Quando l'Italia era una superpotenza
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Quando l'Italia era una superpotenza

Il ferro di Roma e l'oro dei mercanti

  1. 328 pagine
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Quando l'Italia era una superpotenza

Il ferro di Roma e l'oro dei mercanti

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Con una nuova prefazione dell'autore. Perché Roma, nata come emporio, divenne padrona del mondo? Perché le sue lotte interne ne alimentarono l'espansione esterna? E ancora. Perché le Repubbliche del Medioevo si nutrirono delle due grandi civiltà mediterranee, Bisanzio e l'Islam, sostituendole nell'egemonia? Perché ai secoli bui dopo la caduta dell'Impero romano d'Occidente segue un risveglio italiano che alimenterà quello europeo fino a fondare una nuova egemonia?
Giorgio Ruffolo risponde a queste domande accompagnando il lettore in un affascinante viaggio nei due piú gloriosi e cruciali momenti della nostra storia: dalla Roma dei re, dei senatori e degli imperatori che ha conquistato l'intero mondo conosciuto con il ferro della spada, alle Repubbliche italiane - Pisa, Amalfi, Genova, Venezia, Firenze, Milano - che con l'oro dei commerci risollevarono le sorti dell'Italia.
Attraverso il racconto degli eventi storici e dei protagonisti, le strutture economiche e le grandi correnti sociali, ma anche gli aneddoti e le leggende, Ruffolo mette a confronto due epoche di indiscussa superiorità mondiale da cui emergono i tratti caratteristici dell'identità italiana, le sue continuità e le sue discontinuità.
Un reportage avvincente che si legge come un romanzo, un saggio che non cede mai alle semplificazioni e che non esita a sottolineare le occasioni mancate e le alternative possibili con uno sguardo rivolto sempre al nostro intricato presente.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858414231
Argomento
Storia
Categoria
Storia antica

Parte prima

Il ferro

Capitolo primo

Alba sul Tevere

I sette colli erano dieci.

Nella notte che cominciava a dileguare dai monti selvosi al mare, lungo le grandi anse del fiume, non si distinguevano ancora le forme, ma si levavano già i muggiti e i belati delle mandrie. I pastori latini le sospingevano all’alba giú per il colle scosceso attraverso la porta Mugonia, verso i pascoli della pianura. Poteva essere qualunque primavera, a metà dell’VIII secolo prima di Cristo. Presto si sarebbero stagliate alla luce le nuove mura, nient’altro che un modesto terrapieno, sul Colle. Cingevano un gruppo di capanne di paglia e di fango e un tempio di legno che le sovrastava. Altri borghi si aggruppavano sui colli circostanti, paesaggi di boschi e di rupi, tane di lupi, divisi da stagni e paludi che il fiume aveva formato rallentando il suo corso. Roma fu, all’inizio, la federazione di sette di quei montes (villaggi): il settimonzio. Ce n’erano tre sul colle Palatino (pare dovesse il suo nome al belato delle greggi): il Palatium, il Germalo e la Velia. Altri tre sull’Esquilino: il Fagutal, monte dei faggi, il Cispio e l’Oppio. E il Celio, o Querquetal, monte delle querce: tutti abitati da popolazioni latine, i ramnenses. Piú tardi vi si unirono il Viminale, colle dei salici, e il Quirinale, abitati entrambi da sabini, o quiriti o titienses. E l’Aventino, abitato da gente straniera: albani ed etruschi, i luceres. Tra il Palatino e il Quirinale si ergeva un colle conteso tra latini e sabini, il Campidoglio che divenne la rocca della città. Tra il Campidoglio il Palatino e l’Aventino la pianura, in parte paludosa, prospiciente all’isola Tiberina, ove si teneva un grande mercato. Quei colli, dopo due secoli circa dal primo solco di Romolo, che non era quadrato, si saldarono in una sola città, cinta da sette chilometri di blocchi di tufo: le mura serviane, che non erano di Servio Tullio, ma piú tarde, e comprendevano una superficie di ben duecentottantaquattro ettari.

Una leggenda imbarazzante.

La leggenda di quella città, come tutte le leggende che servono a nobilitare la nascita di città famose, è stata il frutto di una lunga elaborazione. Il suo nucleo originario era semplice: un figlio di Giove, un eroe, un tale Romo, l’avrebbe fondata, dandole il suo nome. Era evidentemente una storia un po’ troppo povera. E quindi si arricchí progressivamente di racconti che pretendevano, sia pure senza rinunciare all’origine divina, a radicarla in un mito storico illustre: quello dei greci e dei troiani. Della grande tragedia di Troia pochissimi erano gli eroi sopravvissuti. E di questi, due avevano molto viaggiato, dopo la fine della guerra, Ulisse ed Enea. Ecco i magnifici candidati a un approdo sulle coste laziali, per annodare le antiche alle nuove glorie: Ulisse sul promontorio di Circe, Enea un po’ piú su. Ad ambedue fu attribuita una discendenza latina. Ne emerse vittorioso Enea, forse per la sua piú diretta ascendenza divina (da Venere). Cosí, quel Romo o Romolo gli fu prima attribuito come figlio; e poi, quando emerse una chiara incompatibilità cronologica, come pronipote, attraverso una progenie di re latini e albani. Cosí Virgilio, il rifinitore della leggenda, poté allacciarsi felicemente a Omero, nel secolo aureo di Augusto.
Ma la leggenda aurea aveva un risvolto molto meno edificante e piú psicanalitico, che il meno agiografico e piú scettico Plutarco raccontò senza complessi. Secondo quella versione, del tutto ignara del pio Enea, il re della città latina di Albalonga, Tarchezio, una notte è svegliato di soprassalto dai famigli perché un orrendo membro si libra immenso e pulsante nel tablino, giú da basso. Il re, che era un latino collaborazionista degli etruschi, consulta i loro indovini. La risposta è chiara: quello è il grande spirito del dio del fuoco latino, il grande Marte, che adirato per il comportamento antinazionale del re, vuole generargli un successore autentico, e ha scelto questo modo un po’anomalo. Il responso etrusco è astuto, come erano gli etruschi: il re non frapponga ostacoli, ma, anzi, compiaccia il grande intruso mandandogli una vergine. Il re è perplesso: forse gli etruschi lo stanno abbandonando per venire a patti con il dio irato? E per salvare il regno chiede alla giovane figlia di sacrificarsi per il bene della patria: cosí diventerà nonno del nascituro, il che potrà ammorbidire il piano di Marte. La giovane però non ne vuole sapere di quel coso solitario e arrogante, e convince una schiava a sostituirla. La prova riesce tanto bene che dopo nove mesi nascono non uno ma due maschietti. Il nonno è costernato, e anche gli indovini. Chi dei due è il predestinato? Da chi bisogna difendersi? Come si vede, Marte non è stato meno astuto degli indovini etruschi. Per non recare offesa al dio, ma neppure correre rischi, Tarchezio decide di lasciare la decisione al Tevere, facendo depositare i neonati in una cesta galleggiante sul fiume. Qui le versioni collimano ma per divergere subito dopo. Infatti, man mano che i due bimbi raccolti da una lupa (cosí si chiamavano allora le prostitute) crescono, diventa sempre piú evidente che Remo è il vero predestinato, è il campione latino, il vendicatore della razza, il liberatore dei latini dal dominio etrusco, il prescelto a fondare sulla riva sinistra del Tevere la città nuova, che dovrà chiudere agli etruschi la porta della pianura laziale. Romolo è il piú debole ma anche il piú astuto. Lascia che sia Remo a sbarazzarsi del re di Albalonga e si mette d’accordo segretamente con gli etruschi per far fuori subdolamente l’onesto Remo in una delle piú famose contese fraterne della storia. Ingannandolo sull’esito della gara concordata (chi avesse visto per primo gli avvoltoi nella Valle Murcia tra l’Aventino e il Palatino, dove piú tardi sorse il Circo Massimo) ne provoca l’ira, il fatale passaggio del solco che lo sleale vincitore sta tracciando e il successivo assassinio, perpetrato da un sicario etrusco con un colpo di zappa sulla testa.
Come si può capire, questa non era una versione lusinghiera per le origini della capitale del mondo. Tanto piú che Romolo, protetto dagli etruschi, fu praticamente espulso dalla comunità delle altre città latine e costretto a dare asilo, per popolare la nuova città, a ogni sorta di banditi. I romani si inventarono un nuovo dio, il Dio Asilo, cui fu dedicato un tempio eretto esattamente dove è ora la piazza michelangiolesca del Campidoglio, tra due boschetti, che sono ora il palazzo capitolino e quello senatorio. E rapirono le fanciulle sabine, perché nessuna ragazza era volontariamente disponibile a vivere in quella città esecrata.
Lo stesso Romolo, secondo la leggenda, fu vittima di quella sua città violenta e dissoluta. Insofferenti della sua prepotenza, gli anziani lo fecero a pezzi; e temendo la reazione della sua gente, si divisero tra loro i pezzi e li nascosero sotto le toghe, raccontando poi che il re era volato via, assunto in cielo, dove il dio Marte lo aspettava.
Leggende cosí fosche tradiscono condizioni di particolare turbolenza. E questa nasce forse dalla posizione nevralgica della nuova città, alle frontiere di due civiltà – l’etrusca e l’italica – e all’incrocio di due importanti vie commerciali, quella est-ovest del sale, tra il Tirreno e i monti della Sabina; e quella nord-sud, dalla Toscana etrusca alla Campania greca, sulla quale transitavano altre due preziose merci: il ferro e gli schiavi.

Pastori, contadini e mercanti.

I latini non erano autoctoni, come a lungo credettero o finsero di credere essi stessi. Erano la filiazione di un gruppo etnico, gli italici, giunti dalla Russia nella grande onda indoeuropea, con il loro ferro, i loro dèi del fuoco, i loro carri e cavalli: press’a poco nella stessa fase storica nella quale vi giunsero gli etruschi. Tra etruschi e latini vi fu subito scontro, ma si annodarono anche i traffici. Latini e sabini, questi ultimi di stirpe albanese, vennero a contatto con gli etruschi proprio lí, al guado dell’isola tiberina, sotto al dirupo del Palatino, dove si era fatto il nido Roma, «torva riguardante sui selvaggi piani». Il guado tiberino era dunque una posizione di importanza strategica. In quella stessa epoca storica erano poi approdati alle coste della Sicilia e dell’Italia meridionale i greci. Tutto il Mediterraneo, insomma, aveva subito un brusco cambiamento di scena, con uno spostamento del baricentro politico da est a ovest. L’Italia stava al centro di quel movimento. E la nuova città stava al centro dell’Italia.
Quali possibilità avevano questi romani arroccati sul Palatino di sfruttare a loro vantaggio quella posizione strategica? In fondo, continuavano a essere quello che i loro antenati erano stati per secoli: pastori. Ma fu proprio l’arrivo in Italia dei greci e degli etruschi, e cioè di un’immigrazione proveniente da civiltà raffinatissime che giovò a Roma, cambiandone completamente il contesto economico e politico. Il basso Tevere diventò una zona calda.
Il Tevere stesso era una via commerciale, utilizzata per la fluitazione del legname proveniente dall’alta valle tiberina. Era navigabile per lunghi tratti verso la foce e le imbarcazioni dei mercanti greci fenici etruschi lo risalivano fino all’isola tiberina, dove due antiche strade, la Salaria e la Campana, convergevano sul guado, piú tardi sostituito dal ponte Sublicio. In quel luogo si concentrava sin dai tempi arcaici il mercato del sale e il mercato del bestiame: il Foro Boario. E lí fiorí un grande emporio commerciale fitto di merci e di uomini provenienti da tutto il Mediterraneo. Da quel vasto spiazzo lungo la riva sinistra del Tevere, davanti al Palatino e all’Aventino, si diramavano le strade e i vicoli di un quartiere commerciale affollatissimo, dove, tra le botteghe e i mercati, sorsero santuari e templi edificati in onore di dèi indigeni ed esotici.
Con il crescere di quegli scambi anche il paesaggio sociale di Roma si complicava e si animava. Ai belati delle mandrie si accompagnava il rotolio dei carri, il battito dei cantieri, il frastuono delle vie bottegaie. Al conflitto arcaico tra i pastori e i contadini si sovrappose quello, destinato a svilupparsi in forme violente, tra questi ultimi, raggruppati nelle genti patrizie, con le loro clientele, e la nuova gentarella dei negozianti, degli artigiani, dei mediatori. I senza gente: i tanti, i plebei.
I primi erano il frutto di una selezione durissima. L’agricoltura intensiva si era affermata nel Lazio tra l’VIII e il VI secolo nella pianura strappata con fatica alle paludi e alle foreste. Il paesaggio del Lazio centrale era ben diverso da quello odierno. Per la maggior parte, due terzi circa, era coperto da foreste, paludi, laghi, acquitrini. Un terzo soltanto era lasciato ai pascoli o coltivato, per lo piú a grano, o con una specie di grano, il farro, dal seme piú resistente all’umidità. I pascoli cedettero lentamente, nel tempo, alle coltivazioni. Il fatto è che la terra non era fertile come quella campana o padana. Lo strato di cenere vulcanica era poco spesso e poggiava su un pavimento duro di argilla. Bisognava lavorarla a lungo, quella terra, e con grande fatica; con la zappa prima, e poi con un aratro primitivo. E lasciarla riposare ad anni alterni.
Da quella lotta contro una terra ardua fu forgiata la stirpe dei patrizi romani: contadini diventati proprietari individuali dopo l’emancipazione dalla proprietà collettiva della gens: durissimi, ostinati, infaticabili. Un po’ limitati. E assai prolifici, come attestano i nomi non immaginifici dei loro rampolli: Primo, Secondo, Terzio… Ottavio, Decimo. Non fu però soltanto da quella gente che derivò la stirpe di Romolo. Roma era nata come un crogiuolo, alla confluenza di tre stirpi di origini e culture diverse: i sabini, prevalentemente montanari e pastori, i piú conservatori; i latini, prevalentemente agricoltori; e gli etruschi, i piú civilizzati, cosmopoliti, navigatori, artigiani e mercanti. Nei suoi primi secoli, essa subí alternativamente l’influenza di tutte e tre queste etnie.

Giunge uno strano principe.

Fu proprio questa la sua grande fortuna. Diversamente dalle città-stato sumeriche, elleniche e fenicie Roma non si identificò con una nazione. Non fu mai calata in uno stampo rigido, come un vecchio cliché la raffigura. Fondata fin dalle origini come un asilo che raccoglie i rifiuti dei popoli circostanti, non avrebbe mai potuto generare una cultura razzista. La sua identità non poteva riconoscerla in un sostrato organico. Fu dunque costretta a costruirla artificialmente, come una creazione della mente. La sua unità, la sua identità fu lo Stato, la Repubblica. Una struttura essenzialmente politica. Sulla sponda destra del Tevere, che non passava propriamente dentro Roma, ma la sfiorava di sguincio, c’era la ricca, raffinata, crudelissima Etruria. La quale non costituiva uno Stato, ma una Confederazione di città indipendenti ed opulente. Verso la metà dell’VIII secolo quella potenza composita era ancora piena di energie che la spingevano a espandersi a Nord, nella pianura padana, ove si scontrava con le popolazioni celtiche; e a Sud, verso le ricche pianure e i porti della Campania, ove doveva vedersela con i greci, alleandosi spesso con i loro grandi nemici, i fenici di Cartagine. Era inevitabile che gli etruschi passassero in qualche modo per Roma.
La pressione etrusca su Roma l’abbiamo già incontrata nella leggenda. Sta di fatto che, dopo un primo periodo storicamente oscuro, identificabile nei personaggi mitici dei re latini e sabini, Roma si trova a essere dominata da principi etruschi. Non si tratta però di una conquista militare, di una invasione di eserciti, ma piuttosto di una infiltrazione. I re etruschi sono avventurieri che arrivano in una città nuova per sfruttare il suo potenziale di sviluppo, grazie alla loro intraprendenza e all’esperienza acquisita in una civiltà superiore. Sono anch’essi uomini nuovi, non figli di re: proprio come lo erano, a quei tempi, i tiranni greci: Aristodemo di Cuma, Gerone di Siracusa. Come lo furono, molto piú tardi, i signori delle Repubbliche medievali italiane.
Consideriamo come Tarquinio il Vecchio, che era un intelligente e inquieto figlio di un greco di Corinto, un certo Demarato e di una nobile e ricca signora di Tarquinia. Aveva avuto la buona sorte di sposare Tanaquil, una ragazza bella e intraprendente come e piú di lui. Quella coppia considerò Roma come una coppia di coloni bianchi poteva considerare la Rhodesia o il Far West. È un po’ difficile credere a Tito Livio (come accade spesso) quando riferisce che quei due erano giunti «nei pressi del Gianicolo per caso». E per aumentare la sua credibilità ci racconta che lí, in cima al colle, un’aquila a volo radente strappò il copricapo al giovane, per rimetterglielo in testa dopo un largo giro in cielo. E cosí – conclude Livio – Tanaquil abbracciò il marito e lo persuase a entrare a Roma, «dove prese dimora dichiarando il nome di Lucio Tarquinio Prisco» (eh no! Prisco, cioè il Vecchio, non poteva esserlo, allora!). Quel che è certo è che Tarquinio e la moglie, trasferitisi a Roma con un vasto corteo di clienti, continuarono ad arricchirsi commerciando; e con quella fortuna, e con l’abilità in materia di relazioni pubbliche di Tanaquil, organizzarono una campagna elettorale trionfale (i re romani, a differenza degli imperatori piú tardi, erano eletti democraticamente). Tarquinio diventò re. Era un imprenditore e un demagogo. Ma anche un politico geniale. Schiacciò tutti i concorrenti, facendo balenare immagini di potenza e di ricchezza per tutti. Era anche un audace condottiero. Promosse guerre di rapina, infiammando la gioventú. Dionigi di Alicarnasso ci racconta diffusamente le sue gesta. Non solo guidò vittoriosamente i romani contro sabini, equi, volsci, estendendo il dominio della città a Sud, fino a Terracina. Ma si rivolse a Nord, contro l’Etruria e riuscí a sottometterla, forse non tutta, ma la sua parte meridionale, compresa la sua Tarquinia. Dunque, non fu l’Etruria a sottomettere Roma, ma addirittura Roma a sottomettere, almeno in parte, l’Etruria. La successiva «etruschizzazione» dell’Urbe sarebbe stata il frutto della superiorità culturale dei toscani vinti, che vi si infiltrarono e vi prosperarono, modernizzando i fieri costumi latini.

La grande Roma dei Tarquini.

Fu proprio cosí? Non è possibile troncare di netto la questione, per mancanza di altre fonti dirette. Ma illustri storici, come Ferrero e Barbagallo, considerano del tutto verosimile questa ipotesi di Roma capitale dell’Etruria. Sta di fatto che nei trent’anni del suo regno il figlio del ricco greco e della nobile toscana fece di Roma una potenza tirrenica: «la grande Roma dei Tarquini» come l’ha definita un altro storico contemporaneo. Era certo un uomo privo di scrupoli: quando conquistava una città, deportava le donne e i figli a Ostia, dove li vendeva ai pirati. Attivò grandi flussi di commercio con la Sardegna, con la Corsica, con i cartaginesi, con la Sicilia, la Magna Grecia e persino con l’Oriente ellenico. Riempí Roma di artigiani che lavoravano il rame, il legno, le pelli, le ceramiche, il ferro; concentrò le loro officine tra il Palatino e il Campidoglio, ove per secoli il vicus tuscus conservò la loro memoria. Istituí alla sua corte la pompa e il cerimoniale etruschi. Grande demagogo, con la sua Tanaquil, di cui fu sposo fedele, seppe formarsi un robusto partito nel Senato e soprattutto un vasto consenso tra gli uomini nuovi del commercio, dell’industria, dei mestieri: la gentarella plebea.
Quell’alleanza, il successore Servio Tullio, che proprio etrusco non era (si diceva fosse figlio di una nobile latina, schiava della regina e del solito dio fallico che capitava sempre a sorpresa) la ribadí e la sviluppò quando nella costituzione sancí il predominio dei ricchi, costringendoli però a subire il peso prevalente delle tasse. E quando, addirittura, tentò di istituire una monarchia democratica e rivoluzionaria, suscitando lo sdegno e la rivolta dei patrizi.
Quella rivolta, fu il secondo Tarquinio a cavalcarla, aizzato dalla figlia degenere del re, che aveva sposato, e che travolse il padre sanguinante sotto le ruote del suo cocchio. Ma questo Tarquinio Superbo riprese poi in pieno la politica democratica espansionistica e mercantile dei predecessori, finché cadde nella congiura aristocratica guidata dal balbuziente Bruto e dal suo amico Collatino, per vendicare l’onore di Lucrezia, violentata dal figlio del re.
La storia è raccontata dai vincitori; e i vincitori erano senza dubbio gli aristocratici patrizi, latini e sabini, insofferenti della potenza del re etrusco e della crescente influenza della plebe. La raccontarono demonizzando i re oppressori della libertà ed esaltando la purezza delle nuove istituzioni repubblicane. Non si fa fatica a credere che di nefandezze, i re etruschi e i loro cari ne abbiano compiute. Ma ormai da tempo gli storici contemporanei hanno rivalutato certe testimonianze (perché non credere a chi era certo piú di noi informato dei fat...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Quando l'Italia era una superpotenza
  3. Prefazione
  4. Quando l’Italia era una superpotenza
  5. Parte prima - Il ferro
  6. Parte seconda - L’oro
  7. Invece di una bibliografia
  8. Elenco dei nomi
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright