Le persone e le cose
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Le persone e le cose

  1. 136 pagine
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Le persone e le cose

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Fin dalle origini, la nostra civiltà si è basata su una distinzione netta e inequivocabile tra persone e cose, fondata sul dominio strumentale delle prime sulle seconde. Questa opposizione di principio nasce con il diritto romano e percorre per intero la modernità, fino ad approdare all'attualità del mercato globale, producendo contraddizioni crescenti. Sebbene la distinzione continui ad apparirci chiara e necessaria, nella prassi giuridica, economica e tecnica assistiamo continuamente a un ribaltamento di fronte: alcune categorie di persone vengono assimilate alle cose, mentre alcuni tipi di cose acquistano un profilo personale. Per risolvere questa antinomia, Roberto Esposito - con il consueto rigore argomentativo - ci propone una via d'uscita, grazie a un nuovo punto di vista costituito dal corpo. Né persona né cosa, il corpo umano diventa l'elemento dirimente nel ripensamento dei concetti e dei valori che governano il nostro lessico filosofico, giuridico e politico.

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Informazioni

Capitolo terzo

Corpi

1. Lo statuto del corpo.
Può apparire singolare che il corpo umano sia stato a lungo escluso dall’orizzonte del diritto. Da sempre conteso fra poteri diversi – lo Stato, la Chiesa, l’individuo – che ne rivendicano la proprietà, esso non ha mai goduto di una adeguata definizione giuridica. Inserito, all’alba della modernità, nella Magna Cartha attraverso la formula dell’habeas corpus, il corpo scompare dalle codificazioni civili europee, costruite intorno alla trama astratta di soggetti disincarnati. Evocato solo relativamente ai momenti estremi della nascita e della morte, esso, considerato un dato naturale, non è sembrato richiedere una specifica attenzione giuridica. Tale esclusione, del resto, è il portato inevitabile della grande divisione che organizza il nostro modo di pensare. Non rientrando compiutamente né nella categoria di persona né in quella di cosa, il corpo dell’uomo è stato cancellato come oggetto di diritto e lasciato oscillare fra l’una e l’altra. In verità, fino a qualche decennio fa, la tendenza prevalente, in linea con la tradizione romanistica, è stata quella di assimilarlo alla persona. In base alla formulazione secondo la quale il corpo di un uomo libero non può mai diventare oggetto di stima economica, si è sempre evitato l’accostamento alla cosa. Cosí, non esistendo stazioni intermedie fra cosa e persona, non è rimasto che situarlo nell’orbita di quest’ultima. Pur con tutte le contraddizioni rilevate, è Kant a tirare la conclusione piú netta:
l’uomo non può disporre di se stesso, poiché non è una cosa: egli non è una proprietà di se stesso, poiché ciò sarebbe contraddittorio. Nella misura, infatti, in cui è una persona, egli è un soggetto, cui può spettare la proprietà di altre cose1.
A tale tesi si rifà l’articolo 1128 del Code civil, che esclude il corpo dalle cose in commercio, come anche quello della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (3.2), che vieta «di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro»2.
Ma contraddittoriamente tali divieti, proprio dichiarando il corpo persona, hanno l’effetto non voluto di ricondurlo allo statuto della res, sia pure extra commercium. Sostenere, infatti, che qualcosa non sia oggetto di mercato, non equivale a escluderla dall’ambito delle cose. Una difficoltà ancora maggiore si delinea quando si consideri il corpo umano non in astratto, ma situato nel tempo e nello spazio. Quanto al primo, è opinione comune che «la morte faccia entrare il corpo nella categoria delle cose»3. A tale proposito Pierre Legendre ricorda il caso di san Spiridione, vescovo di Cipro nel IV secolo, il cui cadavere mummificato fu portato a Corfú da una famiglia cipriota in fuga dai Turchi, come parte del suo patrimonio privato fino a divenire dote per le figlie. Simile ambivalenza si ripropone anche in ordine a ciò che il corpo umano è prima della nascita, allorché è ancora un embrione. Da quando, e fino a quando, esso può essere considerato persona, anziché cosa? Il trafugamento di cadavere, oppure di embrioni, va considerato alla stregua di un rapimento come se si trattasse di una persona o di un furto come fosse una cosa?
L’interrogativo si pone in maniera ancora piú irresolubile allorché il corpo è considerato, anziché nel suo insieme, nelle singole parti – nei suoi prodotti o nei suoi organi separati4. In generale una parte del corpo, una volta staccata da esso, è trattata come cosa. Tuttavia tale opzione non è priva di controindicazioni, almeno per quanto riguarda determinati organi. Se la questione non si pone per denti, unghie, capelli, una volta estratti o tagliati, perché facilmente riconducibili allo stato di res nullius, piú complesso, per il suo rilievo simbolico, è il caso del sangue. Benché considerato irriducibile alla cosa, esso è non di rado commercializzato in vista di trasfusioni. Ma un’indecisione giuridica ancora piú marcata si è verificata nel caso giudiziario della cistifellea estratta a un malato e usata, per le sue proprietà terapeutiche, per la preparazione di un farmaco. A chi essa apparteneva – all’uomo, all’ospedale o alla ditta farmaceutica? In un caso come questo la mancata attribuzione di una parte del corpo al regime della cosa finisce per impedirne una stabile definizione giuridica. Ritenere, d’altra parte, che un organo corporeo staccato dal corpo, o anche il corpo intero dopo la morte, cambi natura, passando dall’orizzonte della persona a quello della cosa, rimane poco convincente. Se un corpo, o una sua parte, è mai stato persona, continuerà a esserlo in ogni condizione; se, invece, a un certo momento è diventato cosa, vuol dire che lo era fin dall’inizio5.
Da qualsiasi parte si consideri la questione, non si esce da una serie di antinomie che sembrano minarne qualsiasi risoluzione. Che il corpo possa essere ridotto a cosa è contrario alla nostra sensibilità. Ma che sia sempre equivalente alla persona contrasta con la logica. L’irresolubilità del problema nasce evidentemente da un lessico giuridico, ancora fondato sull’antica divisione tra persone e cose, che non regge piú di fronte alle straordinarie trasformazioni in atto. Il corpo umano, nella sua sporgenza rispetto a entrambe le categorie, testimonia della loro inadeguatezza concettuale. Non solo esso non è classificabile né come persona né come cosa, ma, nelle domande sempre nuove che pone al diritto, ne richiede una urgente riformulazione. In realtà nel corso degli ultimi decenni la giurisprudenza si è andata progressivamente aprendo a quella vita che aveva lasciato a lungo fuori dai propri confini. Già alla metà del secolo scorso, ad esempio, la normativa che regolava la trasfusione del sangue immetteva il bios nello spazio formalizzato del diritto in riferimento a un elemento che non risultava ascrivibile né alla dimensione della persona né a quella della cosa. Successivamente la legge sul prelievo di organi per trapianto da cadaveri di uomini che non avessero dichiarato da vivi una volontà contraria rompeva il rapporto esclusivo tra corpo e singolo individuo, facendo di esso una sorta di bene collettivo. La proposta, adottata nel 1998 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, di qualificare il genoma umano «patrimonio comune dell’umanità» portava tale processo ancora piú avanti. Ma il passaggio decisivo sarebbe venuto con lo sviluppo impetuoso delle biotecnologie. La pratica sempre piú diffusa del trapianto rendeva improponibile anche l’identificazione tra corpo e persona. Senza trascurare le derive commerciali dello scambio di organi, la logica complessiva che si è messa in moto va nel senso di una circolazione sociale del corpo fuori dal mercato delle cose, ma anche oltre i confini della persona6.
Non bisogna interpretare tale mutazione come revoca di quella che da piú parti è proclamata “sacralità della vita” – ma come un suo trasferimento dall’ambito del proprio a quello del comune dovuto alla mutazione di entrambi i termini dell’espressione. Che il concetto di vita abbia subíto una radicale ridefinizione dopo la scoperta del genoma è fin troppo ovvio. Ma un simile mutamento investe anche quello di sacralità. Proprio il diritto romano, del resto, connetteva le res sacrae alle res communes. Esse, pur nel loro diverso statuto, condividevano la condizione di cose extra patrimonium ed extra commercium. In Gaio alla prima distinzione tra «cose che sono in nostro patrimonio e cose che non lo sono», succede quella tra res divini iuris e res humani iuris, suddivise a loro volta in publicae e privatae. Secondo una tipica procedura del diritto romano, ogni categoria si sdoppia in ulteriori ramificazioni. Cosí le res publicae non coincidono con le res communes. Mentre quest’ultime, quali l’aria o l’acqua, non appartengono a nessuno, le prime, come teatri o mercati, sono una comproprietà dei cittadini. A loro volta le res divini iuris si dividono in sacrae, consacrate al culto, religiosae, comprendenti i sepolcri, le salme o le ceneri, e sanctae, come le mura e le porte della città. Tuttavia, nonostante la loro differenza, tutte le cose divine condividono con quelle pubbliche la caratteristica di non essere appropriabili da parte di privati. Al punto che in età repubblicana, ma anche in quella imperiale, cose sacre e cose pubbliche si situano in un’orbita giuridicamente omogenea e sono sottoposte al medesimo regime amministrativo, fiscale e penale, nel senso che sono protette dalle stesse interdizioni. E ciò non perché q...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Le persone e le cose
  3. Introduzione
  4. Le persone e le cose
  5. I. Persone
  6. II. Cose
  7. III. Corpi
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright