Bambini nel tempo
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Bambini nel tempo

  1. 240 pagine
  2. Italian
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Bambini nel tempo

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Informazioni sul libro

Stephen Lewis, autore di fortunati libri per bambini, padre e marito felice, un giorno si reca al supermercato con sua figlia Kate, e mentre è intento a svuotare il carrello alla cassa si accorge di aver perso la bambina. Rapita? Uccisa? Fuggita? Ogni cosa intorno a lui da quel momento sembra precipitare. Il vuoto doloroso che lascia la sparizione di Kate dà il via a una serie di azioni e reazioni che porteranno Stephen a rivedere tutta la sua vita. Le sue tante certezze incrollabili si mostreranno deboli; abitudini e atteggiamenti mai messi in discussione riveleranno il loro lato piú fastidioso. Senza mai perdere di vista il suo protagonista, McEwan racconta il viaggio di un uomo messo di fronte all'inaccettabile, facendoci percepire la precarietà e la fragilità in cui viviamo, e nello stesso tempo restituendoci la nostra umana e indistruttibile speranza.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858416587

Capitolo sesto

Coloro che trovano particolarmente arduo l’esercizio dell’autorità sui figli dovrebbero prendere in seria considerazione l’uso sistematico di piccole ricompense. Una sollecita obbedienza all’ora di andare a letto, ad esempio, val bene la promessa di un pezzetto di cioccolata e il danno marginale arrecato a una dentatura che presto sarà comunque sostituita. In passato, si è preteso troppo dai genitori, incoraggiandoli ad inculcare l’altruismo nei loro figli a tutti i costi. Dopotutto, gli incentivi sono alla base della nostra struttura economica e naturalmente plasmano il nostro concetto di etica; non c’è ragione al mondo per cui un bambino bene educato non dovrebbe usufruire di uno stimolo in piú.
Manuale per l’educazione del bambino, HMSO
Infine, a settembre avanzato, la pioggia arrivò sotto forma di burrasche che in meno di una settimana spogliarono gli alberi quasi del tutto. Le foglie si ammassarono nei tombini otturandoli; certe strade si trasformarono in fiumi navigabili, coppie di anziani dovettero essere estratte da appartamenti nei sottoscala da vigili del fuoco in stivaloni impermeabili, e, almeno in Tv, aleggiò la generale sensazione di un’emozionante piccola catastrofe. Esperti del servizio meteorologico tentarono di spiegare come mai non ci fosse stato l’autunno, e si fosse passati dall’estate della settimana precedente, all’inverno di questa. Non mancavano certo le teorie confortanti in proposito: l’incombente glaciazione, lo scioglimento delle calotte polari, l’impoverimento dello strato di ozono causato dai fluorocarburi, l’agonia del sistema solare. Da baracche urbane di cui nessuno conosceva l’esistenza comparvero militari armati di pompe per servizi pesanti. Un elicottero dell’esercito fu ripreso nell’atto di mettere in salvo un ragazzino rimasto bloccato su un albero e, nel corso dei notiziari televisivi, capi di polizia e comandanti dell’esercito indicavano con una bacchetta dei punti sulle carte geografiche. Si vide il segretario degli Interni, l’ex capo di Charles, andare a visitare le aree maggiormente colpite. L’ufficio stampa del gabinetto dichiarò che il primo ministro si stava occupando della faccenda personalmente. Era opinione diffusa e ragionevole che il tempo stesse rendendo un buon servizio al governo, perché se era vero che nessuno sapeva come fermare la pioggia, era anche innegabile che ci si stesse dando da fare. Piovve per cinquanta giorni di seguito. Poi smise, la vita riprese il suo corso normale e mancava ormai poco a Natale.
Il clima ebbe scarsi effetti sul torpore di Stephen. Le Olimpiadi gli avevano lasciato in eredità il gusto per la televisione di mattina e pomeriggio. Era iniziato un nuovo programma quotidiano sponsorizzato dal governo e specializzato in giochi e dibattiti, pubblicità e telefonate in studio. Stephen, stravaccato in pigiama e cardigan pesante sul divano, e con la bottiglia dello scotch, si guardava con la pazienza appannata del videodipendente tutti i giochi a premi. In un angolo della stanza un secchiello da ghiaccio raccoglieva le gocce che colavano dal soffitto. I presentatori dei vari programmi si assomigliavano al punto che Stephen aveva finito con l’appassionarsi. Erano seri professionisti, impegnati a svolgere il loro lavoro al servizio dell’ordine, all’interno di una convenzione le cui formali censure venivano di quando in quando smascherate in cinici commenti ad alta voce. E gli piacevano anche quelle fragili coppie tenerissime che ricevevano caldi benvenuti in palcoscenico e si tenevano sempre per mano, le bizzarre fanfare e gli squilli di tromba che annunciavano il disvelamento di un congelatore famigliare, le vallette seminude con i loro coraggiosi sorrisi immutabili.
Gli spettatori, al contrario, gli procuravano attacchi di misantropia delirante. Sarà stato lo zelo mansueto con cui si sforzavano di compiacere il presentatore e di mostrarsi a loro volta appagati, la prontezza nell’applaudire, fare il tifo a comando o sventolare bandierine di plastica con lo slogan della trasmissione; sarà stata la facilità con cui era possibile pilotarne gli umori, un attimo divertiti fino all’entusiasmo e l’attimo dopo seri e pacati, ora impertinenti ora un po’ sentimentali e nostalgici, imbarazzati, mortificati da un’arringa del loro ospite e poi di nuovo allegrissimi. Le facce accecate dalle luci dei riflettori erano quelle di adulti, padri e madri di famiglia, lavoratori, ma le ampie espressioni ingenue parevano quelle di bimbi che osservino l’esibizione di un prestigiatore a una festa privata. Quando il presentatore scendeva in mezzo a loro e li chiamava per nome, scherzava, li lusingava, venivano invasi da una sorta di sacro timore reverenziale. Te ne dà abbastanza Henry? Da mangiare, si intende. Eh? Eh? Avanti, coraggio, diccelo. Te ne dà abbastanza? Ed eccolo lí, Henry: un uomo canuto con tanto di lenti bifocali, uno che, con un abito di taglio migliore, avrebbe potuto passare per un capo di stato; eccolo li a sghignazzare guardando significativamente la moglie per poi affondare la faccia fra le mani mentre intorno a lui tutti scoppiavano a ridere e applaudivano. Come poteva sorprendere che il mondo fosse in mano a degli imbecilli quando queste anime invertebrate potevano accostarsi alle urne? La «gente comune» – espressione usatissima dai presentatori – era questa: infanti che non desideravano altro che sapere quando dovevano ridere.
Stephen rovesciò la bottiglia e bevve: era pronto a negare il diritto di voto a tutti quanti. Anzi, di piú, li voleva puniti, bastonati a dovere, ma no, torturati. Come osavano essere dei bambini! Era anche disposto, da quell’individuo ragionevole e tollerante che era, ad ascoltare qualcuno che gli spiegasse esattamente a che cosa serviva tutta quella gente, per quale motivo si dovesse permettere loro di seguitare a vivere.
Per Stephen questi attacchi – osceni sfoghi di un uomo per altro democratico – rappresentavano la piú gradevole degradazione di cui avesse memoria. Raggiungevano il loro livello piú alto poco prima che decidesse di farsi tornare alla mente quella volta in cui i suoi genitori, insieme con la sorella di sua madre Phyllida, suo marito Frank e la figlia già cresciuta, Tracy, avevano fatto parte del pubblico in uno studio televisivo traendone la massima soddisfazione. Se ne erano tornati tutti a casa con tanto di medaglione con su inciso il profilo del conduttore della trasmissione, incoronato d’alloro come un imperatore e, sull’altro lato, due mani che si stringevano in segno di amicizia.
Intanto, poteva essere venuto il momento di alzarsi per andare a svuotare il secchiello dell’acqua, di prepararsi un panino o qualcosa da bere in cucina o di starsene un po’ alla finestra aperta a osservare lo spettacolo della via allagata. Aveva una rosa di pensieri fissi che lo inchiodavano lí, ma c’era sempre la televisione cui fare ritorno quando si stancava di analizzarli. La lunga interruzione dei lavori alla commissione Parmenter sarebbe durata quasi un mese ancora e Stephen era seccato di scoprire quanto gli mancassero quegli incontri settimanali che garantivano una struttura ordinata alle sue riflessioni. Lo infastidiva il fatto di non avere notizie di Julie e di non riuscire a scriverle senza lasciar trapelare il proprio risentimento. Benché ne avesse la piú ferma intenzione, non era mai piú andato a trovare i suoi genitori. Se pensava a Charles lo faceva solo con irritazione. Ma ad assorbirlo piú di tutto ciò era il pensiero del compleanno di Kate. La prossima settimana, dovunque si trovasse, Kate avrebbe compiuto sei anni.
Da giorni ormai sentiva il desiderio di fare un salto al negozio di giocattoli, a una decina di minuti a piedi dall’appartamento. Un’idea ridicola. Una sorta di parodia del lutto. La sofferenza volontaria che ne derivava lo faceva gemere ad alta voce. Si sarebbe trattato di una recita, la messa in scena di una follia non autentica. Intanto però il pensiero si faceva piú insistente. Si trovava magari a passeggiare in quella direzione e immaginava il genere di cose che avrebbe comprato. Era pazzia, debolezza, gli avrebbe procurato un inutile dolore. Ma il pensiero continuava a crescere e una mattina, all’edicola, prese un rotolo di carta colorata da pacchi e la porse al commesso prima di avere il tempo di cambiare idea. L’acquisto di un giocattolo avrebbe distrutto due anni di adattamenti, sarebbe stato irrazionale, malato, autolesionistico e debole, soprattutto debole. Di quella debolezza che impedisce di conservare la linea di confine tra il mondo com’è e come si desidera che sia. Non essere debole, si ripeteva, cerca di sopravvivere. Butta via quella carta, non franare nelle fantasticherie, non prendere quella china. Potresti non tornare piú indietro. E resisteva, ma non poteva impedirsi di desiderarlo.
La solitudine aveva aumentato in lui la tendenza alla superstizione, alle interpretazioni magiche della realtà. Le pratiche superstiziose avevano finito con l’aderire ai cerimoniali quotidiani e, nel costante silenzio della compagnia di se stesso, si erano fatte sempre piú rigorose. Si sbarbava sempre prima la guancia sinistra, non incominciava mai a lavarsi i denti se non aveva rimesso il tappo al tubetto del dentifricio, azionava lo sciacquone del water con la mano sinistra benché gli fosse scomodo e, ultimamente, faceva attenzione a poggiare entrambi i piedi a terra scendendo dal letto. Tale struttura magica del pensiero trovò modo di razionalizzare una visita al negozio di giocattoli.
Prima di tutto, avrebbe rappresentato un atto di fede nella sopravvivenza della sua bambina. Dal momento che di sicuro lei non avrebbe celebrato quel giorno, sarebbe stato come riconfermare la sua precedente esistenza e reale discendenza, ribadire la verità circa la sua nascita: chissà quante bugie le avevano raccontato a questo proposito. L’osservanza di un mistero avrebbe scatenato ignote combinazioni del tempo e del caso, i numeri magici delle date di nascita si sarebbero messi in funzione producendo una serie di avvenimenti che, altrimenti, non si sarebbero mai realizzati. Comprando un regalo avrebbe dimostrato di non essersi ancora dato per vinto, di potere ancora mettere in atto qualcosa di sorprendente e di vivo. Lo avrebbe fatto con gioia anziché con dolore, nello spirito di un’affettuosa stravaganza e, portandolo a casa per impacchettarlo, avrebbe celebrato un’offerta al fato, o lanciato una sfida al destino: ecco qui, io ho portato il regalo, ora voi riportatemi la bambina. Se l’acquisto gli avesse procurato della sofferenza, sarebbe stata quella necessaria alla realizzazione di un sacrificio. Dopo aver esaurito tutte le possibilità sul piano materiale, battendo a tappeto le strade, pubblicando sui giornali locali inserzioni nelle quali offriva generose ricompense in cambio di informazioni, incollando ingrandimenti fotografici alle fermate degli autobus e sui muri, ormai aveva solo piú senso agire a livello simbolico e oracolare, unirsi a quelle forze sconosciute che regolano le leggi delle probabilità, che distribuiscono gli atomi rendendo solidi i corpi solidi, che mettono in atto gli avvenimenti fisici e compiono i personali destini di tutti gli individui. Del resto, che cosa aveva da perdere?
Il negozio di giocattoli occupava i locali di un ex magazzino ed era stato allestito nello stile di un supermercato. Lo percorrevano tre ampi corridoi illuminati da lampade al neon e all’ingresso c’era una fila di casse con carrelli metallici e cestini di plastica accatastati accanto. Il pavimento era in gomma elastica nera dalla quale emanava l’odore della tipica efficienza da palestra. Sulla parete era stato affisso un cartello sul quale, in pennarello fluorescente e imitando una grafia infantile, si ricordava ai clienti che eventuali danni agli articoli esposti dovevano essere rimborsati alla direzione. Dagli altoparlanti sospesi al soffitto oltre le lampade proveniva il suono di musiche da bambini, gli alti e bassi di un clarinetto, qualche scampanellio, un rullare di tamburini. Era il compleanno di Kate. Quando Stephen arrivò, era lunedí mattina presto e fuori pioveva a dirotto; il negozio era deserto. Vicino all’unica cassa aperta sedeva un giovanotto coi capelli tagliati cortissimi e una borchia nera all’orecchio. Prima di superare il cancelletto girevole foderato di gomma, Stephen si fermò per sfilarsi il cappotto e scuotere bene l’ombrello.
La disposizione degli articoli era semplice. Un’ala del negozio era dominata dal color kaki di equipaggiamenti militari e veicoli mimetici e dal luccichio argentato e bullonato di pesanti navicelle spaziali; l’altra, invece, dai teneri colori pastello di abitini per bambole e dal bianco abbagliante di stoviglie per case in miniatura. Con il soprabito umido ripiegato sul braccio, Stephen attraversò il negozio in tutta la sua lunghezza, dalla sezione massacri alle faccende domestiche, e scoprí che i giocattoli piú interessanti stavano in mezzo, dove all’imitazione del mondo adulto si sostituiva lo svago piú autentico – un gorilla meccanico che si arrampicava su un grattacielo e distribuiva monetine, un congegno per spruzzare vernici colorate, un cuscinetto tirascorregge, uno stucco speciale che, modellato, emetteva luce e rumore, una pallina che rimbalzava secondo imprevedibili traiettorie. Stephen consegnò esitante ognuno di questi oggetti nelle mani di una piccola di sei anni che conosceva come se stesso. Aveva bisogno di verificare le sue reazioni. Era una bambina schiva, almeno tra la gente, teneva la schiena ben dritta e portava una frangetta scura. Era piena di fantasia, una sognatrice a occhi aperti; amava le parole dai suoni strani, teneva diari segreti, collezionava oggetti misteriosi. Le prime scelte di Stephen caddero su cose di sicuro successo: una scatola di matite colorate e una cassetta di legno piena di animaletti della fattoria. Alle bambole preferiva i pupazzi morbidi e Stephen lasciò cadere nel cesto metallico un gatto grigio a grandezza naturale. Era una burlona, con la passione per gli scherzi. Prese il cuscino tirascorregge e un fiore che schizzava acqua. Li avrebbe usati per tormentare sua madre. Si fermò davanti a un’esposizione di puzzle. Non era pazzo, sapeva bene quale fosse la realtà. Sapeva che cosa stava facendo e sapeva che lei non c’era piú. Ci aveva riflettuto con una certa attenzione e ora non si ingannava. Stava facendo tutto questo per sé, senza illusioni. Poi continuò. Kate non amava granché il mondo astratto e fine a se stesso dei puzzle. La sua intelligenza si nutriva di contatti umani, delle piú calde complessità di fantasia e di finzione. Le piaceva travestirsi. Stephen allungò un braccio verso un cappello da strega, poi tornò indietro e cambiò il gatto grigio con uno nero. Ormai gli pareva di aver centrato il tema. Prendeva oggetti dai vari scaffali a grande velocità. Tra questi, certe palline magiche che si trasformavano in fiori a contatto con l’acqua, un libro di incantesimi in rima e di ricette da strega, una boccetta di inchiostro invisibile, una tazza in cui l’acqua versata spariva, un chiodo che pareva essere stato conficcato in testa a qualcuno.
Stava sconfinando nella sezione ragazzi. Kate era senza ombra di dubbio una bimba graziosa, ma nei giochi con la palla era un vero disastro ed era venuto il momento di insegnarle qualcosa. Prese dagli scaffali una calzetta di plastica piena di palle da tennis. Maneggiò una mazza da cricket ben fatta, in misura da bambino, di autentico legno di salice. Si stava allontanando troppo dai ruoli convenzionali? La prese comunque, sarebbe tornata utile sulla spiaggia. Era ormai in pieno territorio maschile, tra pistole, pugnali, lanciafiamme, raggi mortali e manette giocattolo, quando finalmente ci arrivò; fu questione di un attimo, aveva trovato il regalo per Kate. Era un walkie-talkie a batteria con modulatore di frequenza a onde corte, due apparecchi ricetrasmittenti. Sulla confezione, un bambino e una bambina comunicavano allegramente da una parte all’altra di una minicatena montuosa su un’imitazione di superficie lunare. Dalle antenne dei singoli apparecchi si sprigionavano bianchi archi luminosi, rappresentazione delle onde radio e di un divertimento garantito.
Stephen prese la sua da una pila di circa cinquanta scatole identiche. Non c’era piú spazio nel cestino. Mentre superava la cassa, si sentí d’improvviso impaziente di essere a casa con i suoi acquisti, di tirarli fuori dal pacco e di riandare mentalmente alle ragioni di ciascuna scelta. Sarebbe stato ancora meglio se ci fosse stata anche Julie; lei avrebbe avuto altre idee e, in due, avrebbero realizzato una gamma piú vasta di possibilità, un’offerta piú generosa al destino... Ma lui era consapevole della realtà, pensò, mentre consegnava al cassiere una somma di denaro di sorprendente entità. Lo sapeva bene: Julie era in quell’umido cottage in compagnia delle sue partiture, dei suoi taccuini e delle matite ben temperate con le quali redigeva una meticolosa obliterazione della presenza di lui dalla sua vita. Nella fretta scordò l’ombrello all’ingresso, ma il suo audace entusiasmo fu ricompensato dal cessare della pioggia non appena ebbe superato il parcheggio deserto fuori dal negozio.
A casa, disfece per ultimo il pacco del walkie-talkie. Mentre vi inseriva le batterie, gli capitò fra le mani un foglietto di carta. La portata massima di questo apparecchio, vi si annunciava, rientrava nelle norme imposte dalla legge dello Stato. Stephen sistemò una delle due trasmittenti a terra, al fondo del lungo ingresso, si portò l’altra accanto alla bocca e premette il pulsante di trasmissione. Aveva in mente di dire uno, due, tre, ma siccome non c’era nessuno presente a giudicarlo e siccome sapeva esattamente quel che faceva e sapeva di non essere pazzo, intonò Tanti auguri a te in un gracchiante tono baritonale allontanandosi sempre di piú nel corridoio. Quella che sentiva provenire dall’altro apparecchio era la rozza rappresentazione di una voce umana, metallica, crepitante, un fruscio di consonanti confuse e di vocali attutite. Avrebbe davvero potuto trattarsi di un messaggio radiofonico proveniente dalla luna. Comunque funzionava, sarebbe stato divertente. Quando si trovò a poco piú di una dozzina di passi di distanza e al penultimo verso della canzone, la comunicazione si interruppe. Tornò indietro di un passo e quella riprese, cosí restò lí, agli estremi confini del campo di onde radio, per poter concludere l’ultima strofa. Questo congegno incoraggiava a rimanere vicini. Si adattava bene al progetto.
Fu nel primo pomeriggio, mentre incartava i regali, che l’allegria prese a scemare, e Stephen sentí la prima fitta di insensatezza. Stava fischiettando, e di colpo si bloccò con in mano un lungo chiodo macchiato di sangue finto. Il senso di tutto andava svaporando in fretta. Non gli andava l’idea di lasciare metà dei regali fuori dai pacchi. Si affrettò a proseguire con minor convinzione. La coda del gatto nero spuntava dalla carta tradendo il contenuto dell’involucro. Stephen andò in cucina a prendere un’altra bottiglia di scotch e tornò in soggiorno. C’erano piú di quindici pacchi rossi informi, sparsi sul pavimento. A gettarlo nello sconforto fu la quantità. La sua intenzione era stata quella di un solo regalo, qualcosa di puramente simbolico con cui ribellarsi all’assenza di lei, riaffermare la propria giocosità, ricattare il destino. Ora, questo mucchio di roba lo scherniva rammentandogli la sua imbecillità. Quell’abbondanza era patetica. Ammonticchiò i pacchi sulla tavola, uno vicino all’altro perché sembrassero di meno.
Si ritrovò al suo solito posto accanto alla finestra aperta.
La cosa piú logica da fare il giorno del compleanno di Kate era andare a trovare Julie. Avrebbe potuto fermarsi al pub The Bell alla stessa ora, vedere se succedeva qualcosa di nuovo. Per tenersi occupato passò un quarto d’ora al telefono informandosi sugli orari dei treni, si cambiò le scarpe, sprangò la porta sul lato della scala antincendio. Infilò un notes e una penna nella tasca del soprabito. Poi tornò alla finestra. Traffico, pioggerella fitta, passanti in attesa paziente nei pressi delle strisce pedonali: era miracoloso che potesse esserci cosí tanto movimento, tanta determinazione, a qualsiasi ora. Per lui non era affatto cosí. Sapeva che non sarebbe andato. Sentí il respiro venirgli meno lentamente, in silenzio, mentre petto e colonna ver...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Bambini nel tempo
  3. Capitolo primo
  4. Capitolo secondo
  5. Capitolo terzo
  6. Capitolo quarto
  7. Capitolo quinto
  8. Capitolo sesto
  9. Capitolo settimo
  10. Capitolo ottavo
  11. Capitolo nono
  12. McEwan e la critica
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright