Zettel
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Lo spazio segregato della psicologia

  1. 224 pagine
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Lo spazio segregato della psicologia

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Questi Zettel (foglietti) raccolgono osservazioni in gran parte ritagliate da altri scritti (secondo un procedimento abituale di Wittgenstein) e ordinati dallo stesso autore. I lavori da cui sono tratti coprono praticamente tutto l'arco della produzione che segue il Tractatus e c'è da chiedersi se Wittgenstein non intendesse utilizzarli - dopo i manoscritti composti nella seconda metà degli anni '40 e pubblicati nel 1981 col titolo Bemerkungen über die Grundlagen der Psychologie - come traccia di quella «ricerca sui fondamenti della matematica» preannunciata nel capitolo finale delle Ricerche filosofiche.
Gli Zettel riprendono, quasi unificandoli, i temi di fondo del pensiero di Wittgenstein, primo fra tutti quello della neutralizzazione della psicologia. Qui però tale neutralizzazione, che tende a recuperare una nozione di esperienza libera da ogni riferimento agli stati interni, ha per scopo la ricerca di un punto d'incontro fra grammatica della matematica e grammatica dell'esperienza in cui si rintracciano i tratti essenziali di quella «grammatica profonda del linguaggio», che Wittgenstein non cessò mai di cercare e la cui nozione, debitamente adattata, è uno dei tanti motivi di continuità fra il Tractatus e il dopo Tractatus.
Mettendo in problema la legittimità storica e teorica della netta contrapposizione tra «primo» e «secondo» Wittgenstein, il saggio introduttivo di Mario Trinchero propone alcuni modelli interpretativi sia del Tractatus sia della produzione successiva, che consentono di mettere in evidenza la sostanziale continuità del pensiero wittgensteiniano e il significato di questo libro.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858416938

ZETTEL

La traduzione italiana è stata condotta sul testo tedesco della prima edizione ed è stata rivista sulla seconda edizione inglese, a cura di G. E. M. Anscombe e G. H. von Wright, di cui sono state utilizzate anche le annotazioni.

1. William James: Il pensiero è già completo all’inizio della proposizione1. Come facciamo a saperlo? – Ma l’intenzione [Absicht] di enunciarlo può già sussistere prima che sia stata pronunciata la prima parola. Se infatti si chiede al nostro amico: «Sai che cosa hai intenzione di dire?», spesso lui risponderà di sí.
2. Dico a un amico: «Adesso ti fischierò il tema…»; ho l’intenzione di fischiarlo e so già che cosa fischierò.
È mia intenzione fischiare questo tema: dunque l’ho già fischiato in un senso o nell’altro, per esempio tra me e me?
3. «Non soltanto lo dico; dicendolo, intendo anche qualcosa». – Si dovrà chiedere: «Che cosa?» —— Allora, come tutta risposta, arriva ancora una proposizione. – Oppure, si può non chiederlo, perché la proposizione diceva, per esempio: «Non lo dico soltanto, ma mi commuove anche».
4. (Uno dei modi di dire che piú inducono in errore è la domanda: «Che cosa intendo con questo?» – Nella maggior parte dei casi si potrebbe rispondere: «Proprio niente – dico…»)
5. Con le parole non posso forse intendere quello che voglio? —— Guarda la porta di questa stanza e, guardandola, emetti una serie qualsiasi di suoni e con essi intendi la descrizione di questa porta!
6. «Di’ “a b c d” e intendi: Il tempo è bello». – Allora dovrei anche dire che l’enunciazione di una proposizione in una lingua che ci è famigliare è un’esperienza vissuta completamente diversa dall’emissione di suoni che non ci sono famigliari in quanto proposizione? Allora, se imparassi la lingua in cui «a b c d» hanno quel senso, —— pronunciando queste lettere acquisirei pian piano la nota esperienza vissuta? Sí e no. – Una differenza fondamentale tra i due casi consiste in questo, che nel primo non posso muovermi a mio agio. Qui è come se una delle mie articolazioni mi fosse stata steccata, io non mi ci fossi ancora abituato, non avessi ancora famigliarità con i movimenti che posso compiere e perciò, per cosí dire, inciampassi continuamente.
7. Se ho due amici che hanno il medesimo nome e scrivo una lettera a uno di loro, in che cosa consiste il fatto che non la scrivo all’altro? Nel contenuto? Ma questo potrebbe andar bene per tutti e due. (Non ho ancora scritto gli indirizzi.) Ebbene, la connessione può risiedere in quel che precede. Ma allora, anche in quello che segue lo scriverla. Ora, se qualcuno mi chiede: «A quale dei due stai scrivendo?» e io gli rispondo – deduco la risposta da quel che precede? Non la dò forse piú o meno allo stesso modo che dico «Ho mal di denti»? – Non potrebbe darsi che io sia in dubbio a quale dei due stia scrivendo? E che aspetto ha un simile dubbio? —— Già, non potrebbe anche darsi che m’illuda, e creda di scrivere all’uno mentre scrivo all’altro? E che aspetto avrebbe un’illusione di questo genere?
8. (Qualche volta si dice: «Che cosa volevo mai cercare in questo cassetto? – Ah sí, la fotografia!» E una volta che questo ci è venuto in mente, ci ricordiamo anche della connessione che la nostra azione ha con quello che era accaduto prima. Ma potrebbe anche darsi questo caso: apro il cassetto e ci rovisto dentro. Alla fine, per cosí dire, riprendo i sensi e mi chiedo: «Perché mai sto rovistando in questo cassetto?» E allora arriva la risposta: «Voglio vedere la fotografia di…» «Voglio», non «volevo». L’apertura del cassetto, ecc., è avvenuta, per cosí dire, automaticamente, e solo in seguito ha avuto un’interpretazione.)
9. «Con questa osservazione volevo riferirmi a lui». Quando sento dire una cosa del genere, posso immaginarmi [vorstellen], al proposito, una situazione e la sua storia. Potrei rappresentarle [darstellen] in teatro, proiettarmi nello stato d’animo in cui voglio «riferirmi a lui». – Ma come si può descrivere e dunque come si può identificare, questo stato d’animo? – M’immagino in quella situazione; faccio una certa faccia e una certa voce, ecc. – Che cosa collega le mie parole a lui? La situazione e i miei pensieri. E i miei pensieri in modo non diverso dalle parole che pronuncio.
10. Supponiamo che a tutte le parole della mia lingua io voglia sostituire di colpo altre parole. Come farei a sapere, io, in quale posto sta una delle nuove parole? Sono le rappresentazioni, a tenere il posto delle parole?
11. Mi viene da dire: Questo corpo, la sua forma, il suo colore, ecc., li «indico» in sensi differenti. Che cosa vuol dire?
Che cosa vuol dire: Un pianoforte, il suo suono, il pezzo di musica, il sonatore di pianoforte, la sua agilità, li «odo» in senso diverso? In un certo senso «sposo» una donna, in un altro senso sposo il suo denaro.
12. Qui s’immagina l’intendere [meinen] come una specie di additare [zeigen], di indicare [hinweisen] con lo spirito [Geist].
13. In certi procedimenti spiritistici è essenziale pensare a una persona ben determinata. E qui abbiamo l’impressione che «il pensare a quella persona» sia, per cosí dire, come l’infilzarla con il nostro pensiero. Oppure: è come se io continuassi a cercar di sforacchiarla con il pensiero, perché i pensieri continuano a deviare sempre un po’ da lui.
14. «Improvvisamente fui costretto a pensare a lui». Improvvisamente la sua immagine mi si è parata dinnanzi. Sapevo che si trattava dell’immagine sua, di N? Non me l’ero detto. In che cosa consisteva, allora, il fatto che si trattava della sua immagine? Forse in quello che ho detto od ho fatto in seguito.
15. Quando Max dice: «Der Fürst trägt Vatersorge für die Truppen», intende parlare di Wallenstein2. Supponiamo che uno dica: non sappiamo se intenda Wallenstein; con questa frase potrebbe anche intendere altri principi.
16. «Il fatto che tu intendessi suonare il pianoforte, consisteva in questo, che pensavi al pianoforte».
«Il fatto che in questa lettera con la parola “tu”, intendessi quest’uomo, consisteva in questo: che hai scritto a lui».
L’errore sta nel dire che l’intendere consiste in qualche cosa.
17. «Quando l’ho detto, volevo soltanto dargli un accenno». – Come faccio a sapere che l’avevo detto soltanto per dargli un accenno? – Ebbene, le parole «Quando l’ho detto…» descrivono una determinata situazione, che possiamo comprendere. Che aspetto ha la situazione? Se voglio descriverla devo descrivere un contesto.
18. Come entra, lui, in questi processi:
l’ho punzecchiato;
gli ho parlato,
l’ho chiamato,
ho parlato di lui,
me lo sono immaginato,
lo stimo?
19. È falso il dire: Io intendevo lui, in quanto l’ho guardato. «Intendere» non designa un’attività, che consiste in tutto o in parte nelle «manifestazioni» dell’intendere.
20. Perciò sarebbe stupido dire che l’intendere è una «attività spirituale», perché cosí facendo s’incoraggia una falsa immagine della funzione della parola.
21. Dico «Vieni qui!» e faccio un gesto nella direzione di A. B, che sta accanto a lui, fa un passo verso di me. Dico: «No, venga A!» Questo sarà accolto come una comunicazione sui miei processi mentali? Certo che no. – E di qui non si potrebbe inferire ai processi che hanno avuto luogo in me mentre pronunciavo il comando «Vieni qui!»?
Ma qual genere di processi? Non si potrebbe presumere che quando ho dato il comando io abbia guardato A; che abbia diretto il corso dei miei pensieri verso di lui? Ma forse B non lo conosco affatto; sono in relazione soltanto con A. Allora, chi avesse indovinato i miei processi mentali si sarebbe potuto sbagliare completamente, e ciò nonostante avrebbe capito che intendevo A e non B.
22. Faccio un cenno con la mano e dico: «Vieni qui!» A mi chiede: «Intendevi me?» Dico: «No, intendevo B!» – Che cos’è accaduto mentre intendevo B (dal momento che il mio cenno lasciava in dubbio quale dei due intendessi)? – Ho detto queste parole, ho fatto questi gesti con la mano. Doveva forse accadere ancora qualcos’altro perché il giuoco linguistico potesse aver luogo? Ma chi intendessi non lo sapevo già mentre facevo il cenno? Sapevo? Certamente, – secondo i criteri abituali del sapere.
23. «Con la mia spiegazione miravo direttamente a…» Avevo in mente questo scopo. Ho visto mentalmente il passo del libro a cui mi riferivo.
Descrivere l’intenzione [Absicht] vuol dire descrivere quello che è accaduto, da un certo punto di vista, per uno scopo ben determinato. Dipingo un determinato ritratto del processo.
24. Invece di «Ho inteso lui», si può anche dire: «Ho parlato di lui». E come si fa: a parlare di lui con queste parole? Perché suona falso il dire «Ho parlato di lui, perché, mentre pronunciavo queste parole, ho indicato lui»?
Forse «intendere lui» vuol dire parlare di lui. Non: indicare lui. E se parlo di lui, tra il mio discorso e lui sussiste certamente una connessione, ma questa connessione consiste nell’applicazione del discorso, non in un atto dell’indicare. L’indicare, a sua volta, è soltanto un segno, e nel giuoco linguistico può regolare l’applicazione delle proposizioni, e dunque indicare che cosa si intenda.
25. Se dico «Ho visto una sedia in questa stanza», per lo piú posso ricordare solo molto approssimativamente l’immagine visiva particolare; e nella maggior parte dei casi la cosa è del tutto insignificante. L’uso che si fa della proposizione trascura questa particolarità. È dunque cosí anche quando dico «Ho inteso N»? Questa proposizione trascura in maniera analoga le particolarità del processo?
26. Quando, facendo un’osservazione, alludo a N, posso far in modo che – se sono date determinate circostanze – la cosa traspaia dal mio sguardo, dall’espressione del mio volto, ecc.
Che tu capisca l’espressione «alludere a N» puoi mostrarlo descrivendo esempi di allusioni. Che cosa descriverai? Prima di tutto certe circostanze; poi quello che uno dice. Per esempio, anche il suo sguardo, ecc. Poi, quello che vuol fare la persona che fa l’allusione.
Se poi comunico ancora a qualcuno i sentimenti che provavo, le rappresentazioni, ecc., che avevo mentre facevo quest’osservazione (mentre facevo quest’allusione), tutte queste cose possono completare il quadro tipico dell’alludere (o un quadro di questo genere). Ma da questo non segue che l’espressione «alludere a N» significhi: comportarsi in questo modo, provare questi sentimenti, immaginarsi queste cose, ecc. E qui qualcuno dirà: «Certo che no! Questo l’abbiamo sempre saputo. E attraverso tutti questi fenomeni deve stendersi un filo rosso. Per cosí dire, è ingarbugliato con essi, e per questa ragione è difficile da trovare». – E neanche questo è vero.
Ma sarebbe anche falso il dire che «alludere» designa una famiglia di processi, dello spirito e di altro genere. – Infatti, si può bensí chiedere: «Qual era la tua allusione a N?» «Come hai fatto a dare ad intendere all’altro di aver inteso N?»; ma non: «Come hai fatto a intendere quest’espressione [Äusserung] come allusione a N?»
«Nel mio discorso ho alluso a lui». – «Con quali parole?» – «Ho alluso a lui, quando ho parlato d’un uomo che…»
«Ho alluso a lui», vuol dire, all’incirca: volevo che qualcuno, udendo queste parole, pensasse a lui. Ma «volevo» non è la descrizione d’uno stato d’animo (Seelezustand), e non lo è neppure «capire che si intendeva N». [Scolio: Ma qualcuno chiede: «In quale osservazione hai alluso a lui?»; «Qual era l’osservazione in cui intendevi lui?»]
27. Quando la situazione è ambigua, è dubbio se io intenda lui? Dicendo che ho, oppure che non ho, inteso lui, non giudico dalla situazione. E allora se non giudico dalla situazione, da che cosa giudico? Apparentemente, da nulla affatto. Infatti, mi ricordo bensí della situazione, ma l’interpreto. Adesso posso, per esempio, imi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Zettel
  3. Wittgenstein, o della banalità ossessiva di Mario Trinchero
  4. Abbreviazioni.
  5. ZETTEL
  6. Indice analitico
  7. Il libro
  8. L’autore
  9. Dello stesso autore
  10. Copyright