L'età forte
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L'età forte

  1. 544 pagine
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Informazioni sul libro

Dalle prime esperienze d'insegnante, a Marsiglia, Rouen, Parigi, ai lunghi viaggi attraverso la Spagna, la Grecia, l'Italia e il Marocco, gli incontri e le discussioni con gli intellettuali francesi, da Paul Nizan a Merleau-Ponty, da Camus a Queneau.
Dapprima la guerra civile in Spagna, poi la Seconda guerra mondiale, che strappa Sartre e i suoi amici alle loro occupazioni predilette: per Simone, divisa dall'uomo che ama, è la scoperta d'una piú profonda coscienza di sé, è il passaggio dalla «felicità individuale» alla «solidarietà», contro ogni forma di conservatorismo culturale, morale e politico.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858416549

Parte prima

Capitolo primo

Quando rientrai a Parigi nel settembre 1929 la cosa che subito m’inebriò fu la mia libertà. L’avevo sognata fin dall’infanzia, quando con mia sorella giocavo a fare «la ragazza grande». Ho già descritto con quale passione l’avessi invocata da studentessa. E d’un tratto, ecco che la possedevo; ad ogni gesto che compivo mi meravigliavo della mia leggerezza. La mattina, appena aprivo gli occhi, mi sentivo stordita di felicità. Verso i dodici anni avevo sofferto di non avere, in casa, un angolo tutto per me. Leggendo nel Mio diario, la storia di una collegiale inglese, avevo contemplato con struggimento la figura che rappresentava la sua stanza: uno scrittoio, un divano, degli scaffali pieni di libri; tra quelle pareti dai colori vivaci, ella studiava, leggeva, prendeva il tè, senza testimoni; come la invidiavo! per la prima volta avevo intravisto un’esistenza piú fortunata della mia. Ed ecco che finalmente ero a casa mia! la nonna aveva sgombrato il suo salotto di tutte le poltrone, tavolinetti, ninnoli. M’ero comprata dei mobili in legno grezzo, che mia sorella m’aveva aiutata a tinteggiare con una vernice marrone. Avevo un tavolo, due sedie, un grande baule che serviva da sedile e da ripostiglio, degli scaffali per mettere i miei libri, un sofà intonato alla carta arancione con cui avevo fatto tappezzare i muri. Dal mio balcone al quinto piano dominavo i platani di Rue Denfert-Rochereau e il leone di Belfort. Mi riscaldavo con una stufa a petrolio rossa, che puzzava molto: mi sembrava che quella puzza difendesse la mia solitudine, e mi piaceva: che gioia poter chiudere la porta e trascorrere le mie giornate al riparo da ogni sguardo! Per molto tempo sono rimasta indifferente all’ambiente nel quale vivevo; forse a causa della figura del Mio diario preferivo le stanze che mi offrivano un divano e uno scaffale, ma mi accontentavo di qualsiasi buco: mi bastava di poter chiudere la porta per sentirmi felice.
Pagavo una pigione alla nonna, e lei mi trattava con la stessa discrezione delle altre pensionanti; nessuno controllava le mie entrate e uscite. Potevo rientrare all’alba o leggere a letto per tutta la notte, dormire in pieno mezzogiorno, restarmene murata per ventiquattr’ore di seguito, scendere improvvisamente in strada. Facevo colazione con un bortsch da Dominique, pranzavo alla Coupole con una tazza di cioccolata. Mi piacevano il cioccolato, il bortsch, le lunghe sieste e le notti di veglia, ma soprattutto mi piaceva vivere a mio capriccio. Non c’era quasi nulla che me lo impedisse. Constatavo con gioia che il «serio dell’esistenza» di cui gli adulti mi avevano intronato le orecchie, in realtà non era un peso troppo greve. Dare i miei esami, certo non era stato uno scherzo; avevo duramente penato, avevo avuto paura di non farcela, avevo cozzato contro ostacoli, stancandomi. Adesso non incontravo resistenze da nessuna parte, mi sentivo in vacanza, e per sempre. Qualche lezione privata, e un incarico al Liceo Victor Duruy, mi assicuravano il pane quotidiano; questi lavori non mi davano alcuna noia, poiché, eseguendoli, mi sembrava di dedicarmi a un gioco nuovo: giocavo alla persona adulta. Darmi d’attorno per trovare delle lezioni private, discutere con le direttrici e coi genitori degli allievi, combinare il mio bilancio, contrarre prestiti, rimborsarli, calcolare, tutte queste attività mi divertivano poiché le compivo per la prima volta. Ricordo l’allegria che mi diede ricevere il mio primo stipendio. Avevo l’impressione d’imbrogliare qualcuno.
