Il labirinto dell'identità
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Il labirinto dell'identità

Scritti politici

  1. 136 pagine
  2. Italian
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Il labirinto dell'identità

Scritti politici

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Qual è la natura di questa identità che, interagendo con i popoli che la circondano, porta talvolta a conseguenze tanto aspre e violente? Quali sono le sue componenti, la sua particolarità? In che modo essa si esprime, sia all'interno del popolo ebraico che all'esterno? Quale sostanziale mutamento ha subíto in Israele rispetto ai migliaia di anni trascorsi nella diaspora?
In questa raccolta di sette saggi, di cui cinque inediti, Abraham B. Yehoshua cerca di accendere un lume che possa schiarire le tortuosità di questo dedalo, e forse anche segnalare una via d'uscita senza tuttavia intaccare il nocciolo di tale identità.

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Informazioni

Il labirinto dell’identità

Un tentativo di riconoscere e di comprendere
la radice dell’antisemitismo1

Dedicato al mio maestro – Zvi Yabetz,
che mi ha insegnato a camminare lungo i sentieri
della storia
Una scienza che abbia compreso la menzogna della pura spiritualità saprà ripristinare la mutua influenza tra il corpo e l’anima di una nazione, e ci insegnerà a vedere con incorrotta lucidità l’enorme problema dei rapporti di Israele con gli altri popoli, senza lamentele e senza arroganza.
(GERSHOM SCHOLEM, Riflessioni sul pensiero di Israele, in «Luach HaAretz», 1944-45).
Esiste un’unica radice all’odio per gli ebrei, definito a partire dalla fine del XIX secolo «antisemitismo»? Possiamo porci una domanda simile in relazione a un fenomeno cosí prolungato nel tempo, cosí vario nelle sue manifestazioni e dai motivi cosí disparati? Già in antichità si ritrovano testimonianze di questo odio mortale fra popoli di diverse culture e religioni (spesso anche antagoniste e rivali tra loro come il Cristianesimo e l’Islam) e piú recentemente lo si scopre diffuso in comunità a regime totalitario e non confessionale, quali la Germania nazista e i suoi alleati, e in società liberali e democratiche. Un odio rimasto immutato per migliaia di anni in un mondo in continua evoluzione dove anche gli ebrei, per molti versi, sono cambiati, subendo metamorfosi sociologiche, mutando stile di vita e professioni, luoghi di residenza, integrandosi nelle società in cui vivevano: ebrei osservanti e laici, nazionalisti e assimilati, affiliati in comunità o isolati.
È possibile ipotizzare un qualche legame tra il filosofo romano Seneca, vissuto nel I secolo d. C. che definí gli ebrei «tribú esecrabile» o lo storico Cornelio Tacito che li qualificò con l’appellativo di «detestabili» e il compositore antisemita Richard Wagner e lo scrittore francese Céline vissuti svariate centinaia di anni piú tardi? Al di là dell’enorme baratro di valori, dell’abissale divario culturale e sociale che li divideva, questi personaggi conoscevano infatti ebrei completamente diversi.
Comprendo e rispetto le riserve di alcuni storici verso il tentativo di riconoscere una radice comune all’odio per gli ebrei. Proprio chi approfondisce con scrupolo e rigore ogni evento, appartenente sia alla cronaca dei gentili che a quella degli ebrei, ne discerne le complessità e sottigliezze, indaga l’antisemitismo cristiano del Medioevo o quello islamico dei tempi moderni, e analizza la complessa e intricata realtà tedesca da cui è germinato il nazismo, rifiuterà, e probabilmente a ragione, l’idea di una radice comune all’odio per gli ebrei in ogni tempo e luogo. La prudenza scientifica lo costringe a evitare simili generalizzazioni, piú nell’ordine di affermazioni mitologiche che scientifiche.
È vero, di tanto in tanto gli stessi storici si concedono enunciazioni «storiosofiche» generiche del tipo: «Odio eterno per il popolo eterno» (come il titolo del libro di Nahum Sokolov del 1882), ma queste rimangono in un ambito descrittivo e non analitico. È quindi forse naturale che chi, come me, non è tenuto a rispettare precise norme scientifiche e a limitare la sua ricerca a un determinato periodo storico, possa tentare di accendere una scintilla, nella speranza che qualche studioso la utilizzi per attizzare una fiamma.
Torniamo ora all’interrogativo da cui siamo partiti: esiste un’unica radice all’antisemitismo cosí come si è manifestato nei secoli? Naturalmente, anche se la risposta fosse positiva, non invaliderebbe tutte le spiegazioni e le analisi relative alla natura e al carattere di questo fenomeno in un dato tempo e in un dato luogo. Dopotutto, come si è detto, anche gli ebrei cambiano e pure gli antisemiti sono diversi gli uni dagli altri. Per non parlare poi del fatto che in determinate epoche e società questa piaga non si è diffusa.
Il mio tentativo di rispondere a questo interrogativo si basa su una concezione ebraica tradizionale che ha intuitivamente accettato l’ipotesi di una matrice unica dell’antisemitismo, per quanto non sia in grado di spiegarla. La frase di Rabbi Shimon bar Yochai: «È cosa nota che Esaú odii Giacobbe», è divenuta espressione popolare e diffusa, secondo la quale l’odio dei gentili nei confronti degli ebrei è una realtà permanente e immutabile. Non bisogna dimenticare che Esaú era gemello di Giacobbe e una frase di questo tipo implica un odio profondo e viscerale, indipendente da queste o da quelle circostanze. Anche il versetto che noi ebrei cantiamo con foga durante la tradizionale cena pasquale – «In ogni generazione è in agguato chi vuole sterminarci» (utilizzando il verbo al presente, e non al passato) suggerisce che l’odio nei nostri confronti mirato allo sterminio è stabile, e si trasmette di generazione in generazione in circostanze e in luoghi diversi. Persino il prosieguo del versetto – «e il Signore, santo e benedetto Egli sia, ci salva dalle loro mani», presuppone che anche la salvezza sia parziale e temporanea, incapace di estirpare definitivamente quel sentimento se Dio è costretto ogni volta a «salvarci». In altre parole, persino il credente piú fervido sa che Dio non ha il potere di cancellare l’odio nei nostri confronti ma solo di assicurarci una salvezza momentanea, che dura l’arco di una generazione.
La mia ricerca di una radice unica dell’antisemitismo si rifà dunque a questa concezione ebraica che, benché non sia in grado di spiegare la natura del fenomeno, lo percepisce come elemento stabile del comportamento umano, senza cercare di imputarlo a motivi religiosi o nazionalisti, sociali o economici propri di questo o di quel periodo. Tale concezione presuppone, con rassegnazione tragica e fatale, che questo male sia esistito da sempre e che sia impossibile sradicarlo. In un certo senso l’antisemitismo è divenuto tragicamente un elemento centrale e naturale dell’identità ebraica tanto che quando non si manifesta, o ancor piú ci si imbatte in episodi di «filosemitismo», non pochi ebrei ritengono la situazione sospetta e innaturale. Talvolta un ebreo osservante della diaspora può riconoscere il giusto ordine delle cose nel ravvisare un elemento antisemita nella società che lo circonda, cosí come chi vive accanto a un vulcano attivo riconosce il giusto ordine delle cose nello scorgere ogni mattina un pinnacolo di fumo salire dal cratere in cima al monte.
In generale pare che nessun altro popolo si preoccupi tanto di chiarire e di definire la propria identità come quello ebraico. Basti considerare il gran numero di convegni che si tengono quotidianamente in ogni parte del mondo aventi per tema, esplicito o implicito, l’identità ebraica.
Cos’è un ebreo? Chi è ebreo? In che misura gli israeliani sono ebrei? La questione degli ebrei laici, umanisti, assimilati e cosí via è ossessivamente dibattuta in migliaia di articoli e di libri. C’è persino un che di ridicolo nel fatto che un popolo vecchio piú di tremila anni dibatta ancora con tanta foga e serietà la questione della propria identità, senza stancarsi di cercare spiegazioni e interpretazioni al mistero della sua sopravvivenza. Persino la definizione di «ebreo» nella «Legge del Ritorno» dello stato di Israele (legge che garantisce l’immediata cittadinanza a ogni ebreo che vi si stabilisca, N. d. T.), ha subito diversi cambiamenti in un arco di tempo molto breve.
Ecco per esempio due strane citazioni di Sigmund Freud riguardanti il «mistero» dell’identità ebraica. La prima è tratta da una lettera indirizzata all’organizzazione Bnei Brit di Vienna, la seconda dalla prefazione all’edizione ebraica del suo libro Totem e tabú.
Cosí scrive Freud nella lettera all’organizzazione Bnei Brit:
Devo ammettere che né la fede né un sentimento di orgoglio nazionale sono bastati a legarmi all’ebraismo […] Altri elementi gli hanno dato una forza d’attrazione a cui per me è impossibile resistere: forze occulte, sentimenti indefinibili a parole e proprio per questo tanto potenti; e anche la consapevolezza di possedere un’identità interiore, una struttura dell’anima comune a tutti gli ebrei.
E nella prefazione all’edizione ebraica del suo libro aggiunge:
I lettori di questo libro non capiranno facilmente i sentimenti dell’autore che non conosce la lingua sacra, è totalmente estraneo alla religione dei suoi padri (cosí come a qualsiasi altra religione) e non ha avuto l’opportunità di condividere gli ideali nazionalisti del suo popolo. Eppure non ha mai negato la sua appartenenza ad esso […] Se qualcuno gli chiedesse: cosa c’è in te di ebraico? Lui risponderebbe: moltissimo, soprattutto il principio fondamentale, senza però riuscire a esprimere a parole cosa sia questo «principio fondamentale». Indubbiamente un giorno la ricerca scientifica lo chiarirà.
È questa l’unica volta in cui Freud chiede aiuto ad altri per capire se stesso. Ma anche gli altri rimangono perplessi e meravigliati dinanzi al fenomeno della sopravvivenza del popolo ebraico e al mantenimento della sua identità. Lo storico Yaakov Talmon, trasportato dai sentimenti, si esprime cosí circa la natura dell’identità ebraica:
Per quanto ci sforziamo di inchiodare questo concetto in una qualsiasi definizione, esso rimane elusivo come un miraggio. È impossibile indicare qualcosa di concreto e di calcolabile nel senso di appartenenza di un ebreo al suo popolo eppure una patina sottile di autoconsapevolezza lo separa dal mondo. Lo storico non può quindi basarsi unicamente sulla logica […] Il vaglio delle testimonianze, il talento del detective nello scoprire imprecisioni e incongruenze, tutto ciò gli è di scarso aiuto nel momento in cui si imbatte in un fondo di mistero e di enigma.
È vero, Freud non si dà per vinto come Talmon e altri storici che lasciano le cose nell’ambito del mistero e dell’enigma. Razionalista per definizione, è convinto che la ricerca scientifica scoprirà quel «principio fondamentale» che lui stesso, per qualche motivo, non è in grado di spiegare a parole.
Un tentativo di capire razionalmente la radice dell’antisemitismo ci aiuterà quindi a sciogliere in qualche modo il groviglio del «mistero» dell’identità ebraica. E non c’è da stupirsi che innumerevoli studiosi di storia ebraica vengano attratti allo studio di questa materia dalla ricerca sull’antisemitismo e sulle sue manifestazioni in varie epoche: le crociate, la cacciata dalla Spagna e naturalmente la Shoah e tutto ciò che l’ha preceduta. A cosa è paragonabile tutto ciò? Alla relazione che esiste tra le malattie e lo studio della natura e della struttura del corpo umano, o al tentativo di comprendere la personalità degli esseri umani mediante lo studio di disturbi e di malattie mentali. Se infatti gli esseri umani fossero immuni da malattie non ci daremmo tanto da fare per comprendere i misteri del nostro meccanismo biologico. E questo vale anche per i disturbi mentali o esistenziali che spingono gli uomini a cercare di capire se stessi, sia su un piano individuale che collettivo. Parimenti, una ricerca sull’antisemitismo può servire da chiave di comprensione per lo studio dell’identità ebraica.
Le ferite inflitte dall’antisemitismo (soprattutto nel secolo scorso) sono cosí terribili e crudeli e la sua minaccia futura è ancora talmente seria e concreta che noi non possiamo rifugiarci nel comodo romanticismo di frasi ambigue riguardo al «mistero» dell’identità ebraica ma dobbiamo fare ricorso a strumenti scientifici per studiarla e analizzarla cercando, per quanto possibile, di «inchiodarla in una definizione», secondo le parole di Yaakov Talmon. La cosa incredibile in questi casi di «mistero» e di «enigma» è che la loro soluzione e la loro chiave di comprensione sono spesso ovvie, semplici e a portata di mano e sono già state persino suggerite da qualcun altro. Probabilmente, però, un profondo blocco mentale ci ha portato a ignorarle o a negarle, per non essere costretti a giungere a conclusioni per noi difficili da accettare.

L’analisi antisemita di Haman ben Hamdata.

Già in tempi antichi, ancor prima dell’avvento del Cristianesimo, dell’Islam, dell’antisemitismo moderno, del nazismo e del conflitto mediorientale, i motivi dell’odio per gli ebrei vennero formulati con sorprendente chiarezza, precisione e concisione. Gli studiosi datano il testo a cui facciamo riferimento, il Libro di Ester, a un periodo oscillante tra il IV e il II secolo a. C. senza tuttavia trovare alcuna prova storica a conferma degli avvenimenti narrati.
Il Libro di Ester, scritto da ebrei per altri ebrei, non è un’opera trascurabile, secondaria, come altre composte nel corso delle generazioni, ma un testo canonico, parte integrante delle Sacre Scritture, che gli ebrei rileggono ogni anno con grande rilievo nelle sinagoghe, pretendendo che la lettura venga eseguita direttamente dal rotolo di pergamena. Una festa ebraica è nata e si è sviluppata intorno a questo libro nel tentativo di imprimerne il contenuto nella coscienza nazionale, con un rigore non inferiore a quello di altri racconti mitologici legati a festività come Hanukkà o Pesach, la Pasqua ebraica.
Un’analisi dello scritto rivela un alto grado di autoconsapevolezza degli autori ebrei. Autoconsapevolezza che non ha avuto alcuna conseguenza sul comportamento dei loro confratelli sparsi per il mondo.
(Di tanto in tanto vengono alla luce altri testi ebraici che rivelano un analogo livello di consapevolezza. Purtroppo, però, dopo una prima rivelazione, la verità viene mascherata, e nascosta, mediante la costruzione di una sovrastruttura. In questo modo si crea uno stato psicologico in cui, benché la verità venga detta, al tempo stesso viene negata, eliminando quindi l’esigenza di giungere a una conclusione chiara. L’espressione «siamo in esilio a causa dei nostri peccati», per esempio, dimostra che l’esilio è riconosciuto come condizione volontaria e non imposta. Tale consapevolezza però non produce alcun effetto né genera alcuna presa di coscienza e ancora una volta gli ebrei si rifugiano in un senso di fatalità e di costrizione).
Le parole di Haman ben Hamdata, personaggio letterario creato dagli ebrei centinaia di secoli prima della nascita di Cristo e loro persecutore, illuminano chiaramente la radice dell’odio nei loro confronti e rappresentano un buon punto d’inizio per la discussione che ne seguirà:
Poi Aman andò a parlare con il re e gli disse: «C’è un popolo, disperso tra gli altri popoli in ogni provincia del tuo impero, che vive separato dagli altri, a modo suo. Ha leggi diverse e, per di piú, non osserva la tua. Non ti conviene lasciarlo vivere in pace. Se sei del mio parere, da’ ordine scritto che sia sterminato e io verserò ai funzionari dell’amministrazione trecentoquaranta tonnellate d’argento per il tesoro regale».
Il re allora si sfilò dal dito l’anello con il sigillo e lo consegnò ad Aman, figlio di Ammedata, della stirpe di Agag. Il re disse a questo persecutore degli Ebrei: «Quel denaro è nelle tue mani e quel popolo in tuo potere: fanne quello che vuoi» (Libro di Ester 3.8-11).
Questo brano, poiché scritto da autori ebrei, possiede maggiore autorevolezza nel ricercare la verità sull’antisemitismo. Vediamo perciò di analizzarlo tenendo presente che la nostra analisi non intende riferirsi unicamente al determinato periodo storico in cui il Libro è stato scritto, ma al principio universale che ne è alla base, perché nel momento in cui il Libro di Ester è stato diffuso si è immediatamente elevato al di sopra del suo tempo e del suo luogo acquisendo un carattere universale (nel corso degli anni si è anche creato un legame tra i propositi di sterminio di Haman e quelli manifestati dalla tribú di Amaleq quasi mille anni prima. Ciò prova che già poco dopo la sua stesura, come accade per molti scritti religiosi, il Libro di Ester si è appunto elevato al di sopra del suo «contesto storico» per assurgere allo status di racconto mitologico).
Haman parla chiaramente di un popolo particolare che possiede una religione particolare e fa un distinguo fra i due termini. Innanzi tutto non allude a una minoranza etnica stanziata in un determinato territorio ma a un popolo disperso fra gli altri, fra genti e nazioni diverse. Se quel popolo fosse stato insediato in un’unica nazione, l’opera di riconoscimento dei suoi confini sarebbe stata forse piú semplice, ma le cose non stanno cosí. Haman, e questo è il punto centrale, non si accontenta dell’aggettivo «disperso». Aggiunge anche «diviso» e, a mio parere, non a caso. Questo aggettivo sta infatti a indicare che oltre a essere disperso quel popolo era anche frammentato, un particolare che rende piú difficile la sua identificazione. In luoghi diversi, cioè, quella stirpe presenta caratteristiche diverse, si veste in modo diverso, possiede nomi diversi (gli ebrei adottavano i nomi locali) e costumi diversi, in consonanza con lo spirito del luogo in cui soggiorna. Persino la sua lingua è diversa da nazione a nazione. Gli ebrei si esprimevano nell’idioma locale e anche quando creavano una lingua propria, «ebraica», questa era immancabilmente una variante delle locali. Gli idiomi «ebraici» erano quindi tanto dissimili gli uni dagli altri che le svariate comunità ebraiche non erano in grado di intendersi fra loro su un piano nazionale, laddove la lingua rappresenta lo strumento base di comunicazione fra membri di uno stesso popolo.
Già alla lettura della prima frase emerge dunque quell’elemento indefinito che si rafforzerà nel corso della storia, quel «principio occulto» che Freud sperava che un giorno la ricerca scientifica avrebbe chiarito e dinanzi al cui «mistero» Talmon e altri storici chinano il capo.
Esaminiamo ora la parola «religione», dat in ebraico, un vocabolo che gli ebrei stessi esitano talvolta a utilizzare nel descrivere la loro identità ma al quale ritornano in mancanza di scelta e a causa del suo valore universale. La sua etimologia è persiana e il suo significato originale è «legge», «prescrizione». Nella traduzione inglese della Bibbia di re Giacomo, e nella versione italiana, questa parola è stata tradotta con «leggi», indicando appunto che Haman si riferiva alla religione ebraica, basata su prescrizioni e divieti.
Dunque, dice Haman, non solo questo popolo è diverso dagli altri fra i quali vive, ma anche le sue leggi, ovvero la sua religione, si differenziano da quelle locali. Ciò significa che la religione ebraica non potrà venire adottata da altre nazioni, come avviene per la greca, ad esempio, comune a molti popoli dell’epoca.
A questo punto occorre prestare attenzione a un’altra sfumatura delle parole di Haman che acquisterà un grande significato nel corso della storia ebraica e contribuirà a chiarire la tesi che perseguo. Haman (personaggio di un dramma scritto da ebrei, non bisogna dimenticarlo), parla di «leggi» – o «religioni» – al plurale. Particolare a cui è possibile dare una semplice spiegazione filologica: «religioni» nel senso di «costumi». Ma poiché questo termine è fondamentale e cardinale nella definizione dell’identità ebraica e non è stato sostituito nel corso dei secoli da nessun altro che traducesse il concetto latino di religio, il suo uso al plurale dimostra, a mio parere, che già le «leggi» di cui parla Haman possedevano alcuni tratti distintivi del moderno e comune concetto di religione. Nel momento in cui il termine dat, ossia «religione», appare al plurale, significa che persi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il labirinto dell’identità
  3. Prefazione di Abraham B. Yehoshua
  4. Il labirinto dell’identità
  5. Il libro
  6. L’autore
  7. Dello stesso autore
  8. Copyright