Lo sparo fu attutito dall’aria rarefatta della grotta, come se il proiettile fosse stato scagliato dentro l’acqua. Non ci fu il rimbombo che il ragazzo si aspettava: guardò la canna della rivoltella con una smorfia, la toccò, e solo dopo aver appurato che era calda ebbe la certezza di aver premuto il grilletto.
I pipistrelli, appesi a centinaia sulla volta, non se ne diedero pena. Reduci dalle scorribande notturne, sazi ed esausti, decisero all’unisono di non badare a ciò che stava accadendo nel mondo di sotto. Due salamandre, che si abbeveravano ai bordi del laghetto luminescente, osservarono con noncuranza un’ombra allungarsi sulla parete candida e porosa. Una mosse appena una zampetta, quindi si tuffò nell’acqua che brillava di luciferina. Un bagliore magico.
Si destarono di soprassalto, invece, le anime dei dormienti. I Punici svegliarono i Fenici, i Fenici i Romani e loro diedero l’allarme agli ultimi disgraziati che avevano raggiunto il regno dei morti di recente, cascando e rompendosi il cranio in quella distesa di tombe scavate su un intero colle e una valle di bianca pietra calcarea.
Prima l’uno, poi l’altro, infine tutti insieme, gli spiriti iniziarono a percorrere con una frenesia animale i cunicoli, gli slarghi, gli snodi, le piazze della loro immensa città celata. Scansarono il sepolcro dell’Ureo e del combattente Sid. Superarono le palme, i mostri alati e i guerrieri raffigurati negli affreschi, le maschere, i vasi e i corredi funebri. Planarono su chiazze d’acqua cristallina. Qualcuno risalí i pozzi e svaní col sorgere del sole, qualcun altro preferí spingersi piú in basso verso il centro dell’ossario. I piú pigri si nascosero nei colombari.
Il giovane avvertí una folata di vento sul viso, poi una sul fianco. L’alito piú forte lo colpí sulla schiena. Uno schiaffo sul collo rifilato da una mano umida, appiccicosa. Si girò e non vide nessuno. Non capí e provò un brivido.
Allungò il braccio con il quale teneva la lanterna a petrolio e intravide il compare, che arrivava ansimando e sputacchiando un rimprovero: – Che fai? Tonto! Non sparare! Vuoi che ci caschi il soffitto sulla testa? – La faccia paonazza, la bocca spalancata, l’uomo si sbottonò il colletto rigido e allentò la piccola cravatta che batteva, al ritmo dell’affanno, sul gilet nero abbellito da una doppia fila di bottoni argentati. Si curvò e poggiò entrambe le mani sulle cosce alla ricerca disperata di un filo d’aria da ingurgitare nei polmoni. Non lo trovò. Quindi si tirò su di scatto e grugní: – Ajò, di corsa! Stavolta non possiamo farcelo sfuggire. E non sparare sinché non lo hai a tiro. Tu di qua, io di là.
Le salamandre videro altre due ombre contrarsi e distendersi sulla parete est della caverna.
Il ragazzo si lanciò verso il tunnel principale. Fu inghiottito dal buio e i suoi sogni di gloria iniziarono a farsi meno nitidi: il trionfo all’ingresso della Grotta della vipera, il bandito Anima Niedda, senza vita, seduto su uno scranno di paglia e lui accanto, l’espressione da duro, gli applausi dei suoi. Si era immaginato cosí, e invece da troppo tempo trottava senza meta fra quelle catacombe.
Corse a perdifiato, lasciandosi alle spalle il suo complice.
Fu quando si ritrovò a godere di un taglio di luce in arrivo da una cavità, una lama di pulviscolo dorato, che vide all’ingresso della galleria Anima Niedda, anch’egli esausto, in un pugno la bombetta e nell’altro un coltellaccio. Se l’era dipinto diversamente, non cosí vecchio, non con un volto crudele, pieno di spigoli e cicatrici.
Gli puntò contro la rivoltella e urlò col poco fiato che gli era rimasto in petto: – Fermo o sparo!
Anima Niedda lo osservò: un ragazzaccio cascato dentro un abito due taglie piú grandi, la faccia segnata dal vaiolo. Rise di gusto, lo sbeffeggiò con un mezzo inchino, gli diede le spalle e sparí nell’oscurità. Non lo avrebbero preso mai, in quella rete segreta. Presto o tardi sarebbe accaduto ciò che sempre capitava a chi tentava di snidarlo dal suo covo: l’allocco avrebbe messo un piede in fallo e sarebbe piombato giú in una delle mille buche senza fine di quell’inferno. Anima Niedda si sentí sollevato al pensiero, sveltí la falcata e avvertí il terreno piú leggero del solito, troppo leggero, aeriforme. Un passo falso: precipitò urlando. Un grido infinito che fece volare i pipistrelli e rintanare le salamandre. L’ululato disperato placò, però, le anime infuriate che saettavano per la necropoli di Tuvixeddu.
Un nuovo morto era appena giunto fra loro.
– Gesú Cristu miu, l’ho fatto secco, – fu l’unica frase che il giovane riuscí a balbettare.
Clara Simon ficcò con destrezza il taccuino con la copertina rigida dentro la borsetta di seta pallida, tirò i cordoncini dorati e l’appese al polso. Un guizzo, e acchiappò un calice dal vassoio che il cameriere le stava facendo sfilare a un soffio dal naso. Un po’ di buon vino l’avrebbe aiutata a sciogliere la tensione che ogni serata in società le provocava.
Il suo ingresso nella maestosa villa Pernis era stato accompagnato dall’abituale chiacchiericcio che la tormentava da quando era nata. «La piccola cinese dei Simon» a poco a poco era diventata «la bizzosa mezzosangue», quindi «la ragazzina dagli occhi a mandorla che ha osato sognare di essere una giornalista». Questo per i cagliaritani era Clara Simon, figlia di un capitano della marina militare regia e di una cinese del porto, morta dandola alla luce.
Eppure stavolta percepí il vento soffiare in maniera diversa. Avvertiva netta la divisione tra chi continuava a perseguire il pregiudizio e chi invece una tiepida ammirazione gliela concedeva. L’aver partecipato alla soluzione del caso dei ragazzini scomparsi aveva spaccato l’opinione pubblica. Con una scrollata di spalle scacciò via voci e pensieri, e destinò un accenno di sorriso alle signore che la osservavano, lasciando intravedere gli incisivi candidi.
Certo, avrebbe voluto continuare a stare appartata sotto i rami secolari del giardino della villa, perdersi tra i pergolati di viti intrecciate, e sentire il profumo in arrivo dalle floride vigne Pernis che circondavano quel lembo periferico di Cagliari. Ma la festa benefica piú importante dell’anno necessitava della sua penna. Il fior fiore della borghesia e della nobiltà si era dato convegno quella sera per aiutare il popolo della Calabria, messo in ginocchio dal vigliacco terremoto nella notte tra il 7 e l’8 settembre 1905. E a lei era stato dato un prestigioso incarico, il primo dopo un anno di punizione come correttrice di bozze e qualche articolo di mezzo valore: raccontare l’avvenimento ai lettori dell’«Unione».
A spingerla era anche un fatto assai personale. Portare a termine una missione urgente che le aveva levato il sonno. Una caccia mirata per tentare di ricomporre uno dei pezzi della sua giovane vita andata piú volte in frantumi.
Con il calice stretto nella mano sinistra, Clara si guardò attorno nella speranza di avvistare il suo eterno complice e collega di cronache Ugo Fassberger, senza successo. Tra gli ospiti accorsi all’invito del cavalier Agostino Pernis non riusciva a individuare la chioma rossa del giornalista. Né tanto meno il suo misterioso obiettivo. Aspettava da un momento all’altro di essere avvicinata da una voce sconosciuta che, sperava, le avrebbe svelato ciò che da settimane attendeva. Niente. E l’inquietudine cresceva.
Chissà quale signorina starà intrattenendo il mio Fassberger. Pensò con fastidio alla mutazione di quel ragazzone timido che adesso, precisamente da quando insieme avevano smascherato lo scandalo del contrabbando e la morte dei piciocus, attirava le giovani donne come mai gli era accaduto in tutta l’esistenza.
Ugo Fassberger: anche lui un mezzosangue. Una mistura di sicuro piú apprezzata della sua, in città, quella innestata dai ricchi e abili commercianti svizzeri giunti dal Ticino, dai Grigioni o dalla confinante Valtellina per imbastire affari con l’isola e non piú ripartiti. Ugo infatti non era mai stato discriminato, e se non fosse stato per quei capelli fiammeggianti non avrebbe subito neanche uno sberleffo. Al contrario dell’amica di infanzia e collega, che nei suoi ventun anni di vita aveva dovuto sopportare una cattiveria dopo l’altra.
Frattanto il padrone di casa, innalzando di continuo il bicchiere, richiamava l’attenzione dei convenuti verso le cantine. Clara si fece avanti tra la folla. Si fermò accanto a una delle botti piú piccole e si uní al brindisi di benvenuto.
– Viva la Sardegna! Viva la Svizzera! E viva l’Italia! – urlò Agostino Pernis, erede di una fra le piú note dinastie di viticoltori. Clara notò che le stesse parole erano affrescate sulla volta principale del loggiato, tra lo stemma dei quattro mori, la croce bianca della confederazione e il tricolore. Abbassò lo sguardo e vide, infine, Ugo.
Una mano poggiata sul muro e l’altra su un lembo di cappello, Fassberger conversava fitto con una ragazza. Clara riconobbe subito la pronipote del compianto patriarca Josias Pernis, la giovane ereditiera dai bei capelli biondi, raccolti e adornati da piccoli fiori bianchi e una foglia di vite. Elvira Maria Margherita Pernis, gli occhi languidi, i lunghi guanti, giocherellava con un filo di perle e batteva il pollice sul petto, scandendo le risate che Ugo Fassberger le strappava senza fatica.
– Brindiamo alla nuova, eccellente annata, – annunciò con enfasi il padrone di casa incrociando lo sguardo di Maria Costa, sua moglie, mentre si apprestava a concludere il discorso. – E brindiamo soprattutto alla pronta ripresa degli sfortunati fratelli calabresi. Con il cuore colmo di emozione, vi ringrazio per essere accorsi numerosi al nostro invito, ma vista l’emergenza non poteva che essere cosí. Ero sicuro di poter contare sulla vostra bontà d’animo e… di portafoglio.
L’applauso partito dal fondo delle cantine presto si diffuse tra gli ospiti, e risvegliò l’attenzione di Clara, che intanto continuava a cercare tra la gente, anche se non sapeva bene che faccia potesse avere l’uomo del suo destino.
Agostino Pernis buttò giú il vino in un sorso, guardò complice l’amata figlia Elvira – che lo ricambiò con una espressione dolce – e dopo una pausa a effetto strinse la mano al conte Roberto Cappai Pinna, padrone di mezza città, chiamato ad animare la raccolta fondi e investito dell’onore, e dell’onere, di depositare il frutto di quella serata presso la Banca d’Italia. Quindi esortò gli ospiti a proseguire nel salone dei ricevimenti.
Il giardino via via si riempiva, per poi svuotarsi lento al passaggio degli invitati diretti al cuore della festa. Ad attirare l’attenzione di Clara fu una coppia che nei movimenti e nell’abbigliamento le risultò subito fuori contesto. Parevano un bulldog e una giraffa a braccetto. Clara provò a scacciare quel pensiero, ricordando quanto continuasse a destare scalpore il suo aspetto fisico, quei suoi tratti asiatici. Pur sforzandosi, non poté però astenersi dal giudizio per niente benevolo. Era tutto troppo, in loro. Con eleganza gridata e goffa procedevano avvinghiati verso il centro della sala.
Era in particolare la donna, piú sui trenta che sui quarant’anni, a solleticare la sua curiosità: le ricordava qualcuno che ora le sfuggiva. Indossava parecchi gioielli, tra cui una grossa spilla di diamanti. Appuntata sull’abito turchese, metteva in evidenza il seno prosperoso. Tra i tanti anelli che le adornavano le dita ossute, la nobildonna si divertiva a esibire un grande rubino, mantenendo in modo innaturale la mano sospesa a mezz’aria. Il conte Cappai Pinna, estasiato e incurante della presenza del di lei marito, le faceva strada verso il centro del salone, sfoggiandola come un trofeo.
Clara scosse la testa. Non provava odio per l’uomo che piú di ogni altro le aveva messo i bastoni tra le ruote nella realizzazione del sogno di diventare giornalista. Ma la sua presenza la turbava. Il conte era l’emblema dell’arrogante intreccio di affari e potere che dominava la città. «Nemici come prima, signorina Simon» le aveva detto, e quelle parole, pronunciate durante il loro ultimo incontro, l’accompagnavano ancora ogni notte prima che andasse a letto e la ghermivano durante il sonno tormentato, risvegliandola di soprassalto.
Un brivido, e fu colta alle spalle da Ugo. – Ti ho cercata per tutta la festa, – le disse lui ridendo di gusto.
Clara si voltò di scatto, e con le piume del cappello lambí il viso dell’amico fraterno. – Fetente, mi vuoi far venire una sincope! E non dire panzane, sei tu che… – Non ebbe modo di dire altro, perché Elvira Maria Margherita Pernis, ancorandosi al braccio di Ugo, si intromise. – Che immenso piacere fare la conoscenza della famosa Simon! – disse con voce squillante. – Leggo sempre i suoi resoconti sull’«Unione», e li trovo illuminanti.
– La ringrazio, ma è sicura che a scriverli sia stata proprio io? – chiese Clara sbalordita, visto che nessun articolo pubblicato portava la firma dell’autore.
– Riconoscerei il suo stile tra mille e mille pagine, – rispose l’altra, stringendosi a Ugo in un gesto di complicità.
– Mi lusinga, signorina Elvira Maria Margherita Pernis, – arrossí Clara, – di solito mi si bolla come la cinese dei Simon, la figlia della vergogna, bene che mi vada la pennivendola…
– Apparteniamo a due mondi che si incontrano, – le rispose subito Elvira. – Lei sa in che maniera il mio amato avo Josias giunse in Sardegna?
– No, onestamente.
– Naufragò a largo di Santa Maria Navarrese, fuggiva dal Cantone dei Grigioni dove la famiglia era stata quasi sterminata dai francesi. E non creda che i primi anni qui per lui siano stati facili, anz...