Teoria del film
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Teoria del film

Un'introduzione

  1. 264 pagine
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Quali effetti produce il film sul corpo dello spettatore? Sulla scorta di questo suggestivo quesito di fondo, Thomas Elsaesser e Malte Hagener introducono il lettore alla teoria del film, presentando e commentando i piú importanti autori classici e quelli piú recenti, ricostruendo le prospettive critiche piú affermate come le prese di posizione piú nuove e provocatorie.
Il libro spazia dal modello del cinema come «finestra» e «cornice», tale da implicare una visione a distanza e disincarnata dello spettatore rispetto al mondo narrato dal film, fino al concetto di «cervello come schermo», nel quale il film opera registicamente sul corpo e sulla mente dello spettatore.
Lungi dal volersi presentare come una storia del progresso del film, della sua tecnica e della sua teoria, questa introduzione critica propone una linea di sviluppo dell'arte cinematografica, nella quale il film coinvolge sempre piú intimamente lo spettatore, invitando il lettore a riflettere non solo sui film, ma anche e soprattutto con i film stessi.

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Informazioni

Capitolo quarto

Occhio e sguardo

Due uomini siedono l’uno di fronte all’altro; sul tavolo che li separa sono allestiti apparecchi per la rilevazione del movimento, l’analisi e la misurazione della pupilla. Si tratta di un test della polizia per stabilire se il soggetto sia umano, o se si tratti di un cosiddetto «replicante», un uomo artificiale che però esteriormente non si differenzia in nulla da un organismo biologico. L’intervista segue un iter tranquillo e prestabilito, finché l’inquirente non pone al soggetto una domanda su sua madre, al che egli si sente provocato. Con questo «test Voigt-Kampff», in Blade Runner (1982) di Ridley Scott si distinguono i replicanti, presumibilmente privi di sentimenti, dagli esseri umani capaci di provare empatia. Collocato nella sequenza iniziale, il test è uno dei numerosi riferimenti del film alla centralità del motivo dell’occhio. Dapprima lo spettatore si abbandona alla sicurezza che l’occhio funzioni in senso cartesiano come organo della conoscenza e dell’anima, e che la differenza tra uomini e creature artificiali si possa chiaramente determinare e salvaguardare con metodi scientifici. Ma nel corso dell’azione il confine tra esseri umani e non-umani diviene sempre piú instabile e fragile: il protagonista Deckard (Harrison Ford), ingaggiato come «cacciatore di replicanti» (ossia «Blade Runner»), e che al contrario degli esseri artificiali sembra privo di un nome proprio, come pure di sentimenti piú che rudimentali, alla fine risulta a sua volta un replicante1, mentre gli unici esseri davvero capaci di sentimenti, e dotati a quanto pare anche di ricordi, sono quelli artificiali. Già nella prima inquadratura del film vediamo il riflesso di esplosioni gassose in una pupilla: in tal modo Blade Runner stabilisce sin dall’inizio il ruolo centrale del motivo dell’occhio, ma suggerendo già attraverso quel rispecchiamento la condizione precaria dell’occhio stesso fra soggetto e oggetto, fra capacità di agire e passività.
Queste le tracce che vogliamo seguire nel presente capitolo: da una parte analizzeremo l’occhio nel cinema come organo del disvelamento del mondo (infatti nella stragrande maggioranza dei casi il film si percepisce innanzitutto con la vista), dall’altra però considereremo anche la natura sempre fragile di questa costruzione – che diviene chiara ogniqualvolta lo sguardo sembra provenire da un luogo anonimo e privo di personaggi. Lo sguardo allo specchio, centrale nel capitolo precedente, implicava già un preciso ordinamento spaziale e una struttura percettiva, entro i quali si producono i rapporti di raddoppiamento e scissione caratteristici della riflessione (e della riflessività). Con ciò si segnala anche il punto in cui l’azione non è piú esterna rispetto al corpo e al Sé dello spettatore (come simboleggiavano i nostri primi due modi d’essere della finestra e della porta), ma si trasforma in un’interiorizzazione e soggettivizzazione. Il Sé o Io diviene una parte inseparabile di ciò che vediamo, e la scena osservata non si svolge piú indipendentemente dall’osservatore. In questo capitolo, che si sviluppa all’insegna di occhio e sguardo, simili posizioni verranno per un verso perfezionate, e per l’altro sottoposte a una revisione, ovvero a un’ulteriore complicazione.
Nella teoria filmica degli anni Settanta e Ottanta si sono sviluppate una serie di posizioni, ora fortemente influenzate dalla riformulazione post-strutturalista della psicoanalisi freudiana da parte di Jacques Lacan, ora collegate alla teoria foucaultiana del Panopticon quale modello di società e di soggettività. L’occhio è qui il luogo dell’incontro fra diverse strutture di visibilità e sguardi, che nel film si articolano in inquadratura, angolazione e montaggio. La teoria cinematografica femminista si è dedicata in particolar modo allo studio di strutture di sguardo elaborate. Come accade per le posizioni riguardanti specchio e volto, questa scuola di pensiero implica tuttavia anche una specifica distanza fra spettatore e film, tipica della vista come forma percettiva, ma che, a differenza di quanto accade per la cornice o per la finestra, contiene un potenziale di autorità e promette una funzione di controllo.
In relazione all’occhio come luogo d’incontro fra spettatore e film, è possibile distinguere diverse configurazioni, le quali modellano lo sguardo e la vista in modi di volta in volta differenti. Già prima che il cinema li adottasse e li sottoponesse a ulteriori trasformazioni, sguardo e vista erano già connotati culturalmente, e si radicavano in profondità nell’immaginario popolare. Il campo semantico dell’occhio conosce alcune mitologie poetico-politiche, che spaziano dall’occhio creativo (o interiore) della facoltà rappresentativa romantica allo sguardo malvagio dell’Altro (in senso etnico e culturale). Lo sguardo benevolo dell’onniveggente Dio cristiano (raffigurato per esempio sulla banconota americana da un dollaro) si traduce nell’ideale democratico di uno sguardo che simboleggia limpidezza, trasparenza e visibilità: è lo sguardo dell’Illuminismo e della ragione, caratterizzato dalla luce e dal sole quali fonti della conoscenza (le siècle des lumières). Tuttavia, partendo da un altro concetto di occhio e sguardo si può anche evocare un’implacabile pretesa di autocontrollo e trasparenza, come per esempio nella caccia alle streghe dell’Inquisizione, nei processi-spettacolo e nell’estorsione di ogni sorta di confessioni dello stalinismo – e qui l’autoaccusa viene strappata attraverso lo sguardo (immaginario) dell’Altro. Questo secondo tipo si potrebbe anche definire come uno sguardo opaco e oscuro, che resta quasi invisibile, ma proprio per questo è piú potente. È su queste due manifestazioni fondamentali dello sguardo – trasparente e benigno, strumento di conoscenza e illuminazione, ovvero oscuro e maligno, associato a potere e sottomissione – che si orienteranno le successive articolazioni del capitolo. Molte di queste configurazioni si possono ritrovare anche nel cinema, tradotte per un verso nella dinamica lievemente dislocata di sguardo attivo e passivo (con la chiara separazione fra soggetto e oggetto, riconoscimento e sottomissione, attivo e passivo), e per altro verso nello sguardo punitivo.
Cominceremo comunque con una breve panoramica storica sul cinema delle origini e sull’avanguardia classica, poiché fin dagli inizi il cinema è stato pur sempre considerato come occhio prostetico, come estensione dell’esperienza sensoriale umana. Proviamo a immaginarci il periodo intorno al 1900, quando non esistevano ancora i voli di linea e le auto private, e l’unico mezzo di trasporto meccanizzato era la ferrovia2. In quell’epoca fece la sua comparsa l’invenzione meccanica del cinema come occhio mobile: quale sensazione sublime deve aver trasmesso all’uomo questo organo senza corpo, che può vagare ed esplorare in totale libertà, può rendersi praticamente invisibile, non è mai escluso da nessun luogo (privato, sociale, fisico)3 e non solo appare sempre presente e attuale, ma è in grado anche di superare senza sforzo le distanze spazio-temporali. Nessuna meraviglia quindi, se film che gettavano lo sguardo in avanti dalla testa di una locomotiva, o guardavano all’indietro dalla coda di un treno (i cosiddetti phantom rides, o «corse fantasma») divennero le forme piú popolari del cinema delle origini; né deve stupire che il treno in arrivo alla stazione sia diventato un simbolo cosí forte del potere del cinema, capace di superare ogni resistenza e di penetrare negli angoli piú remoti. L’occhio scorporato fu celebrato come una poderosa illusione di forza e onnipotenza: il voyeurismo, con il quale questo capitolo ad ogni modo si confronterà, è strettamente intrecciato a una forma di disincarnazione – l’idea di non (dover) essere responsabili della propria stessa presenza corporea in un dato luogo e in un determinato momento.
Il celebre film d’avanguardia di Dziga Vertov, L’uomo con la macchina da presa (1929), si può considerare l’espressione di quest’occhio autocelebrativo, un organo sensoriale che scopre il mondo come se fosse la prima volta. Non a caso all’inizio del film si aprono finestre (e battenti) come occhi sul giorno nascente, e in un’altra scena il temerario cineoperatore si piazza di fronte a un treno in accelerazione e lo blocca senza riportare in apparenza alcun danno fisico – l’«occhio filmico» di Vertov è disincarnato e onniveggente. Cosí il suo collettivo di cineasti si chiamò con coerenza «kino-glaz» («cine-occhio»), in analogia con la vista meccanizzata che «contesta il concetto di visione del mondo operata dall’occhio umano con la proclamazione del proprio “io vedo!”»4. Negli scritti come nei film, Vertov celebrava l’emancipazione dell’apparato dalle carenze percettive dell’uomo, il trionfale e totale dominio (ottico) del film sul mondo. Anche Walter Benjamin salutò con entusiasmo la penetrazione del mondo vissuto da parte della macchina da presa; il film permetteva secondo lui di scorgere l’«inconscio ottico», ossia tutto ciò che riusciamo a distinguere soltanto attraverso l’ingrandimento, il rallentatore, un’angolazione insolita, o l’acceleratore. Tuttavia Benjamin non considera affatto il film come un mezzo di rappresentazione realistico, bensí gli attribuisce la facoltà di violare il mondo della vita quotidiana: «Le nostre bettole e le vie delle nostre metropoli, i nostri uffici e le nostre camere ammobiliate, le nostre stazioni e le nostre fabbriche sembravano chiuderci irrimediabilmente. Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere; cosí noi siamo ormai in grado di intraprendere tranquillamente avventurosi viaggi in mezzo alle sue sparse rovine»5. Sarà proprio quest’entusiasmo, inneggiante alla facoltà della cinepresa di superare i limiti della percezione umana, a caratterizzare le avanguardie degli anni Venti e Trenta.
Nel cinema delle origini il ruolo metaforico della vista e dell’occhio è spesso posto in risalto mediante il collegamento con una delle loro numerose protesi. Uno sviluppo che prende le mosse con il film Grandma’s Reading Glass («La lente della nonna», G. A. Smith, 1900), dove una lente d’ingrandimento non esplora soltanto il mondo ben delimitato e ingrandito di una stanza e di un tavolo da cucito, ma anche l’occhio penetrante della stessa nonna, per cui lo spettatore non è sicuro se sia il proprio sguardo che scopre quest’occhio, o se invece egli stesso non sia piuttosto l’oggetto di uno sguardo di rimprovero. Pellicole come As Seen Through a Telescope («Vista da un telescopio», G. A. Smith, 1900), The Gay Shoe Clerk («L’allegro commesso di calzature», Edwin S. Porter, 1903) e i film francesi «dal buco della serratura» non lasciano dubbi sulla natura fallica dello sguardo che esplora: si tratta di uomini che palpano con gli occhi il corpo femminile. Quei film mettono dunque in mostra un segreto che i successivi film classici terranno accuratamente nascosto – lo sguardo (maschile) del potere sul corpo (femminile) viene cioè esposto in tutta la sua natura voyeuristica, invece di intrecciarsi alle maglie della narrazione.
Anche i film dell’espressionismo tedesco sono spesso molto espliciti nel rappresentare i piaceri e i terrori dello sguardo. Gli eroi di pellicole come Il gabinetto del dottor Caligari (Robert Wiene, 1919), La strada (Karl Grüne, 1923) e Nosferatu (F. W. Murnau, 1922) sono tutti eccitatori, mentre Fritz Lang preferiva piuttosto mettere in scena sguardi punitivi: nelle catacombe di Metropolis Rotwang trafigge letteralmente la virginale Maria con la sua lanterna-occhio ciclopico, prima di comprometterla con piacere sadico e «spogliarla». Il dottor Mabuse ha a sua volta lo sguardo dell’ipnotizzatore, cui gli uomini si devono sottomettere. Comunque, il sadismo visivo di Lang (o dei suoi eroi) è di gran lunga superato dalla scena iniziale di un altro film dello stesso periodo, Un cane andaluso (1929) di Luis Buñuel e Salvador Dalí, dove, con immediatezza quasi intollerabile, personaggio e spettatore vengono messi di fronte al desiderio e insieme alla vulnerabilità dell’occhio. In un montaggio parallelo vediamo una nuvola (appuntita) tagliare (otticamente) la luna, e un uomo squarciare l’occhio di una donna con un rasoio. Qui non solo incontriamo l’occhio «passivo», che nel primo piano appariva ancora come la finestra dell’anima (per esempio nella Passione di Giovanna d’Arco di Carl Theodor Dreyer, 1928) o era funzionale all’insinuarsi dell’«Altro» nel «Sé» (come in Persona), ma sperimentiamo anche in modo particolarmente crudo lo «sguardo fisso» del potere. In Un cane andaluso esso è incarnato dall’uomo col rasoio (interpretato dallo stesso Buñuel), mentre nella Finestra sul cortile (Alfred Hitchcock, 1954) balena almeno per qualche breve istante negli occhi spalancati di Mr Thorwald (Raymond Burr), quando questi «ricambia» lo sguardo voyeuristico e pedinatore di Jefferies, per poi irrompere con intenzioni omicide nel suo appartamento. Nel cinema classico, tuttavia, questo sguardo fisso appare senza un corpo, e perfino senza un luogo, per collocarsi piuttosto in una sfera immaginaria, poiché non se ne possono riconoscere con chiarezza né le origini, né la direzione o il destinatario. Questo tema sarà al centro della seconda parte del capitolo; rivolgiamoci ora piuttosto allo sguardo, ossia a quello che – con una forte semplificazione di uno stato di cose complesso – abbiamo chiamato occhio «attivo».
Per questo modo di vedere nel cinema (in quanto spettatori) e per questo modo d’essere del cinema (in quanto film) dobbiamo richiamare alla memoria innanzitutto la cosiddetta «teoria dell’apparato» di Jean-Louis Baudry (cfr. cap. III). Infatti i contributi che andremo ora a presentare si sono sviluppati sí in conflitto con le teorie d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Teoria del film
  3. Prefazione
  4. Teoria del film
  5. I. Finestra e cornice
  6. II. Porta e telo
  7. III. Specchio e volto
  8. IV. Occhio e sguardo
  9. V. Pelle e contatto
  10. VI. Orecchio e suono
  11. VII. Mente e cervello
  12. Conclusione - Cinema digitale e teoria del film: vecchia storia o nuove frontiere?
  13. Bibliografia fondamentale
  14. Indice dei film
  15. Indice dei nomi
  16. Il libro
  17. Gli autori
  18. Copyright