L'inventore di sogni
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L'inventore di sogni

  1. 128 pagine
  2. Italian
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L'inventore di sogni

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Un bambino sogna a occhi aperti e immagina di far sparire l'intera famiglia, un po' per noia e un po' per dispetto, con un'immaginaria Pomata Svanilina; oppure sogna di poter togliere al gatto di casa la pelliccia, di farne uscire l'anima felina e di prenderne il posto, vivendone per qualche giorno la vita, soltanto in apparenza sonnacchiosa; oppure sogna che le bambole della sorella si animino e lo aggrediscano per scacciarlo dalla sua camera...
Fin dalle prime pagine di questo libro ritroviamo il consueto campionario di immagini perturbanti che sono un po' il «marchio di fabbrica» di McEwan. Specialmente nella prima stagione della sua narrativa l'autore britannico ci aveva abituato a profondi e terribili scandagli nel microcosmo della famiglia, e in quei mondi chiusi e violenti i bambini e gli adolescenti giocavano sia il ruolo delle vittime e sia quello dei carnefici.
Nell'Inventore di sogni McEwan ritorna sul luogo del delitto, ma lo fa con un tono e uno spirito completamente diversi, scegliendo il registro sereno e sdrammatizzante per definizione: quello del «racconto per ragazzi».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858400838

Il Gatto

Svegliandosi al mattino, Peter non apriva mai gli occhi prima di aver risposto a due semplici domande. Uno: chi ero, già? Ah, sí, Peter, un bambino di dieci anni e mezzo. Due, sempre con gli occhi chiusi: che giorno è oggi? E la risposta gli piombava addosso, realtà palpabile e ferma come una montagna. Martedí. Un altro giorno di scuola. Allora si tirava le coperte sulla testa e andava a rannicchiarsi tutto dentro il suo tepore facendosi inghiottire da quel buio amico. Riusciva quasi a far finta di non esistere, ma sapeva che gli sarebbe toccato saltar fuori, prima o poi. Era proprio martedí, per tutto il mondo. La terra stessa, cigolando nello spazio freddo, girando e roteando intorno al sole, aveva portato tutti quanti a martedí e non c’era niente che né Peter né i suoi genitori e neppure il governo potessero fare per cambiare la situazione. Doveva alzarsi, se non voleva perdere l’autobus e fare tardi, e finire nei guai.
Che cattiveria però dover trascinare fuori da quel nido il suo corpo caldo e assonnato e mettersi a cercare nel buio i vestiti, già sapendo che tra meno di un’ora si sarebbe ritrovato a tremare alla fermata. Alla televisione, il signore del tempo aveva detto che da quindici anni ormai non c’era piú stato un inverno tanto freddo. Freddo, e noioso, per giunta. Niente neve, niente brina, neppure uno straccio di pozza gelata per farci le scivolate. Era solo freddo e grigio, con un ventaccio arrabbiato che si infilava nella stanza di Peter da una fessura della finestra. Certe volte gli sembrava di non aver fatto altro nella vita che svegliarsi, alzarsi e andare a scuola, e che sarebbe stato cosí per sempre. Il fatto poi che anche gli altri, grandi compresi, dovessero tirarsi giú dal letto nelle scure mattine d’inverno, non gli procurava il minimo sollievo. Ma la terra continuava a girare, girare, lunedí, martedí, mercoledí, e la gente continuava ad alzarsi.
La cucina era una specie di stazione intermedia tra il letto e il gran mondo di fuori. L’aria era densa di fumo del pane tostato, vapore che usciva dalla valvola del bollitore, e profumo di pancetta. In teoria, a colazione la famiglia avrebbe dovuto trovarsi riunita, ma accadeva di rado che si sedessero tutti e quattro insieme. Mamma e papà uscivano per andare a lavorare, e c’era sempre qualcuno che correva intorno alla tavola in preda al panico, alla ricerca di un foglio perduto, un’agenda, o magari una scarpa; cosí bisognava arrangiarsi a prendere quel che c’era nei tegami e trovarsi un posto per mangiare.
Faceva caldo in cucina, quasi come nel letto, ma non c’era la stessa pace. L’atmosfera era carica di accuse nervose travestite da domande.
– Chi ha dato da mangiare al gatto?
– A che ora pensi di essere a casa?
– Hai finito i compiti?
– Chi ha preso la mia valigetta?
Col passare dei minuti crescevano il trambusto e la tensione. In famiglia vigeva una regola: prima che tutti uscissero, la cucina doveva essere in ordine. Capitava perciò di dover acchiappare alla svelta una fetta di pancetta, se non la si voleva veder finire direttamente nella ciotola del gatto mentre la padella affondava sfrigolando dentro l’acqua dei piatti. I quattro membri della famiglia andavano e venivano di corsa urtandosi con scodelle sporche, e scatole di cereali. E c’era sempre qualcuno che brontolava: – Farò tardi. Sono di nuovo in ritardo. Con questa fa tre volte in una settimana.
C’era però anche un quinto membro della famiglia, il quale non aveva mai furia e ignorava tutto quel finimondo. Se ne stava sdraiato sulla mensola sopra il calorifero, con gli occhi socchiusi, dando appena in qualche sbadiglio di quando in quando. Erano sbadigli enormi, offensivi. La bocca si spalancava rivelando una bella lingua rosa e quando finalmente tornava a chiudersi, il corpo intero, dal baffo alla punta della coda, era percorso da un fremito pigro: William, il gatto, si preparava a vivere un’altra giornata.
Quando Peter afferrava la cartella e si dava ancora un’occhiata intorno prima di uscire di casa di corsa, era sempre William l’ultima cosa che vedeva. Teneva la testa appoggiata a una zampa, mentre quell’altra ciondolava molle dal bordo della mensola, e si godeva l’aria calda che saliva. Una volta liberatosi di quei ridicoli esseri umani, il gatto avrebbe potuto sonnecchiare in pace per qualche ora. L’immagine del micio sonnolento non mancava di torturare Peter ogni volta che, uscendo di casa, riceveva il benvenuto di una raffica gelida di tramontana.
Caso mai vi facesse strano pensare a un gatto come a un vero membro della famiglia, dovete sapere che William aveva piú anni di Peter e di Kate messi insieme. Aveva conosciuto la loro mamma da piccolo, quando lei ancora studiava. L’aveva seguita per tutto il corso universitario e, cinque anni dopo, era stato presente al ricevimento di nozze. Quando Viola Fortune aspettava il primo bambino e certe volte si riposava a letto di pomeriggio, il Gatto William si acciambellava intorno a quella gran gobba rotonda dove dentro c’era Peter. E dopo la nascita tanto di Peter quanto di Kate, era scomparso di casa per giorni e giorni. Nessuno sapeva dove andasse, né perché. Era stato un testimone muto di tutte le gioie e i dolori della famiglia. Aveva osservato i poppanti crescere fino a muovere i primi passi e a cercare di trascinarlo per le orecchie, e aveva visto quegli stessi bimbetti farsi scolari. Conosceva i loro genitori dai tempi in cui erano una coppia di svitati che vivevano in un monolocale. Adesso erano un po’ meno svitati e avevano una casa con tre stanze da letto. Del resto, anche il Gatto William si era fatto piú tranquillo. Aveva smesso di portare in casa topi e uccellini da deporre ai piedi di ingrati essere umani. Da poco dopo il suo quattordicesimo compleanno non lottava piú nell’orgogliosa difesa del suo territorio. Peter giudicava intollerabile che il giovane bellimbusto della casa vicina stesse prendendo possesso del giardino, senza che William potesse reagire. Certe volte lo sfrontato arrivava al punto di entrare in cucina passando dalla ribaltina della porta di servizio, e andava a mangiare la pappa di William, mentre il vecchio gatto restava a guardare impotente. E dire che fino a pochi anni prima, nessun gatto dotato di un minimo di buon senso, avrebbe mai osato posare una zampa al di là del muretto.
Chissà quanto soffriva William di non esser piú forte come un tempo. Rinunciò alla compagnia di altri gatti, per starsene seduto in casa, solo con i suoi pensieri e i suoi ricordi. Ma, a dispetto dei diciassette anni, si manteneva lucido e pulito. Era quasi tutto nero, fatta eccezione per le ghette e lo sparato bianchissimi, come la punta della coda. Certe volte veniva a vedere dove eri seduto e, dopo un attimo di riflessione, ti saltava in grembo e restava cosí sulle quattro zampe ben distese, a guardarti fisso dentro gli occhi, senza mai battere ciglio. Poi magari fletteva la testa, pur continuando a sostenere lo sguardo, e se ne usciva in un unico miagolío, e allora si poteva esser certi che avesse detto qualcosa di saggio e importante, qualcosa che tu non avresti capito.
Nei pomeriggi d’inverno, di ritorno da scuola, non c’era cosa che Peter amasse di piú che sfilarsi con un calcio le scarpe e sdraiarsi davanti al fuoco del tinello accanto al Gatto William. Gli piaceva mettersi giú all’altezza di William e poi andargli vicino vicino con la faccia a guardare la sua, quella faccia straordinaria diversa e bellissima, con ciuffi di pelo nero che si aprivano a raggio intorno al musetto, e i baffi bianchi leggermente piegati all’in giú, e i peli del sopracciglio sparati dritti come antenne della televisione, e gli occhi verde chiaro con quelle fessure strette come porte socchiuse su un mondo nel quale Peter non sarebbe mai potuto entrare. Appena gli si avvicinava, incominciava il ronzio soddisfatto delle sue fusa, talmente basso e potente da far vibrare anche il pavimento. E Peter sapeva di essere gradito.
Fu proprio in uno di quei pomeriggi, e proprio di martedí, guarda caso, le quattro appena e fuori già quasi buio, le tende tirate e la luce accesa, che Peter si accomodò sul tappeto vicino a William, davanti a un bel fuoco le cui fiamme si arricciavano intorno a un grosso ciocco di legno d’olmo. Giú dal camino veniva il gemito del vento gelato che intanto spazzava i tetti. Per non sentir freddo, Peter aveva sfidato Kate a chi faceva prima dalla fermata dell’autobus fino a casa. Adesso era al caldo e al sicuro con il suo vecchio amico il quale, disteso sulla schiena con le zampe anteriori ciondoloni, faceva finta di essere piú giovane dei suoi anni. Voleva farsi accarezzare la gola. Mentre Peter gli passava le dita tra il pelo con dolcezza, il mormorio delle fusa si faceva piú forte, finché ogni ossicino del vecchio gatto sembrò mettersi in movimento. Poi, William allungò una zampa verso le dita di Peter, come a tirargliele un po’ piú su. E Peter si lasciò guidare.
– Vuoi che ti accarezzi il mento, eh? – sussurrò. Ma non era cosí. Il gatto voleva essere toccato esattamente all’attaccatura del collo. Peter sentí qualcosa di duro. Qualcosa che si spostava di qua e di là. Doveva essergli rimasto impigliato tra i peli. Peter si rizzò appoggiandosi a un gomito, per controllare meglio. Si aprí con le dita un varco. Da principio pensò si trattasse di un piccolo oggetto prezioso, una targhetta d’argento. Ma non c’era la catenina, e a furia di tastare e scrutare, si rese conto che non era affatto metallico, ma di osso pulito, un piccolo ovale schiacciato nel mezzo e, cosa ben piú incredibile, si accorse che era attaccato alla pelle di William. Poteva afferrarlo comodamente tra pollice e indice. Strinse un poco la presa e diede un leggero strattone. Le fusa di William si fecero anche piú convinte. Peter tirò di nuovo e questa volta sentí qualcosa cedere.
Osservando tra la pelliccia e spartendola un po’ con le dita, vide che aveva aperto un breve taglio nella pelle del gatto. Era come se stesse tirando l’estremità di una cerniera lampo. Tirò ancora e questa volta lo squarcio buio si fece lungo almeno due pollici. Le fusa di William provenivano proprio di là. Forse, pensò Peter, gli vedrò battere il cuore. La zampa gli stava di nuovo spingendo le dita. Il Gatto William voleva che continuasse.
E lui obbedí. Aprí la cerniera del gatto dalla gola alla coda. Peter avrebbe voluto anche guardare dentro, ma non gli piaceva far la figura del ficcanaso. Era lí lí per chiamare Kate che venisse a vedere, quando ci fu un movimento, come un rimescolio dentro il gatto e dal buco uscí un tenue bagliore rosato che si andò facendo piú vivo. Poi d’improvviso, dal Gatto William sgusciò... be’ sí insomma, una cosa, una creatura. Solo che Peter non era sicuro di poterla davvero toccare perché gli sembrava fatta solo di luce. E benché non avesse né baffi né coda, non facesse le fusa, non si vedesse pelo, né zampe, sembrava dire con tutta se stessa una cosa soltanto: «gatto». Era come l’essenza di quella parola, il cuore dell’idea. Era un viluppo rosa violaceo di luce pacata, sinuosa, ricurva e stava uscendo dal corpo del gatto.
– Tu devi essere lo spirito di William, – disse Peter. – Oppure sei un fantasma?
La luce non emise alcun suono, ma era chiaro che aveva capito. Anche senza pronunciare parole vere e proprie, sembrava dire che era entrambe le cose, e anche molto di piú.
Quando fu totalmente fuori dal gatto, il quale continuava a starsene sdraiato sul tappeto davanti al fuoco, lo spirito si librò nell’aria e andò a posarsi fluttuando sulla spalla di Peter. Non gli metteva nessuna paura. Si sentiva quella luce sulla guancia. Poi lo spirito volteggiò dietro la sua testa e non poté piú vederlo. Lo sentiva però sfiorargli il collo e un leggero brivido gli corse giú per la schiena. Lo spirito del gatto afferrò qualcosa che doveva sporgere dalla sua spina dorsale e lo tirò giú, fino in fondo, e Peter sentí l’aria fresca della stanza solleticargli il tepore interno.
Era una sensazione stranissima, quella di uscire dal proprio corpo, come se niente fosse, per poi lasciarlo sdraiato per terra, come quando ci si sfila una camicia. Peter vedeva il suo stesso bagliore, che era viola e bianchissimo. I due spiriti volteggiarono un poco nell’aria l’uno di fronte all’altro. E fu proprio allora che Peter seppe che cosa desiderava fare, che cosa anzi doveva fare. Fluttuò sopra il corpo del Gatto William e rimase sospeso a mezz’aria. Il corpo era aperto come una porta, e appariva cosí invitante, cosí accogliente. Peter discese ed entrò. Che bella cosa, vestire i panni di un gatto. Non era affatto molliccio, come credeva che fossero tutti i corpi visti da dentro. Era caldo e asciutto. Si sdraiò sulla schiena e infilò le braccia dentro le zampe anteriori di William. Poi sistemò le gambe in quelle posteriori. La testa entrò come un guanto in quella del gatto. Lanciò un’ultima occhiata al proprio corpo, appena in tempo per vederci sparire dentro lo spirito del Gatto William.
Aiutandosi con le zampe, non gli fu difficile richiudere la cerniera. Si tirò su e azzardò qualche passo. Com’era piacevole camminare su quelle quattro zampette morbide e bianche. Si vedeva i baffi spuntare dai lati della faccia e si sentiva la coda arricciolarsi da dietro. Aveva il passo leggero e la pelliccia gli dava la sensazione di estrema comodità di un vecchio maglione di lana. Man mano che il piacere di essere gatto cresceva, Peter si sentiva gonfiare il cuore e il solletichio profondo che gli nasceva in gola divenne cosí forte da produrre un rumore decisamente udibile. Peter stava facendo le fusa. Era proprio un Gatto Peter e laggiú, ecco il Bambino William.
Il bambino si alzò stiracchiandosi. Poi, senza dire una parola al gatto che gli stava ai piedi, uscí di corsa dalla stanza.
– Mamma, – Peter sentí il suo corpo di prima chiamare dalla cucina. – Ho fame. Che cosa si mangia per cena?
Quella sera Peter si ritrovò troppo inquieto, agitato, troppo gatto, per dormire. Intorno alle dieci, sgusciò fuori di casa passando dalla ribaltina. L’aria gelida della notte non riusciva a penetrare il pelo fitto della sua pelliccia. Zampettò silenzioso fino al muro di cinta del giardino. Sembrava altissimo, ma con un semplice balzo aggraziato ne guadagnò la cima, dalla quale poteva dominare il suo territorio. Che meraviglia, poter scrutare negli angoli bui, percepire ogni vibrazione dell’aria notturna a fior di baffi, e poi, rendersi invisibili quando, verso mezzanotte, una volpe arrivò in giardino per andare a rovistare tra i bidoni della spazzatura. Sentiva nei dintorni la presenza di altri gatti, alcuni del posto, altri venuti da chissà dove, a zonzo per i loro vagabondaggi serali. Dopo la volpe, era stata la volta di un giovane soriano che aveva tentato di intrufolarsi in giardino. Vedendo quel giovanotto squittire per lo spavento e darsela a gambe, dentro di sé si era concesso un accenno di fusa compiaciute.
Poco dopo, nel corso di un giro di ronda sul muro alto che sovrastava la serra, si ritrovò muso a muso con un altro gatto, ben piú pericoloso questa volta. Era nero nero, il che spiega come mai Peter non l’avesse visto prima. Si trattava del gattone della porta accanto, un tipo gagliardo, quasi due volte lui, con un gran collo e lunghe zampe robuste. Senza nemmeno pensarci, Peter inarcò la schiena e scompigliò il pelo per sembrare piú grosso.
– Ehi, micio-micio, – sibilò, – stai camminando sul mio muretto.
Il gatto nero era molto sorpreso. Sorrise. – Vorrai dire che era il tuo muro, Nonnetto. Sentiamo un po’, che intenderesti fare?
– Ti conviene girare alla larga, prima che ti faccia finire da basso –. Peter non poteva credere alla forza che si sentiva dentro.
Il gatto nero sorrise di nuovo, con freddezza. – Senti Nonnetto. Non è piú il tuo muro da un pezzo. E io ci passo finché mi pare. Ora levati da mezzo se no ti apro in due.
Peter non si mosse. – Fa’ un altro passo, lurida pulce ammaestrata, e ti lego i baffi intorno al collo.
Il gatto nero diede in un lungo lamento sprezzante. Ma non si mosse dal punto in cui era. Tutto intorno, dal buio, arrivavano i gatti del vicinato a vedere che succedeva. Peter li sentiva parlare.
– Una zuffa?
– Una zuffa!
– Il vecchio deve essere impazzito!
– Ha diciassette anni come minimo.
Il gatto nero inarcò la possente spina dorsale ed emise un altro terribile crescente mugolio.
Peter si sforzò di mantenere un tono di voce pacato, ma le sue parole uscirono in un susseguirsi di sibili minacciosi: – Sssenti bello, non sssi passsssa di qui sssenza il mio permesssso, chiaro?
Il gatto nero socchiuse gli occhi. I muscoli del collo grasso gli si contrassero in una risata che era anche un grido di guerra.
Sul muretto di fronte, un miagolio sommesso e carico di tensione si diffuse tra un pubblico sempre piú numeroso.
– Il vecchio Bill è uscito di senno.
– Si è scelto il gatto sbagliato per fare a botte.
– Ascoltami bene, vecchia pecora sdentata, – stava dicendo il gatto nero in un sibilo assai piú convincente di quello di Peter. – Io sono il numero uno da qu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'inventore di sogni
  3. Due parole su Peter
  4. Le Bambole
  5. Il Gatto
  6. La Pomata Svanilina
  7. Il Prepotente
  8. Il Ladro
  9. Il Piccolo
  10. I Grandi
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright