L'utopia della realtà
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L'utopia della realtà

  1. 392 pagine
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Come ha scritto Franca Ongaro nella nota introduttiva, si tratta di una scelta «fatta seguendo i passaggi dell'evoluzione teorico-pratica di quella che è stata l'impresa di una vita». Un'impresa che da un lato ha contribuito in modo sostanziale al profondo rinnovamento della cultura sulla follia e la malattia mentale, e dall'altro ha ispirato la promulgazione della celebre e discussa legge 180 del 1978, che ha radicalmente modificato l'assetto dei servizi di salute mentale in Italia. E proprio oggi che si parla di rivedere quella legge è di particolare interesse capire la posizione di Basaglia, maturata sperimentando un originale percorso di superamento del manicomio e di costruzione di risposte nuove alla sofferenza mentale. La sua è stata una lotta contro un'istituzione manicomiale drammaticamente inadeguata e contro un sapere psichiatrico che l'ha giustificata, ed è stata insieme una proposta di trasformazione della pratica dei «tecnici delle scienze umane», perché non si ripetano i «crimini di pace» che hanno segnato le società democratiche del Novecento.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858414644

Introduzione

L’utopia della realtà

Franco Basaglia e l’impresa della sua vita

1. Londra, agosto 1964, I Congresso internazionale di Psichiatria sociale. Franco Basaglia, tra i pochi italiani presenti, interviene con una comunicazione che pone per la prima volta alle società democratiche una questione cruciale tuttora aperta: La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione1.
Fin dalle origini l’affermazione del manicomio è accompagnata da ondate cicliche di denunce sulle condizioni degli internati. A partire dagli anni ’40 erano però accaduti alcuni fatti nuovi. Nei paesi occidentali rimasti fuori dall’esperienza del totalitarismo erano iniziati, già prima dell’introduzione dei farmaci neurolettici2, numerosi esperimenti di trattamento dei malati di mente in ambienti non costrittivi e con tecniche fondate piú sull’interazione umana che sulla soppressione dei sintomi; aveva anche cominciato a farsi strada una riflessione critica sull’internamento e sulle proporzioni enormi che aveva raggiunto. In Francia, negli anni del Fronte nazionale, si erano sperimentate forme di trattamento psicoterapico in ospedale psichiatrico3. In Inghilterra era maturata l’idea di una «istituzione terapeutica»4 sulla base dell’esperienza di reparti con porte aperte in diversi ospedali psichiatrici. Negli Stati Uniti, un gruppo di psichiatri militari5, colpiti dall’incidenza dei disturbi mentali tra le reclute e i combattenti, aveva lanciato l’idea di una «psichiatria comunitaria», che aveva stimolato ricerche su malattia mentale e società ma non aveva toccato i grandi manicomi federali, che nella seconda metà degli anni ’40 divennero oggetto di una campagna di denuncia i cui echi raggiunsero l’Europa con un film campione di incassi, La fossa dei serpenti6, che rappresentava con immagini ingenue ma verosimili le terribili condizioni di vita di oltre mezzo milione di internati. Anche in Francia lo scandalo dei manicomi, che internavano oltre novantaduemila persone, era uscito dall’ambito degli addetti ai lavori, grazie a un numero monografico che nel 1952 la prestigiosa rivista «Esprit», diretta dal filosofo Emanuel Mounier, aveva dedicato alla Misère de la psychiatrie, con contributi di filosofi, scrittori, psichiatri e internati. Francia e Inghilterra avevano riformato sia la legge sia l’assetto amministrativo della psichiatria nel quadro della riforma della sanità generale, e gli psichiatri riformatori si erano concentrati sul lavoro territoriale, nella prospettiva, che presto si rivelerà irrealistica, di un ridimensionamento naturale del manicomio e dei suoi costi economici e culturali. Anche negli Stati Uniti c’erano stati diversi interventi legislativi e nel 1963 il presidente Kennedy aveva fatto al Congresso lo storico annuncio dello stanziamento di fondi federali per la costituzione dei Comprehensive Community Mental Health Centers, che avranno in realtà scarso sviluppo, mentre prenderà piede la politica di riduzione dei tempi di degenza e dei letti pubblici che poi Reagan applicherà su larga scala.
Negli anni ’60 era dunque già aperta ed evidente la crisi del grande manicomio pubblico, e i tentativi di ridurlo dall’esterno, dal territorio, non riuscivano a incidere sull’enorme numero di malati cronicizzati che in tutti i paesi occidentali non lasciavano spazio ai nuovi ingressi, costavano troppo denaro e mantenevano la psichiatria in uno statuto d’eccezione rispetto alla medicina e ai principî dell’ordinamento democratico. Franco Basaglia, che lavorava in un’Italia ancora lontana dal prendere atto dei suoi quasi centomila internati, aveva molti dubbi sulla politica francese del settore e sulla psichiatria sociale anglosassone e aveva maturato, partendo da un originale percorso di studio e dall’impatto con il manicomio, una convinzione radicale: nessuna forma di istituzionalizzazione può aiutare il malato di mente a ritrovare se stesso, la psichiatria deve distruggere quello che da due secoli è il suo pilastro centrale: il manicomio.
Basaglia arriva cosí a questo congresso del ’64 con una comunicazione «piuttosto forte», come scrive all’amico Agostino Pirella7. Le prime parole citano la lettera dei surrealisti ai direttori di manicomio: «domani mattina, all’ora della visita, quando senza alcun lessico tenterete di comunicare con questi uomini, possiate voi ricordare e riconoscere che nei loro confronti avete una sola superiorità: la forza». Il testo prosegue argomentando le ragioni per cui «la distruzione del manicomio è un fatto urgentemente necessario se non semplicemente ovvio», esplicitando poi che «queste riflessioni sono il risultato di tre anni di studio e di lavoro per la riorganizzazione di un ospedale di circa seicento malati», quello di Gorizia, dove si sta rivelando possibile cambiare molte cose, «pur senza il minimo appoggio di una legge e di una società che si dicono non ancora pronte e mature», facendo leva su una serie di elementi che Basaglia riconduce all’assunzione, da parte dello psichiatra, del rischio del cambiamento, «un rischio che può metterlo alla pari con il malato» al quale può cosí chiedere assunzione di responsabilità verso gli scopi comuni. Questa responsabilità deve passare però attraverso la conquista della libertà da parte del malato, «una libertà che non può essere dono da parte del medico. Perché il manicomio, dopo la graduale distruzione delle strutture alienanti, non abbia a declinarsi in un ridente asilo di servi riconoscenti», l’unico punto su cui Basaglia ritiene si possa «far leva è l’aggressività individuale», sulla quale sarà possibile impostare tra medico e paziente «un rapporto di tensione reciproca che solo può essere in grado di rompere i legami di autorità e paternalismo». In conclusione c’è la domanda se «il principio di libertà riuscirà a scalzare quello di autorità», e la convinzione che la comunità terapeutica potrà contribuire a farlo nella misura in cui «tutti, pazienti, medici e personale», siano, come sta succedendo a Gorizia, «coinvolti nella stessa crisi e in essa trovino la loro comune base umana».
L’intervento di Basaglia è seguito con attenzione e crescente perplessità. Dopo le prime pagine, è un collega inglese a proseguire la lettura nell’ipotesi che ciò possa agevolare la comprensione del testo, ma in realtà tra Basaglia e i suoi interlocutori c’è una distanza di fondo che è già incolmabile.
Basaglia è conosciuto nell’ambiente della psichiatria sociale. Ha avviato il primo e all’epoca unico esperimento italiano di comunità terapeutica e ha costruito un rapporto personale con Maxwell Jones, personaggio anticonformista e carismatico che negli anni della guerra aveva lavorato con pescatori disoccupati e con reduci dai campi di prigionia8, inventando uno stile e una tecnica originali di approccio al malato e all’istituzione. Basaglia ha sempre riconosciuto di aver imparato molto da lui, e anzi diceva di aver capito da lui l’istituzione9, i suoi meccanismi e la sua pervasività. Maxwell Jones aveva creato, nell’ospedale psichiatrico di Digleton, nella piccola città scozzese di Melrose, il piú noto modello di comunità terapeutica, che Basaglia aveva visitato piú volte10 e dove Franca Ongaro, sua moglie e collaboratrice nell’équipe di Gorizia, era stata per qualche tempo come volontaria11. Al congresso del ’64 era presente anche un altro amico di Basaglia, Douglas Bennett, allora primario e piú tardi direttore del Maudsley Hospital di Londra, uomo aperto e ironico che seguirà da vicino anche l’esperienza di Trieste e che in quell’occasione, come ricordava Franca Ongaro, cercò di mediare tra la frustazione di Basaglia e l’irritazione dei colleghi inglesi, che si vedevano scavalcati da un outsider in una fase in cui raccoglievano consensi e potere. Gli esperimenti della psichiatria sociale avevano infatti trovato eco immediata in quell’Inghilterra democratica del dopoguerra che, per la per la prima volta in un paese capitalista, aveva istituito, il 5 luglio 1948, un National Health Service (NHS) «fondato sul bisogno, non sulla capacità di pagare», come tuttora puntualizza il sito web. Il NHS aveva cambiato nome agli «asylums», diventati ospedali psichiatrici ed equiparati agli ospedali generali, il Mental Health Act del 1959 aveva modificato il regime delle ammissioni e dimissioni e creato un sistema di psichiatria territoriale. Questo ambiente di riformisti di successo, che immagina di estendere la tecnica della comunità terapeutica a carceri e servizi comunitari, non è disposto ad accettare l’idea che si debba andare oltre, che «il sistema delle porte aperte» possa produrre «una sorta di istituzionalizzazione molle», un semplice travestimento del «primitivo rapporto alienante servo-signore». Al fondo, non condivide il punto di partenza e il cuore del ragionamento di Basaglia, che interroga tutt’oggi le società democratiche e la psichiatria.
Il fatto che «due secoli dopo lo spettacolare scioglimento delle catene» voluto da Pinel12, «regole forzate e mortificazioni segnino ancora il ritmo della vita dei ricoveri», impone per Basaglia la ricerca di «formule che tengano finalmente conto dell’uomo nel suo libero porsi nel mondo», sia dell’uomo malato, che «ha perduto individualità e libertà» prima «con la malattia» e poi «con la perdita definitiva di sé nel manicomio», sia dell’uomo psichiatra, che deve porsi domande «sulla sua personale libertà», sul suo essere «delegato e portavoce non disinteressato» di quella società che gli affida «il mondo alienato». Basaglia pone cosí, in una chiave nettamente segnata dal pensiero di Sartre, il problema dell’esclusione e dell’istituzionalizzazione dei malati di mente che le correnti riformatrici in psichiatria avevano aperto ma troppo rapidamente chiuso come questione meramente tecnica13, di revisione dei metodi di cura e dell’organizzazione istituzionale, impedendosi di capire come mai, «nonostante l’avvento dell’era farmacologica, delle teorie psicodinamiche e dei servizi psichiatrici esterni», fosse rimasto «il problema del manicomio come abitazione forzata, come luogo di perpetua istituzionalizzazione». Basaglia ritiene che questo «non si possa non imputare all’attuale classe psichiatrica», che accetta di «rispecchiare», in una posizione sostanzialmente «esecutiva, l’attitudine della società e degli amministratori dei manicomi».
In questo testo di quarant’anni fa Basaglia propone cosí due temi straordinariamente attuali. Il primo riguarda il manicomio, che per Basaglia non è solo la grande istituzione pubblica di tipo concentrazionario ma è al fondo «abitazione forzata» e «luogo di perpetua istituzionalizzazione». Questa chiave di lettura consente oggi di riconoscere la natura di molte delle istituzioni nate, ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L’utopia della realtà
  3. Introduzione di Maria Grazia Giannichedda
  4. Nota introduttiva di Franca Ongaro Basaglia
  5. Nota biografica di Franca Ongaro Basaglia
  6. L’utopia della realtà
  7. I. Ansia e malafede La condizione umana del nevrotico
  8. II. La distruzione dell’ospedale psichiatrico come luogo di istituzionalizzazione Mortificazione e libertà dello «spazio chiuso» Considerazioni sul sistema «open door»
  9. III. Corpo, sguardo e silenzio L’enigma della soggettività in psichiatria
  10. IV. Un problema di psichiatria istituzionale L’esclusione come categoria socio-psichiatrica
  11. V. L’ideologia del corpo come espressività nevrotica Le nevrosi neurasteniche
  12. VI. Corpo e istituzione Considerazioni antropologiche e psicopatologiche in tema di psichiatria istituzionale
  13. VII. Crisi istituzionale o crisi psichiatrica?
  14. VIII. Presentazione a Che cos’è la psichiatria?
  15. IX. La soluzione finale
  16. X. Le istituzioni della violenza
  17. XI. Il problema dell’incidente
  18. XII. Il problema della gestione
  19. XIII. Introduzione a Morire di classe
  20. XIV. Lettera da New York. Il malato artificiale
  21. XV. La maggioranza deviante
  22. XVI. Crimini di pace
  23. XVII. Condotte perturbate Le funzioni delle relazioni sociali
  24. XVIII. Prefazione a Il giardino dei gelsi
  25. Fonti
  26. Bibliografia completa di Franco Basaglia
  27. Il libro
  28. L’autore
  29. Copyright