La toeletta non mi aveva mai interessato gran che; tuttavia mi dava piacere vestirmi a modo mio; ero ancora in lutto per il nonno, e non volevo dar scandalo; mi comprai un mantello, un tocco, e un paio di scarpette grigie; mi feci fare un vestito intonato, e un altro bianco e nero; per reazione alle cotonine e alle lanette cui ero stata sempre condannata, scelsi delle stoffe setose: del crespo di Cina, e una stoffa bruttissima che andava di moda quell’inverno, un velluto arabescato. Tutte le mattine m’imbellettavo con violenza in fretta e furia: una macchia rossa su ciascun pomello, molta cipria, del rosso sulle labbra. Trovavo assurdo che la domenica ci si dovesse vestire in modo piú costoso che nei giorni feriali; per me, d’ora innanzi era tutti i giorni festa, e mi abbigliavo in tutte le circostanze allo stesso modo. Mi rendevo conto che il crespo di Cina e il velluto arabescato dovevano apparire alquanto fuori posto nei corridoi di un liceo, e che le mie scarpine sarebbero state meno scalcagnate se non le avessi trascinate dalla mattina alla sera sui selciati di Parigi, ma me ne infischiavo. La toeletta era una di quelle cose che non prendevo sul serio. Mettevo su casa, la arredavo, ricevevo amici, uscivo; ma erano soltanto preliminari. Quando Sartre rientrò a Parigi alla metà d’ottobre, solo allora cominciò veramente la mia nuova vita.
Sartre era venuto a trovarmi nel Limousin; era sceso all’albergo della Boule d’Or, a Saint-Germain-les-Belles; per evitare i pettegolezzi c’incontravamo lontano dal paese, in campagna. Com’ero allegra, quando la mattina scendevo per i prati del parco, scavalcavo le barriere, traversavo le praterie ancora umide dove cosí spesso, e a volte cosí amaramente, avevo rimuginato sulla mia solitudine! ci sedevamo sull’erba e parlavamo. Non avevo immaginato, il primo giorno, che, lontani da Parigi e dai nostri compagni, questa occupazione potesse bastarci. «Ci porteremo dei libri, e leggeremo», avevo suggerito. Sartre s’era indignato; allo stesso modo aveva spazzato via tutti i miei progetti di passeggiate; era allergico alla clorofilla, il verdeggiare di quei pascoli lo opprimeva, lo tollerava solo a condizione di dimenticarlo. E va bene. Per poco che mi s’incoraggiasse, la parola non mi spaventava; riprendemmo la conversazione interrotta a Parigi, e ben presto mi resi conto che se anche si fosse prolungata fino alla fine del mondo, il tempo mi sarebbe sempre parso troppo breve. Il sole era appena sorto e già suonava la campana del pranzo. Andavo a rifocillarmi in famiglia; Sartre mangiava del pan speziato o del formaggio che mia cugina Madeleine depositava segretamente in una piccionaia abbandonata, accanto alla «casa di sotto»: le piaceva il romanzesco. Appena schiuso, il pomeriggio avvizziva, scendeva la sera; Sartre tornava al suo albergo, dove cenava gomito a gomito coi commessi viaggiatori. Avevo detto ai miei genitori che stavamo lavorando a un libro che sarebbe stata una critica del marxismo. Speravo di ammansirli solleticando il loro odio per il comunismo, ma non li convinsi gran che. Quattro giorni dopo l’arrivo di Sartre, li vidi comparire al margine del prato in cui ci eravamo installati; sotto la sua paglietta ingiallita, mio padre aveva un’aria risoluta ma un po’ imbarazzata; Sartre, che quel giorno portava una camicia di un rosa aggressivo, saltò in piedi, con occhio battagliero. Mio padre lo pregò cortesemente di lasciare il paese: la gente chiacchierava, e la mia apparente sregolatezza nuoceva alla reputazione di mia cugina che si cercava di maritare. Sartre replicò vivacemente, ma senza alzar la voce, poiché era deciso a non anticipare la sua partenza nemmeno di un’ora. Ci limitammo a darci degli appuntamenti un po’ piú clandestini, in qualche castagneto piú lontano. Mio padre non tornò alla carica, e Sartre rimase ancora una settimana alla Boule d’Or. Dopo di che ci scrivemmo quotidianamente.
