuno ti si oppone, sfonda le porte e mandalo da me».
Prima di riagganciare il microfono, gli venne in mente un vecchio proverbio bantù destinato a divenire la parola d’ordine del Sudafrica nei giorni di battaglia a venire: «Ningadinwa nangomso» (Non stancarti, fino a domani).
Presto sarebbe sorta l’alba. Sugli oltre tremila chilometri quadrati del Witwatersrand (la cresta delle Acque Bianche), la più estesa regione aurifera del mondo, una morbida luce giallina avrebbe colorato i monticelli di sabbia delle discariche della miniera. Le ciminiere della centrale macchine, le enormi ruote delle apparecchiature di ventilazione, tutte si stagliavano, nere e ischeletrite, contro il pallido cielo. Erano le tre del mattino del 1° ottobre 1918.
Al pozzo Farrar, nel distretto di Driefontein delle East Rand Proprietary Mines, a oltre centocinquanta chilometri da Bloemfontein, per l’operatore William Hill mancavano ancora tre ore alla fine del turno di lavoro. Ora, mentre era ai comandi della macchina di ventilazione, Hill era impegnato anche in un altro compito abituale: far risalire la gabbia d’acciaio stipata di ben quaranta minatori Basotho da una profondità di più di trecento metri nelle viscere della terra fino alla superficie.
Per un attimo il suo sguardo si soffermò su un avviso: «In caso di influenza spagnola: qualora si sentisse indisposto, l’operatore blocchi immediatamente il congegno di risalita e avverta il sorvegliante». Operatore coscienzioso, con nove anni di esperienza di lavoro, Hill comprendeva perfettamente quello che ciò stava a significare; erano già dieci giorni che quel cartello era affisso sul muro del locale. Ancora non avvertiva alcun segno premonitore.
Di colpo un sudore gelido gli inondò il corpo. Tutta la forza sembrò svanirgli dalle membra, ma egli si rese conto con improvvisa disperazione che doveva bloccare il congegno a tutti i costi. Si alzò, aggrappandosi alla leva d’inversione e a una delle leve dei freni.
«Impossibilitato ad agire», Hill ricadde all’indietro sul sedile. La sua mente era ancora lucidissima, ma davanti agli occhi gli stavano esplodendo «una quantità di luci». Non riusciva più a vedere le proprie le mani. Queste (benché egli lo ignorasse) restarono impotenti sulla leva del freno, mentre invece veniva azionata la leva d’inversione di marcia.
Dall’anello in muratura che circondava il pozzo come misura precauzionale contro eventuali improvvise inondazioni, il sorvegliante Carl Celitz rimase a guardare pietrificato dall’orrore. La gabbia aveva superato la bocca del pozzo e ora stava continuando a salire verso l’alto, contro l’incastellatura. Nel buio diverse campane presero a suonare freneticamente, la campana d’allarme, la campana del sorvegliante. Ma in quel momento, con un rumore lacerante di materiale infranto, la gabbia colpì l’incastellatura, e l’eccessivo peso spezzò il cavo di sollevamento come se fosse una semplice cordicella.
Precipitando a una velocità di oltre trecento metri al minuto, la gabbia uscì dalle guide e ripiombò verso il basso, per andare a fracassarsi con un cozzo orrendo sull’anello armato in legno dell’imboccatura del pozzo, trenta metri più sotto.
Il pompiere William Ackerberg, il primo a raggiungere il luogo della sciagura, si trovò di fronte uno spettacolo impressionante: la gabbia, capovolta, incastrata nella bocca del pozzo… neri volti senza più vista illuminati drammaticamente dalla luce di una lanterna a vento… picconi, elmetti, lampade di sicurezza e scatole con la colazione, tutto sparpagliato in una terribile confusione fra morti e moribondi.
Nella centrale macchine, frattanto, Hill era ritornato totalmente padrone di sé e azionava con energia entrambe le leve dei freni.
Ben presto un dottore doveva attestare che William Hill era stato vittima di un attacco di spagnola, e, di conseguenza, l’inchiesta avviata sulla sciagura l’avrebbe assolto da qualsiasi negligenza criminale. Pallido e sconvolto, in quel momento egli stava uscendo dalla centrale macchine in cerca di un soccorso medico. A est, il cielo stava schiarendosi, in un’alba che ventiquattro minatori Basotho non avrebbero più potuto vedere.
Per tutti coloro che erano responsabili di vite umane, quelle furono ore di ansia: e fra costoro ci furono soprattutto il capitano Edward Davidson dell’Otranto e il capitano Edmund Bardett del Kashmir.
Esattamente da quella notte fatale vicino ai Grandi Banchi, quando il brigantino Croisine aveva colpito il fianco sinistro dell’Otranto, la sventura nelle vesti dell’influenza spagnola aveva preso a perseguitare il convoglio HX-50. E anche se l’irsuto capitano del Croisine, Jules Le Hoerff, e il suo equipaggio provenivano dalla zona di Terranova dove la malattia imperversava, non c’è dubbio che parecchi casi dovevano essere sfuggiti ai controlli medici ancor prima che le navi lasciassero New York.
Ora, il 2 ottobre, mentre l’Otranto, dopo la collisione, procedeva a tiraggio forzato per raggiungere il convoglio, la morte giunse sulle acque. Le macchine della nave dovettero di nuovo ridurre la velocità al minimo, e, salutata da una salva di fucileria, la prima vittima dell’influenza, il soldato semplice Lonnie Smith di Fort Screven, venne fatta lentamente scivolare fuori bordo, avvolta nella bandiera americana.
A partire dal 3 ottobre quasi tutte le navi del convoglio inalberavano la bandiera a mezz’asta.
Le più colpite furono il Kashmir e l’Otranto. Quest’ultima il 5 ottobre aveva registrato un secondo decesso, mentre a bordo del Kashmir l’infermeria di poppa era talmente affollata che i malati venivano adagiati sulle tavole della mensa, con le gambe dell’uno che quasi si sovrapponevano a quelle dell’altro. Ben presto i medici dovettero fare delle scelte prioritarie: nessun uomo con temperatura inferiore ai 40 °C era suscettibile di cure. Trovandosi di fronte a centinaia di ammalati e a una sola cassetta di limoni (di qualche utilità come febbrifughi), il cappellano del 126° artiglieria da campagna trovò che solo con una lametta di rasoio si ottenevano fette sufficientemente sottili.
Così, alle otto e quarantatré del mattino di domenica 6 ottobre, mentre un uragano forza 11 flagellava l’Atlantico al largo della costa dell’Irlanda del Nord, quasi tutti gli uomini del convoglio stavano battendosi per rimanere almeno in vita. E a bordo dell’Otranto almeno cento marinai erano talmente prostrati per l’influenza che non avrebbero potuto muoversi nemmeno se da ciò fosse dipesa la loro vita (il che, tragicamente, doveva avvenire).
Ormai, ogni nave era irrimediabilmente perduta: sotto l’urto della tempesta da sudovest, erano sfuggite alla scorta degli incrociatori e stavano procedendo su una rotta stimata, che era almeno venti miglia a nord di quella vera e che ora le portava in vista dell’isola scozzese di Islay. Fu sfortuna nera che il capitano Davidson, dalla plancia dell’Otranto, si accorgesse solo allora che il Kashmir stava virando di bordo accostando fatalmente la sua nave. E troppo tardi di nuovo egli diede l’ordine: «Tutto a sinistra!».
Al di sopra della furia gemente della tempesta, sulla plancia del Kashmir, Bartlett udì i fischi d’allarme della sirena dell’Otranto e subito ordinò: «Tutto a dritta!». Ma, in un modo o nell’altro, nel giro di pochi secondi l’ordine fu invertito: e anche il Kashmir venne tutto a sinistra. L’epidemia, ormai, aveva colpito tanto duramente che ciascuno aveva difficoltà a capire gli ordini e riusciva a stento a obbedire.
I pochi soldati sui ponti dell’Otranto si trovarono così ad assistere a uno spettacolo che li spinse a correre qua e là per cercare di salvarsi: la prua nera e acuminata del Kashmir che si delineava attraverso la nebbia e la pioggia come un mostruoso leviatano sulla cresta di un’onda di oltre dieci metri. Poi, con un orrendo stridore di acciaio contro acciaio, il Kashmir aprì uno squarcio di quasi tre metri nel fianco sinistro dell’Otranto al di sotto della linea di galleggiamento… penetrando come una lama nella sala macchine al di sotto delle caldaie di prora e di poppa… facendovi annegare in pochi secondi tutto il personale.
Dalla plancia del Kashmir il capitano Bardett, come colpito al cuore, non riusciva a distogliere lo sguardo: non appena l’acqua raggiunse i fuochi dell’Otranto, un immenso getto di vapore si levò al cielo. Sembrava quasi che la nave morente avesse esalato il suo ultimo respiro.
In un certo senso, ciò rispondeva a verità. I cento colpiti dall’influenza che si trovavano sottocoperta non avevano più avuto alcuna possibilità di salvezza; inoltre, alle dieci del mattino, allorché il cacciatorpediniere britannico Mounsey si avvicinò a tutto vapore alla scena della tragedia, dopo aver ricevuto i segnali di SOS da una radio trasmittente d’emergenza, l’epidemia doveva intralciare spietatamente persino le operazioni di salvataggio. Come il comandante del Mounsey, il capitano di corvetta Francis Craven della marina militare di Sua Maestà britannica, poté notare, per i sopravvissuti l’unica speranza di salvarsi stava nel balzare dal lato di dritta dell’Otranto sul cacciatorpediniere che si sarebbe portato sottobordo.
Afferrando il megafono, il capitano Davidson obiettò: in quelle acque sconvolte, il rischio del Mounsey era troppo grande. Ma Craven – che per questa impresa si sarebbe guadagnato una delle ultime Victoria Cross della Prima guerra mondiale – diede prova di cortesia e di fermezza: «Sto venendo sottobordo. Per favore, ammaini le sue lance di sottovento perché fungano da parabordi».
Così, per diverse volte (otto secondo alcuni resoconti, quattro secondo altri) il piccolo Mounsey si affiancò intrepidamente, pericolosamente, all’Otranto. Ma anche più volte numerosi uomini abbrutiti dal male non riuscirono nemmeno a compiere lo sforzo finale e persero l’appiglio per il piede precipitando da oltre cinque metri nelle onde ribollenti o finendo tagliati di netto in due sulle corazze del ponte del Mounsey affilate come lame.
Uno dei molti che non riuscirono a salvarsi fu il capitano Jules Le Hoerff. Non riuscì a cadere sul Mounsey e stava dibattendosi in acqua, quando il suo terranova lo scorse; prima che qualcuno pensasse a trattenerlo, l’animale aveva saltato la battagliola: teneva già saldamente tra i denti il collo del giaccone di Le Hoerff quando un’onda gigantesca si abbatté su di loro sommergendoli per sempre.
Quelli che sopravvissero ci riuscirono per un soffio. T.L. Campbell dell’Associazione dei giovani cr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La spagnola
  4. I. «Amici miei, questo è il primo». 3 settembre-12 settembre 1918
  5. II. «Ora muoiono in ragione di cinque o sei al giorno». 13 settembre-30 settembre 1918
  6. III. «Stiamo forse per essere spazzati via?». 1º ottobre-8 ottobre 1918
  7. IV. «Ma se è di queste sporche bestiacce la colpa della malattia!». 9 ottobre-12 ottobre 1918
  8. V. «Quattro pastiglie di chinino e un mucchio di paglia per morire». 13 ottobre-21 ottobre 1918
  9. VI. «Dio solo lo sa!». 22 ottobre-26 ottobre 1918
  10. VII. «Dottore, dottore! Faccia qualcosa!». 26 ottobre-30 ottobre 1918
  11. VIII. «Prenderò ordini dai morti». 31 ottobre-4 novembre 1918
  12. IX. «Siamo come pastori che aggiustano lo steccato». 4 novembre-11 novembre 1918
  13. X. «Non ho avuto altro che baci, da stamattina!». 11 novembre-30 novembre 1918
  14. XI. «Esistono solo uomini che soffrono». 1º dicembre-9 dicembre 1918
  15. XII. «È terribile perderne sei». Dopo il 9 dicembre 1918
  16. Epilogo
  17. Note sull’influenza
  18. Le fonti italiane
  19. Fonti bibliografiche
  20. Ringraziamenti
  21. Copyright