Vivere, pensare, guardare
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Vivere, pensare, guardare

  1. 336 pagine
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Hustvedt esplora memoria e percezione, si addentra nei meccanismi del linguaggio e della letteratura, girovaga tra dipinti e fotografie. Il paesaggio cambia, ma a ben vedere presenta una costante: l'emozione, ora flessa in una delle sue forme e integrata nello sfondo, ora nitida nella sua natura di strumento indispensabile alla sopravvivenza. E qua e là, tra Freud, Damasio e Goya, spuntano ciuffi di colore - un omino e un bue rosa, dei fiori rossi in un vaso, una bottiglietta di vetro verde - ma anche gli abiti delle dive dei vecchi film in bianco e nero. Che denunci i trucchi della retorica politica post 11 settembre o rifletta sull'umanità dello sguardo di una Madonna col bambino trecentesca, Siri Hustvedt ha il dono di una rara appassionata lucidità.

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Informazioni

Pensare

La storia vera

Nel 1996 mi sono imbattuta in un articolo del «New York Times Magazine» che parlava del boom dei memoir in editoria e ho letto questa frase: «Se scrivesse oggi della sua voglia di osservare giovani affascinanti che conficcano spilloni in topi vivi, Proust non si nasconderebbe dietro al narratore del suo romanzo. Alla ricerca del tempo perduto sarebbe un memoir»1. Ho trovato quel commento molto fastidioso e non l’ho mai dimenticato. L’implicazione è che mentre un tempo serviva da comodo paravento per materiale privato tabú, ora la fiction è sopravvissuta alla sua finalità in una cultura confessionale che permette, e persino accoglie favorevolmente, qualsiasi rivelazione, per quanto sordida sia. È improbabile che l’autore, James Atlas, fosse davvero convinto della sua dichiarazione – le sue frasi hanno il tono ironico e altezzoso che ormai ci si aspetta da buona parte del giornalismo culturale –, ma è comunque interessante meditare sulle differenze tra memoir e romanzo e vedere cosa emerge da queste riflessioni. È indubbio che Proust e molti altri romanzieri abbiano preso in prestito dalla vita eventi, sensazioni, pensieri e persone, trasportandoli in un modo o nell’altro nei loro lavori. Gli studiosi hanno diligentemente sezionato la biografia di Proust in cerca di brandelli della sua esperienza «reale», proprio come hanno analizzato e rianalizzato i sette volumi del suo capolavoro. Ma i due Marcel, quello della vita e quello della finzione, non sono identici. Anche quando c’è una spiccata somiglianza tra un autore e un suo personaggio, i due rimangono distinti. E che dire di un’autrice e della sua «persona» in un lavoro autobiografico? La questione tocca il confine misterioso tra ciò che consideriamo reale e ciò che percepiamo come inventato.
La fiction nasce in una zona mentale di libera creatività da cui il memoir è (o dovrebbe essere) escluso, dal momento che quando qualcuno sceglie un libro definito «memoir» si aspetta che l’autore abbia scritto la verità. Il patto tacito tra scrittore e lettore è semplice: l’autore non prevarica. Il patto vale anche se i ricordi espliciti, consci, sono solo una frazione di ciò che conserviamo implicitamente, inconsciamente, e se le memorie autobiografiche non sono stabili ma, come Freud ha ripetutamente osservato, soggette a cambiamenti. I ricordi vengono rielaborati nel tempo, e il loro significato cambia mentre invecchiamo, un fenomeno che ora viene riconosciuto dalle neuroscienze e definito «consolidamento» della memoria. Richiamare un ricordo non equivale a recuperare dei fatti originali archiviati nel «disco fisso» del cervello. Ciò che emerge è l’ultima versione memorizzata di un dato episodio. Allo scrittore di memoir non viene chiesto di assumere un punto di vista esterno, ma di vivere pienamente il suo ruolo in prima persona e scrivere quello che ricorda. Ciò detto, io e mio marito, che ormai viviamo insieme da quasi trent’anni, spesso ricordiamo lo stesso evento in modo diverso. Lui è convinto che quando nostra figlia ci ha annunciato di voler lavorare nel mondo dello spettacolo eravamo in metropolitana; io dico che è successo in taxi. Sophie, l’oggetto della disputa, non ricorda dove è avvenuto né cosa ha detto esattamente. A sconcertarmi di piú, comunque, è il fatto che un ricordo che considero mio secondo lui rientra nella sua proprietà mentale privata. Dice di ricordarselo perfettamente e di essere sicuro che io mi sbagli. Uno di noi ha torto. Ciò che questo aneddoto chiarisce sulla memoria è che quando ascoltiamo una persona che racconta una storia, forse soprattutto una persona con cui siamo in intimità, il racconto può produrre un’immagine mentale cosí vivida da entrarci in testa come esperienza soggettiva nata fuori dalla mente, non al suo interno. L’io adotta la versione del tu. Il ricordo, come la percezione, non è un recupero passivo, ma un processo attivo e creativo che coinvolge l’immaginazione. Reinventiamo continuamente il passato, ma non lo facciamo apposta. L’inganno, per quanto grande, non è sinonimo di menzogna. Sappiamo quando stiamo mentendo. Mentire è una forma di doppia coscienza in cui ci sono due enunciati: uno espresso a voce o per iscritto, l’altro taciuto, celato. Lo sdegno pubblico per i memoir che sono in verità fiction suggerisce che il patto tacito relativo alle opere di non-fiction è ancora valido, benché molti autori di memoir sembrino dotati di una capacità sovrannaturale di rievocare il passato.
Nel corso degli anni mi è capitato piú volte di sentire dei romanzieri definirsi «bugiardi di professione», come a sottolineare il fatto che gli autori di fiction possono inventare tutto e, a differenza dei colleghi che scrivono non-fiction, non sono obbligati a descrivere cose davvero accadute. Questo è indubitabilmente vero, eppure ho sempre rifiutato l’idea che il romanzo sia una forma di menzogna: d’accordo, alcuni romanzi mentono, ma quelli validi no. Come può un romanzo essere ingannevole? Non ci si può rifare a uno standard assoluto. Se voglio che il narratore del mio romanzo nasca negli abissi dall’occhio di una piovra gigante, chi me lo può impedire? Se invece comincio cosí la mia autobiografia, qualcuno avrà da obiettare. C’è infatti un certificato di nascita che prova una realtà diversa. Però potrei cominciare un memoir con una madre acquatica a otto zampe se quella fosse stata una mia fantasia precoce. Quando mia nipote Ava aveva tre anni, ripeteva di continuo ai suoi genitori di essere nata da un uovo cinese. Né la madre né il padre sono riusciti a rintracciare l’origine di quel mito personale. E nessun giornalista ambizioso può documentare la veridicità della mia vita immaginativa interiore. Le menzogne che hanno messo nei guai gli autori di memoir sono invariabilmente bufale che possono essere identificate controllando gli archivi di stato. La polemica su In un milione di piccoli pezzi di James Frey ruotava intorno al fatto che l’autore aveva esagerato o addirittura inventato i suoi reati e l’arresto, rendendoli peggiori di quanto fossero in realtà. Come un romanziere, aveva creato una «persona» narrante, che a quanto pare preferiva a un se stesso piú innocuo e forse piú risibile. Frey si era nascosto dietro al narratore del suo memoir, che fungeva da mezzo di travestimento romanzesco, ma nella non-fiction e nella fiction esistono anche altre e piú complesse questioni in tema di maschere e rivelazioni, le quali vanno ben al di là della scelta di riscrivere la propria storia di dipendenza patologica per renderla piú d’impatto.
Molti memoir di successo si leggono come romanzi. Prendono infatti in prestito le convenzioni comunemente accettate, o meglio i cliché, di tale genere letterario e le usano nella scrittura autobiografica. In questi «memoir» ho letto elaborate descrizioni di fisionomie, abiti, stanze e paesaggi, nonché pagine su pagine di dialoghi continui. Francamente, quei brani mi sembrano improbabili, se non impossibili. Anche se ricordo ad esempio le stanze della casa in cui sono cresciuta, gli interni che ho occupato per brevi periodi – un ostello a Londra, diciamo, quando avevo diciassette anni – sono svaniti dalla mia mente o sono stati sostituiti da qualche vago ma verosimile spazio inventato. Rammento un paio di frasi pronunciate anni fa da persone per me importanti e il succo di qualche conversazione significativa, ma non potrei mai riprodurne una parola per parola, e nemmeno ci proverei. Non riesco neppure a rivedere con l’occhio della mente il viso di mia madre al tempo in cui io ero piccola, ragion per cui ogni tanto recupero delle fotografie per rinfrescare la sua immagine da giovane. Eppure io ho una memoria visiva abbastanza buona. Il genere piú diffuso di memoir ha poco a che fare con le particolarità della memoria umana. È diventata una forma letteraria di successo, spesso plasmata sul modello del romanzo medio e, come ogni genere ormai irrigidito, si porta dietro una serie di aspettative. Molti dei memoir che negli ultimi anni sono stati tacciati di frode (piú o meno grave) hanno in comune una sola cosa, cioè il fatto di raccontare storie di sopravvivenza ispirata: il libro di Frey, la storia d’amore nel campo di concentramento di Herman Rosenblat, Angel at the Fence, e il racconto di Margaret P. Jones sull’adolescenza nelle gang violente, Love and Consequences, seguono fondamentalmente la stessa linea narrativa. Superando ogni ostacolo, alla fine l’eroe, o l’eroina, trionfa. In ciascuna storia c’è un ostacolo – tossicodipendenza, orrori nazisti, bande di strada. Benché non si possano certo definire ostacoli analoghi, la narrazione piú ampia in cui si collocano è la stessa e sfrutta un profondo desiderio umano: sconfiggere il problema di turno e sopravvivere, non come un relitto umano debole e traumatizzato, ma come una figura forte, nobile, rinata.