Quando lo ritrovai, in ottobre, avevo liquidato il mio passato1; e mi buttai senza riserve nella nostra relazione. Sartre doveva partire poco dopo per il servizio militare; in attesa, era in vacanza. Abitava in Rue Saint-Jacques, presso i suoi nonni Schweitzer; ci incontravamo al mattino, nel Lussemburgo grigio e oro, sotto lo sguardo bianco delle regine di pietra, e non ci lasciavamo fino a notte assai tarda. Camminavamo per Parigi, continuando a parlare; facevamo il punto su noi stessi, sui nostri rapporti, sulla nostra vita e i nostri futuri libri. Oggi, ciò che mi sembra piú importante di quelle conversazioni non tanto le cose che dicevamo quanto quelle che ci sembravano scontate, mentre non lo erano affatto; ci sbagliavamo pressoché su tutto. Per definirci bisogna ritornare su quegli errori poiché essi esprimevano una realtà: la realtà della nostra situazione.
Come ho già detto, Sartre viveva per scrivere; la sua missione era di dar testimonianza di tutte le cose e di rielaborarle alla luce della necessità; a me era stato ingiunto di prestare la mia coscienza al molteplice splendore della vita, e dovevo scrivere allo scopo di strapparlo al tempo e al nulla. Queste missioni ci s’imponevano con un’evidenza che ce ne garantiva l’assolvimento; senza formularcelo, ci rifacevamo all’ottimismo kantiano: devi, dunque puoi; e infatti, come si potrebbe mettere in dubbio la realtà nel momento stesso in cui essa si decide e si afferma? volere e credere sono allora una cosa sola. In tal modo facevamo credito al mondo e a noi stessi. Alla società nella sua forma attuale, eravamo contrari; ma in quest’antagonismo non c’era nulla di doloroso, implicava anche un robusto ottimismo. L’uomo era da ricreare, e questa invenzione sarebbe stata in parte opera nostra. Il nostro contributo l’avremmo dato sotto forma di libri: la politica ci annoiava, ma davamo per scontato che gli avvenimenti si sarebbero svolti secondo i nostri desideri senza che noi dovessimo occuparcene; a questo riguardo, in quell’autunno 1929, condividevamo l’euforia di tutta la sinistra francese. La pace sembrava assicurata definitivamente; l’espansione del partito nazista in Germania non rappresentava che un epifenomeno senza gravità. Il colonialismo sarebbe stato liquidato in breve lasso di tempo: lo garantivano la campagna scatenata da Gandhi in India e l’agitazione comunista in Indocina. E la crisi di eccezionale violenza che scuoteva il mondo capitalista lasciava presagire che questa società non avrebbe resistito molto a lungo. Già ci pareva di trovarci nell’epoca d’oro che ai nostri occhi costituiva la verità nascosta della Storia e ch’essa si sarebbe limitata a svelare.
Ignoravamo su tutti i piani il peso della realtà. Ci gloriavamo di una radicale libertà. A questa parola avevamo creduto cosí a lungo e con tanta tenacia che è necessario esamini da vicino ciò che sottintendeva per noi.
Copriva un’esperienza reale. In qualsiasi attività è riscontrabile una certa libertà, e in particolare nell’attività intellettuale, poiché in essa la ripetizione non ha molto posto; avevamo studiato molto; continuamente avevamo dovuto comprendere e reinventare; avevamo della libertà un’intuizione pratica, inconfutabile; il nostro torto fu di non contenerla nei suoi giusti limiti; c’eravamo fissati sull’immagine della colomba di Kant: l’aria che le fa resistenza, anziché ostacolarne il volo, la sostiene. Il dato ci appariva come la materia dei nostri sforzi e non come il loro condizionamento: credevamo di non dipendere da niente. Al pari del nostro accecamento politico, quest’orgoglio intellettuale è spiegabile prima di tutto con la violenza dei nostri propositi. Scrivere, creare: nessuno oserebbe rischiare una simile avventura se non si credesse assoluto padrone di se stesso, dei propri fini e dei propri mezzi. La nostra audacia era inseparabile dalle illusioni che la sostenevano, e le circostanze le avevano favorite insieme. Nessun ostacolo esterno ci aveva mai costretti ad andare contro noi stessi; volevamo conoscerci ed esprimerci: ci trovavamo ingolfati in questo compito fino al collo. La nostra esistenza colmava cosí esattamente i nostri desideri che ci sembrava d’averla scelta: ci auguravamo che essa si sarebbe sempre sottomessa ai nostri disegni. Il caso che ci aveva favoriti ci mascherava l’avversità del mondo. D’altro lato, interiormente, non sentivamo alcun legame. Io mantenevo buoni rapporti coi miei genitori, ma essi avevano perso qualsiasi presa su di me; Sartre non aveva mai conosciuto suo padre; sua madre, i suoi nonni, non avevano mai impersonato la legge, per lui; in certo senso eravamo entrambi senza famiglia, e avevamo eretto questa situazione a principio. Vi eravamo stati incoraggiati dal razionalismo cartesiano trasmessoci da Alain, e che avevamo abbracciato proprio perché ci conveniva. Nessuno scrupolo, nessun rispetto, nessuna aderenza affettiva ci tratteneva dal prendere le nostre decisioni alla luce della ragione e dei nostri desideri; non scorgevamo in noi nulla d’opaco o di torbido, pensavamo di essere pura coscienza e pura volontà. Questa convinzione era rafforzata dallo slancio con cui puntavamo sull’avvenire; non eravamo legati ad alcun interesse definito, poiché il presente e il passato dovevano superarsi incessantemente. Non esitavamo a mettere in discussione tutto e noi stessi ogni qual volta ne avessimo occasione; ci criticavamo, ci condannavamo con disinvoltura, poiché qualsiasi cambiamento sembrava un progresso. Giacché la nostra ignoranza dissimulava la maggior parte dei problemi che avrebbero dovuto inquietarci, ci accontentavamo di queste revisioni credendoci intrepidi.
Percorrevamo la nostra strada senza costrizioni, senza ostacoli, senza imbarazzi, senza paura; ma come ci era possibile non intoppare se non altro contro gli sbarramenti? Poiché, tutto sommato, avevamo le tasche vuote; io mi guadagnavo a malapena la vita, Sartre dava fondo a una piccola eredità ricevuta dalla nonna paterna: i negozi rigurgitavano di oggetti proibiti, i locali di lusso ci erano sbarrati. A queste interdizioni opponevano l’indifferenza e perfino il disdegno. Non eravamo asceti, tutt’altro; ma, oggi come un tempo – e Sartre mi assomigliava – soltanto le cose che mi erano accessibili, e soprattutto quelle che toccavo, avevano il loro peso di realtà; mi abbandonavo cosí interamente ai miei desideri, ai miei piaceri, che non mi restava niente di me da sprecare in vani desideri. Perché avremmo dovuto rimpiangere di non andare in macchina, visto che a piedi, lungo il canale Saint-Martin o sui lungofiume di Bercy, facevamo tante scoperte? Quando mangiavamo nella mia stanza pane e foie gras Marie, quando cenavamo alla birreria Demory il cui greve odore di birra e di choucroute tanto piaceva a Sartre, non ci sentivamo privati di nulla. La sera, al Falstaff, o al College Inn, bevevamo ecletticamente bronx, sidecar, bacardi, alexandra, martini; io avevo un debole per i cocktail all’idromele dei Vikings e per quelli all’albicocca, specialità del Bec de Gaz, in Rue Montparnasse: forse che il bar del Ritz avrebbe potuto offrirci di piú? Anche noi facevamo i nostri festini. Una sera, ai Vikings, mangiai del pollo ai mirtilli, mentre in una tribuna l’orchestra suonava la canzone di moda Pagan Love Song. Sapevo che questo banchetto non mi avrebbe inebriata se non fosse stato eccezionale. La stessa modestia delle nostre risorse favoriva la mia felicità.
E d’altronde, ciò che si cerca negli oggetti di valore non è un godimento immediato: essi servono da tramite col prossimo; il loro prestigio deriva da quello di chi li valuta. Data la nostra educazione puritana e la serietà del nostro impegno intellettuale, i frequentatori dei palazzi, gli uomini con la Hispano, le donne in visone, i duchi, i milionari, non ci facevano impressione; anzi, profittatori di un regime che condannavamo, consideravamo questa gente del bel mondo come la feccia della terra. Provavo nei loro confronti un’ironica pietà; tagliati fuori dalla massa, confinati nel loro lusso e nei loro snobismi, quando passavo davanti alle porte invalicabili del Fouquet’s o del Maxim’s, mi dicevo che gli esclusi erano loro. In generale, costoro per me non esistevano nemmeno; dei loro privilegi, delle loro raffinatezze non sentivo la mancanza piú di quanto i greci del v secolo potessero sentire la mancanza del cinema o della radio. Naturalmente, il muro del denaro frustrava la nostra curiosità, ma questo non ci irritava, poiché pensavamo che la gente d’alto rango non aveva nulla da insegnarci; le loro fastose dissipazioni coprivano soltanto il vuoto.
Nulla, dunque, ci limitava, nulla ci definiva, nulla ci assoggettava; eravamo noi stessi a creare i nostri legami col mondo; la libertà era la nostra sostanza stessa. Di giorno in giorno la esercitavamo con un’attività che aveva un gran posto nella nostra vita: il gioco. La maggior parte delle coppie novelle suppliscono con giochi e con favole alla povertà del loro passato comune: noi vi ricorrevamo con tanto piú zelo in quanto eravamo di temperamento attivo e ci trovavamo provvisoriamente in ozio. Commedie, parodie, apologhi, le nostre invenzioni avevano una funzione precisa: ci difendevano da quello spirito di serietà che rifiutavamo con lo stesso vigore di Nietzsche, e per ragioni analoghe; esse alleggerivano il mondo proiettandolo nell’immaginario, e ci permettevano di tenerlo a distanza.
Dei due, Sartre era il piú inesauribile. Componeva lamentazioni, filastrocche, epigrammi, madrigali, favole in due battute, ogni sorta di poesie-lampo, e a volte li cantava su arie di sua invenzione; non disdegnava né i giochi di parole, né le battute; si divertiva a fare assonanze, allitterazioni; era un modo di misurarsi con le parole, di esplorarle, e nel tempo stesso di toglier loro il peso quotidiano. Aveva preso da Synge il mito del «Baladin», eterno errante che nasconde sotto belle storie menzognere la mediocrità della vita; The Golden Crock di Leslie Stephens ci aveva fornito quello del Leprecano: accovacciato sotto le radici degli alberi, questo gnomo sfida l’infelicità, la noia, il dubbio, fabbricando piccole calzature. Tutt’e due, l’avventuriero e il sedentario, insegnavano la stessa lezione: la letteratura innanzitutto; ma attraverso di loro questo imperativo perdeva il suo peso dogmatico; nei confronti dei libri che avremmo scritto e che ci stavano tanto a cuore, assumevamo una certa posizione di distacco chiamandoli «le nostre piccole calzature».
Avevamo entrambi una salute da cavallo e inclinazione all’allegria. Ma io mal sopportavo le contrarietà; cambiavo faccia, mi chiudevo, mi ostinavo. Sartre mi attribuiva una doppia personalità; di solito ero il Castoro; ma a volte questo animale cedeva il posto a una giovane assai sgradevole: la signorina de Beauvoir; Sartre ricamava su questo tema delle variazioni e finiva sempre per deridermi. Quanto a lui, succedeva spesso – la mattina, quando nella sua testa si attardavano le nebbie, o quando le circostanze lo riducevano alla passività – che la contingenza lo soverchiasse, e allora si rannicchiava in se stesso, come per offrirle la minor presa possibile. E allora assomigliava all’elefante marino che avevamo visto allo zoo di Vincennes, e il cui dolore ci aveva ferito il cuore. Un guardiano gli aveva versato in gola un secchio pieno di pesciolini, e poi gli era saltato sulla pancia; pieno di quei pesciolini l’elefante marino aveva levato al cielo i suoi occhi minuscoli, smarriti: era sembrato che tutta la sua enorme massa di carne cercasse attraverso quelle strette fenditure di cambiarsi in una supplica; ma anche quest’embrione di linguaggio gli era vietato. Il mostro sbadigliò, sul suo cuoio oleoso colarono lacrime, dondolò la testa e si afflosciò, vinto. Quando la tristezza decomponeva il volto di Sartre, fingevamo che l’anima desolata dell’elefante marino si fosse impadronita di lui. Egli completava questa metamorfosi levando gli occhi al cielo, sbadigliando, supplicando tacitamente, e questa pantomima finiva per risvegliare la sua allegria. Cosí i nostri umori non ci apparivano una fatalità secreta dai nostri corpi, ma travestimenti che indossavamo per gusto perverso e di cui potevamo spogliarci a nostro piacimento. Per tutta la nostra giovinezza e anche oltre ci abbandonammo a sommari psicodrammi; ogni volta che dovevamo affrontare situazioni spiacevoli o difficili le trasponevamo, o le spingevamo all’estremo, o le mettevamo in ridicolo, o le esploravamo in lungo e in largo, e ciò ci aiutava molto a dominarle.
In modo analogo regolavamo il nostro regime economico. Ritrovatici a Parigi, prima ancora di definire il nostro rapporto, gli avevamo subito dato un nome: «È un matrimonio morganatico». La nostra coppia possedeva una doppia identità. Di solito eravamo i signori Morganatici, una coppia d’insegnanti non ricchi, senza ambizioni e contenti del poco. A volte io mi facevo bella e ce ne andavamo in un cinema degli Champs-Élysées, o al dancing della Coupole, e allora eravamo dei miliardari americani, i signori Morgan Hattick. Non si trattava affatto di una commedia isterica destinata a convincerci che per qualche ora avremmo gustato i piaceri dei nababbi ma d’una parodia che ci confermava nel nostro disdegno della gran vita; i nostri modesti festini ci bastavano pienamente, la ricchezza non ci diceva nulla: eravamo paghi della nostra condizione ma nello stesso tempo fingevamo di evaderne; i piccoli borghesi squattrinati che chiamavamo signori Morganatici, non erano veramente noi: giocando a metterci nei loro panni ci distinguevamo da essi.
Ho già detto ch’io consideravo una mascherata anche le mie occupazioni quotidiane, e tra le altre il mestiere d’insegnante. Il gioco rendendo irreale la nostra vita, contribuiva a convincerci ch’essa non ci conteneva. Noi non appartenevamo a nessun luogo, a nessun paese, a nessuna classe, a nessuna professione, a nessuna generazione. Il nostro vero essere era altrove, esso aveva per confine l’eternità, e l’avvenire l’avrebbe rivelato: noi eravamo scrittori. Qualsiasi altra definizione era soltanto apparente. Pensavamo di seguire il precetto degli antichi stoici i quali avevano puntato tutto, come noi, sulla libertà, gettati anima e corpo nell’opera che dipendeva da noi, ci affrancavamo da tutte le cose, che non ne dipendevano; non arrivavamo fino al punto di farne a meno, eravamo troppo avidi, m...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L’età forte
  3. Nota biobibliografica
  4. L’età forte
  5. Prologo
  6. Parte prima
  7. Parte seconda
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright