Prigioni della mente
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Prigioni della mente

Relazioni di oppressione e di resistenza

  1. 152 pagine
  2. Italian
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Prigioni della mente

Relazioni di oppressione e di resistenza

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La ragazza americana con l'iracheno al guinzaglio. Un'immagine simbolo degli orrori della guerra. Due esseri umani travolti dalla violenza della storia e consegnati alla memoria collettiva. Una nel ruolo biasimevole di aguzzino. L'altro in quello compassionevole di vittima. Entrambi messaggeri di emozioni e cognizioni che vorremmo poter respingere lontano, confinandole in un altrove spazio-temporale.
Partendo da questa vicenda emblematica, il libro di Adriano Zamperini, con lo sguardo dello psicologo sociale, conduce il lettore là dove piú stringenti sorgono gli interrogativi. Dentro tre prigioni. Guantanamo, lembo di terra cubana. Stanford, seminterrato del dipartimento di psicologia. Londra, studi della Bbc. La prima, tragicamente reale. La seconda, una simulazione sperimentale degenerata in dramma. La terza, un'architettura carceraria stile Grande Fratello. Luoghi diversi eppure accomunati dalla medesima condizione: il loro essere siti dell'oppressione e della resistenza. Che cosa accade a persone comuni quando agiscono in situazioni estreme? Qual è il comportamento esibito da chi veste i panni di guardia e da chi assume il ruolo di prigioniero?
L'analisi delle relazioni che si instaurano tra le parti segregate in questi luoghi diventa materia indispensabile per comprendere la condotta umana. E per una presa di coscienza dei nuovi volti assunti dal male, anche e soprattutto all'interno delle società democratiche. Fornendo al contempo le coordinate per smascherare quei discorsi e quelle pratiche che pretendono di imprigionare le nostre menti dentro una realtà onnivora e univoca.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858414347
Categoria
Sociology

Capitolo terzo

Persone comuni in situazioni estreme

Pertanto, chi avesse indossato una tuta disindividuante sarebbe diventato un Signor Ciascuno.
PHILIP K. DICK
1. Chi siamo, dove siamo.
Per quale ragione i detenuti sono cosí propensi alla violenza? Come mai i secondini sono crudeli? Per molti, le risposte a questi interrogativi appaiono ovvie e scontate. I prigionieri sono violenti perché criminali, persone disadattate e antisociali prive di senso morale, profondamente insensibili alla sorte altrui. Le guardie sono brutali perché solo individui brutali scelgono di diventare agenti di custodia. «Dormienti» che, risvegliatisi dal letargo, prontamente, per propri peculiari bisogni o grazie a una cultura della sopraffazione diventata legittima, danno libero sfogo alle loro sinistre potenzialità. Le condizioni disumane del carcere e i rapporti spietati tra guardie e prigionieri trovano un semplice e rassicurante colpevole. È la «natura» di chi amministra simili istituzioni e di chi vi è recluso la causa prima del clima da deserto civile che le opprime. Una natura, sia essa innata oppure appresa, che ospita tendenze aggressive e sadiche. Quindi le negative disposizioni soggettive di coloro che, seppure con ruoli diversi, affollano un luogo di segregazione sarebbero radici del male. Nemiche dell’umanità, capaci di corrompere qualsiasi forma di pacifica e tollerante convivenza. Poggiando su tali argomentazioni, i tentativi che aspirano a estirpare violenza e degradazione devono allora indirizzare la loro azione all’interno del perimetro delle singole personalità, affinché possano essere bonificate. È interessante notare come sia chi sostenga la tesi della rigorosa sorveglianza e della punizione esemplare di fronte ai «cattivi semi» della società, come pure chi la critichi, attribuendo alla condotta dispotica dei custodi la fonte di ogni male, non facciano altro che aderire al medesimo assunto di base: l’ipotesi disposizionale.
Se invece il comportamento umano non è tanto il prodotto di caratteristiche piú o meno autonome interne agli individui, quanto piuttosto un precipitato contingente, accasato nei vari ambienti sociali, allora un altro scenario si dischiude. Da questo punto di vista, non è cruciale «chi siamo» ma «dove siamo». L’attenzione è catturata dal legame tra individuo e istituzione (o società), guardando dal basso la trama di rapporti instauratisi. L’interazione occupa la scena, non le singole entità che la producono. Diventano salienti gli atti che scandiscono il contatto diretto tra attori, non la loro soggettiva psicologia individuale. Ebbene, l’azione prende il sopravvento sull’essere. La tradizione di pensiero del «sé sostanziale» viene sostituita dall’analisi del «sé contestuale». Nei termini di Goffman, non siamo in presenza di persone e dei loro momenti, piuttosto di momenti e delle loro persone1. Nel nostro caso si tratta di capire non solo il posto occupato dai volontari nella prigione, ma anche e soprattutto il posto che la prigione occupa nei volontari. Se e come riesca a farsi strada verso la loro interiorità. Per intraprendere una tale ricognizione, non era certamente adeguato gettare lo sguardo al di là delle mura di una vera prigione. Lí, gli effetti indotti dall’ambiente e le «caratteristiche croniche» di detenuti e secondini si sarebbero mescolati, confondendosi. Bisognava invece costruire un luogo funzionalmente analogo, popolandolo poi di comuni cittadini.
Ormai decenni di ricerca hanno evidenziato il potere della situazione nell’influenzare pensieri, emozioni e azioni2. In generale, gli psicologi sociali ritengono che le variabili di personalità abbiano una limitata capacità predittiva. Esse infatti dipendono da previsioni di future azioni imperniate su reazioni passate in frangenti «simili» ma raramente si basano sulla «esatta» situazione che gli esseri umani realmente incontrano. Cosí, le predizioni ancorate principalmente al carattere dei singoli spesso distorcono o sottostimano l’agire pervasivo delle forze del momento. Una posizione che sfida direttamente il primato della soggettività, per cui il comportamento sarebbe essenzialmente posto sotto il controllo di tratti di personalità. Visione dominante non solo in ampi settori della psicologia ma anche nella psichiatria, nell’ambito giuridico e in molte altre sfere della vita collettiva.
Per ritornare al mondo delle prigioni, se assumiamo una prospettiva di osservazione situazionale, allora riteniamo che l’immediato contesto della vita carceraria possa trasformare la condotta e l’autopercezione di singoli soggetti. I modelli di risposta esibiti verrebbero cosí dettati dalla struttura che ospita gli attori. È quello che accadde nella prigione di Stanford? E se sí, quali aspetti dell’ambiente sono stati determinanti e come esercitarono la loro influenza?
2. Dinamiche interpersonali in una prigione simulata.
Il contesto artificiale di detenzione ebbe indiscutibilmente un grande effetto sullo stato emotivo di tutti i volontari. E la qualità del cambiamento innescato fu decisamente negativa. Man mano che le richieste ambientali si insinuavano nei singoli soggetti, sempre piú risultava compromessa l’immagine che avevano di se stessi. Trasformazioni che ritornarono sui propri passi, ripristinandone l’equilibrio emotivo e cognitivo precedente all’esperimento, allorquando i partecipanti, passando dalla scena al retroscena, vennero strappati ai ruoli sociali loro ascritti nella prigione simulata. La transitorietà di tale metamorfosi evidentemente avvalora la prospettiva contestuale.
Il campo percettivo sviluppatosi nel seminterrato di Stanford incorniciò le azioni degli attori secondo le regole che governano la dinamica tra oppressione e resistenza. La seconda cedette ben presto. Sebbene non mancarono atti di ribellione, persino fisica, i prigionieri adottarono quasi immediatamente un atteggiamento passivo per far fronte alla situazione. La prima invece trionfò. Le guardie furono sempre gli iniziatori, autoritari, di qualsiasi rapporto tra le parti. Nel corso dell’esperimento, gli scambi comunicativi piú frequenti divennero i comandi, senza che si smarrisse mai il timbro impersonale che rifiutava qualunque implicazione per l’identità biografica degli interagenti. Il detenuto era oggetto di informazioni, non soggetto di comunicazione. Sicché, data questa rigida struttura gerarchica, le forme del parlare conoscevano solo il senso della verticalità. Dal canto loro, i prigionieri utilizzarono come peculiare modalità interlocutoria la richiesta di chiarimenti. Tipici processi che scaturiscono tra chi controlla e chi è controllato. Le guardie, per svolgere il compito attribuito, fecero proprio il metodo dell’isolamento, aggredendo le pratiche di sostegno interpersonale e prosciugando ogni risorsa dialogica. Il gruppo dei reclusi diventò una collezione di individui separati. Le relazioni furono sequestrate. Presidiati i nodi, i punti d’intreccio, le connessioni della socialità. Una sottrazione di emotività che consegnava la spontaneità e l’impulsività eterogenee dell’incontro tra esseri umani all’unicità standardizzata della struttura di detenzione. Non stupisce allora che i gesti meno consumati siano stati gli atti di solidarietà. Dalle registrazioni video emerge un solo esempio di una simile sollecitudine e ebbe come protagonisti due detenuti. Brandelli di soggettività sottratti al controllo esclusivo della prigione. Sebbene fosse chiaro a tutti i partecipanti che la violenza fisica non sarebbe stata ammessa, i comportamenti aggressivi si manifestarono comunque (soprattutto da parte delle guardie), semplicemente assunsero fattezze diverse. Gli oltraggi verbali diventarono all’ordine del giorno e costituirono la modalità privilegiata di interazione tra secondini e reclusi. Lo stile comunicativo adottato dai primi nei confronti dei secondi si fece altresí strumento di spoliazione dell’identità dei prigionieri. Osservando gli scambi interpersonali, si può notare, per la quasi totalità, l’impiego di enunciati spersonalizzanti, dal numero di matricola al generico «tu». Nei rarissimi casi in cui la comunicazione verbale implicò qualche riferimento alla singolarità degli interlocutori, furono sempre i detenuti che cercarono di personalizzare le guardie. Un tentativo per stabilire un contatto umano affrancato dalla tirannia dei ruoli ascritti. Nell’insieme però il comportamento linguistico affermatosi rappresentò un’attività che rimarcava i confini di una lontananza tra i due gruppi. Nello spazio dei numeri, nei parlanti nessuna traccia di soggettività.
Risulta interessante accostare un orecchio alle conversazioni dei detenuti, quando giacevano rinchiusi nelle celle, al sicuro dall’occhio indagatore delle telecamere. Là dove il dispotismo dei ruoli non avrebbe dovuto giungere. Un luogo della relazionalità in cui chi è stato ridotto a numero torni a incontrarsi, attraverso l’altro, con se stesso. Un ritorno alla soggettività. Permettendo ai singoli di svelare la propria intimità, gli affetti e i progetti esistenziali. Sottraendo tempo e azione alla macchina carceraria. Niente di tutto ciò avvenne. Contrariamente alle attese, anche le comunicazioni private abbracciarono quasi completamente argomenti legati alla detenzione: il cibo, i soprusi delle guardie, le visite dei familiari e cosí via. Assai limitati e marginali i riferimenti alla vita civile dei volontari. Negli unici momenti sollevati dalla diretta tirannia della situazione, invece di dialogare del mondo «normale», parlando di amici, fidanzate, passioni, i detenuti non riuscirono a sottrarsi al potere dei ruoli loro assegnati. Non si registrò cosí nessuna discontinuità tra la presentazione di se stessi nella condizione pubblica e in quella riservata. Ancora piú rilevante il fatto che persino in queste appartate circostanze non trovarono spazio gesti di sostegno tra compagni, piuttosto venne perpetuato l’atteggiamento negativo impostato dalle guardie. In tal modo il clima oppressivo diventava piú soffocante perché saldamente insediato nei pensieri e nelle relazioni interpersonali dei prigionieri. Anche tra le guardie fu assai raro lo scambio di informazioni personali, essendo le stesse piú interessate a discorrere dei problemi connessi alla gestione del carcere. Il ruolo non cedette la sua presa su nessuno. Allora, la reclusione della soggettività è prerogativa di tutti. Controllori e controllati. In queste tenebre dei rapporti umani, è possibile intravedere un po’ di luce? Purtroppo in un solo caso e solamente sul piano delle intenzioni. Un secondino confessò di essere rimasto turbato dalla sofferenza patita dagli internati e di aver soppesato l’idea, rapidamente scacciata, di chiedere un cambiamento di ruolo, per diventare come loro. Un isolato episodio di empatia che non trovò la via dell’azione, consumandosi nel teatro interiore del nostro agente.
Un’obiezione a questa lettura situazionale non va taciuta. È l’ambiente che si impone come prigione dal punto di vista psicologico, oppure semplicemente vengono portati dentro un contesto artificiale stereotipi sociali in merito a come debbano comportarsi guardie e carcerati3? Fermo restando che gli stereotipi sono sicuramente una componente presente negli avvenimenti di Stanford, alla stregua di molte realtà inedite in cui siamo chiamati ad agire per la prima volta4, una simile spiegazione non è comunque sufficiente. Avremmo infatti dovuto assistere a rapporti ben definiti sin dagli inizi. Invece sappiamo quante e quali modificazioni comportamentali siano emerse nel corso del tempo tra secondini e reclusi. Pertanto è innegabile la presenza di un genuino processo dinamico orientato dalle richieste contingenti. Sulla scorta della conoscenza dettagliata dell’esperimento, probabilmente l’indicatore piú potente dell’azione della situazione sui partecipanti è rappresentato dalla liberazione anticipata di alcuni detenuti, a causa di un forte stress da internamento. Il malessere esperito da tali volontari, da una certa prospettiva sicuramente una resa, può essere altresí considerato un’estrema forma di resistenza verso una struttura divoratrice di individualità. Una specie di disperata rivolta, consumata sui singoli corpi, contro il corpo della prigione.
3. Custodire il corpo e uccidere la mente.
Se avessimo descritto quello che abbiamo appena raccontato inscrivendo le osservate dinamiche interpersonali all’interno di un vero carcere, sarebbe stato facile prendere la scorciatoia delle disposizioni personali. Guardie sadiche che hanno scelto di lavorare in un penitenziario per poter sfogare le proprie distorte inclinazioni caratteriali. Prigionieri marchiati da una biografia fatta di violenze e atti antisociali, mentalmente instabili; per il bene della collettività da rinchiudere dietro mura sicure. Ma siamo invece davanti a comuni giovani nordamericani, intelligenti ed emotivamente adeguati. Volontari di un esperimento di psicologia, casualmente trovatisi a indossare chi gli abiti delle guardie, chi quelli dei detenuti. Eppure il loro comportamento, in meno di una settimana, ha assunto le tonalità della patologia per i prigionieri e della condotta autoritaria per i secondini. Allora, è evidente che le reazioni esibite dai partecipanti allo studio non sono il prodotto di un ambiente istituito assemblando personalità devianti. Piuttosto, esse sono l’esito di un contesto intrinsecamente patologico e violento, capace di piegare alle proprie leggi di funzionamento esseri umani qualsiasi. L’anormalità dimora nella natura psicologica della situazione e non dentro la psiche dei singoli che l’abitano5. Naturalmente le differenze individuali non vanno cancellate dalla nostra analisi con un semplice colpo di spugna, poiché sicuramente entrarono in gioco nel declinare le concrete interazioni nel carcere simulato6. In ogni caso, il dramma di Stanford, la repentina metamorfosi comportamentale dei volontari, ci obbliga a puntare dritto verso la struttura che ha dato i natali a un simile fenomeno. E per comprendere in che modo la messinscena di un penitenziario abbia potuto cosí profondamente costituirsi come «realtà», si fa ora indispensabile una disamina approfondita sull’uso del potere da parte delle guardie e sulla sua capacità di plasmare la mentalità dei reclusi.
All’interno del carcere, diventare guardia voleva dire occupare una posizione con uno status sociale elevato, condividere una positiva identità di gruppo tra colleghi, sperimentare un controllo su altri esseri umani mai goduto prima d’allora. Pretendere, comandare, minacciare, punire, costituirono il lessico del dominio. Una condizione di superiorità che risultò eccitante per molte guardie.
L’uso del potere fu scandito da una punteggiatura relazionale. Inizialmente, gli agenti di custodia lo esercitarono partendo da una base arbitraria. Il processo di intensificazione si verificò ogniqualvolta veniva percepita una minaccia da parte dei prigionieri e il nuovo livello raggiunto diveniva il punto da cui partivano ulteriori umiliazioni e maltrattamenti. In ciascun turno di sorveglianza, le guardie che esibivano una maggiore ostilità verso i reclusi spontaneamente assunsero la leadership, impartendo ordini e decidendo in merito alle punizioni7. Agli occhi dei compagni, modell...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Prigioni della mente
  3. Introduzione
  4. I. Esistenze recintate
  5. II. La prigione di Stanford
  6. III. Persone comuni in situazioni estreme
  7. IV. Salariati del male
  8. V. The Experiment
  9. VI. Lo spazio del potere
  10. Conclusione
  11. Elenco dei nomi
  12. Il libro
  13. L’autore
  14. Dello stesso autore
  15. Copyright