Il meccanismo narrativo di queste storie è vecchio quanto la letteratura stessa. Il personaggio dell’imbroglione che raggira la morte compare in molte culture tribali e popolari. Ulisse alla fine torna a casa. I sette viaggi dell’inimitabile marinaio Sinbad sono racconti di sopravvivenza per antonomasia: volta dopo volta, grazie al caso o ai suoi stratagemmi, si salva dalle grinfie della morte, spesso letteralmente – serpenti, mostri marini, volatili giganteschi, cannibali. Il personaggio fiabesco proprio di molteplici tradizioni deve affrontare moltissime avversità, ma alla fine riesce ad averla vinta sul male. Moll Flanders, l’inaffondabile eroina di Defoe, subisce numerosi torti e gli incredibili alti e bassi della sorte, ma muore di vecchiaia, e persino penitente. Questi personaggi hanno un irresistibile fascino darwiniano. Come Wile E. Coyote dei Looney Tunes della mia adolescenza, hanno la meravigliosa capacità di rimettersi in piedi. Ovviamente ci sono anche storie vere, di gente che supera ogni ostacolo, che nonostante le esperienze grottesche non finisce in un ospedale e che va avanti con molto piú di una rassegnazione beckettiana.
Nel libro Abnormalities of Personality, Michael H. Stone, un professore di psichiatria clinica, presenta brevemente ai lettori due casi di uomini che hanno vissuto un’infanzia all’apparenza ugualmente orribile. Entrambi erano estremamente introversi. Entrambi avevano genitori che li maltrattavano ed entrambi erano vittime di molestie sessuali e violenze. Uno era paziente di Stone, «un uomo decisamente paranoico» che dopo anni di inerzia e terapia era riuscito a riprendere gli studi universitari. L’altro era Jeffrey Dahmer, il famigerato serial killer. «Il punto di queste storie, – scrive il dottor Stone, – è che se uno dei due fosse stato identificato in anticipo come serial killer, quasi tutti avrebbero detto: “Be’, con un passato cosí!”»2. Le storie vere però non si possono mai raccontare «in anticipo», ma solo con il senno del poi. Non so se il paziente di Stone o chi ha un vissuto simile abbia un temperamento genetico particolarmente robusto, o se ci sia stato qualcuno nella sua storia – insegnante, zia, nonna o fratello – che l’ha aiutato a evitare il peggio. Ma il commento di Stone è attinente al memoir: non esiste formula per predire l’evoluzione di una particolare storia umana. Eppure, sebbene con il tempo mutino, ci aggrappiamo a schemi narrativi standard. Basti pensare a tutte le storie di donne sedotte e disonorate nei romanzi del XVIII e XIX secolo. Gli abusi sessuali sui bambini e la conseguente rovina delle vittime sono narrazioni piú contemporanee, ma persino questa categoria esplosiva, che include tutto, dai palpeggiamenti negli spogliatoi allo stupro piú brutale, non può valere come spiegazione per una vita intera. Anche se anni di ricerca sui fenomeni di attaccamento – le dinamiche psicobiologiche dei legami emotivi tra il bambino e chi se ne prende cura – hanno dimostrato quanto le prime interazioni siano vitali per lo sviluppo personale e che esiste una correlazione tra violenze o abbandoni durante l’infanzia e problemi psichiatrici in età adulta, dobbiamo essere cauti nel fare semplici equazioni. Fraudolenti o veritieri, molti memoir condividono il piú ampio bisogno culturale di semplificare complesse realtà umane facendone un pacchetto vendibile come vittimologia. In questo non sono per nulla diversi da molti romanzi popolari che sfruttano esattamente la stessa formula ma sono privi del marchio di realtà.
Le opere autobiografiche falsificate, del tutto o in parte, non esisterebbero se nel mercato americano contemporaneo non venissero apprezzate piú della fiction. Quando fu proposto alle case editrici come romanzo, il libro di Frey venne rifiutato. Se gli editori fossero ugualmente attratti dalle storie di fantasia, saremmo inondati di infinite versioni del roman à clef. Delinquenza reale, sesso reale, abiezione reale, reality tv, star del cinema che si umiliano in pubblico e in privato sono il cibo quotidiano dei media. Le nostre numerose tecnologie ci danno accesso ad alte dosi di Schadenfreude o ispirazione, a seconda dei punti di vista. Ma neanche questa è una novità. Da quando l’alfabetizzazione si è diffusa, la gente divora storie, sia vere che inventate, che stimolano e turbano. In Inghilterra, man mano che nel tardo Seicento e nel Settecento il pubblico di lettori cresceva, aumentava anche il materiale necessario a soddisfarne i bisogni. Le biografie dei criminali erano molto popolari e venivano spesso pubblicate come economici libriccini tascabili o fogli singoli. Un titolo tipico: Notizie da Newgate, o resoconto veritiero e accurato dei processi piú importanti a diversi malfattori tristemente noti. Le parole «veritiero» e «autentico» ricorrono di continuo in questa letteratura. Apprezzatissimi erano anche i brevi rapporti illustrati venduti alle esecuzioni pubbliche e i fedeli resoconti dei processi a Old Bailey, il maggior tribunale criminale di Inghilterra e Galles, sempre scritti con un occhio all’intrattenimento. Anche i giornali, con le loro storie di delitti, arresti e processi, erano in competizione su questo mercato:
17 settembre 1734. Ieri Mary Freeman, alias Frisky Nan ma comunemente detta Diving Moll, è stata rinchiusa nella Gatehouse di Westminster su ordine del giudice Cotton per aver rubato dalle tasche di un gentiluomo 15 guinee, una tabacchiera d’argento e due anelli d’oro di notevole valore. («Daily Journal»)
Lo stesso giorno la «famigerata Moll», ma con il soprannome di Talboy, ottiene uno spazio molto piú ampio sul «Grub-Street Journal». Al lettore viene detto che questa «creatura», che i giudici definiscono «persona indolente e riottosa», era spalleggiata da «noti giocatori d’azzardo e bari di Covent Garden» e avvezza ad «attirare giovani inesperti per depredarli». L’autore dell’articolo aggiunge poi un pizzico di pathos: «e la povera Moll, con sua grande mortificazione, fu rispedita a battere la canapa fino alla successiva udienza trimestrale». Ben presto entra in gioco il romanzo, allora in fase di sviluppo, e le storie inventate di crimini, dissolutezza e seduzione iniziano a contendersi con quelle «vere» l’attenzione dei lettori.
Oggi il mondo è cosí invaso da romanzi e da racconti d’avventure che è difficile per una storia di cronaca esser presa per vera, specie se il nome e lo stato del personaggio sono taciuti, e per questo motivo dobbiamo limitarci ad accettare che il lettore si faccia l’opinione che preferisce delle pagine che seguono, e le prenda come meglio gli pare3.
Ecco le prime, ambigue frasi della prefazione alla storia di un’altra Moll, la Moll Flanders dell’omonimo romanzo di Daniel Defoe. L’editor fittizio informa il lettore che esiste un manoscritto originale, ma che lui l’ha riscritto per depurarlo da tutto ciò che avrebbe potuto essere moralmente disdicevole. Ciò che il lettore ha tra le mani è una «nuova veste del racconto». Moll – la cui saga in prima persona narra di povertà estrema, furti, prostituzione, cinque matrimoni con tanto di bigamia, numerosi figli (tutti morti o abbandonati tranne uno), carcere, deportazione e rieducazione finale – è una creatura nata dal genere popolare della biografia criminale mescolato a un’altra forma in ascesa nel Seicento: l’autobiografia spirituale protestante in cui il peccatore trova la strada per raggiungere Dio e la redenzione. Molti memoir recenti condividono questo identico passaggio da uno stato di dannazione – abuso, dipendenza, handicap o malattia potenzialmente letale – al riscatto, grazie a un atto di volontà o un’illuminazione personale di qualche tipo. Le forme abitualmente usate per narrare storie di vita vera – memoir, lettere, verbali di processo, biografie di prostitute e malviventi – contagiarono la narrativa settecentesca perché profondamente associate all’idea che ritraessero la gente comune come era davvero.
L’idea di autenticità e realismo era essenziale per la raison d’être di quei primi romanzi, anche se questi non includevano prefazioni di editor che sostenevano di aver ripulito una confessione genuina per lettori pudichi. In Tom Jones il narratore di Fielding, pur con massicce dosi di ironia, ribadisce regolarmente che la sua storia corrisponde a verità: «il nostro compito è quello di riferire i fatti cosí come sono; da parte sua...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Vivere, pensare, guardare
  3. Prefazione dell’autrice
  4. Vivere, pensare, guardare
  5. Vivere
  6. Pensare
  7. Guardare
  8. Note
  9. Ringraziamenti
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright