Machiavellerie
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Storia e fortuna di Machiavelli

  1. 488 pagine
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Storia e fortuna di Machiavelli

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Con straordinario scrupolo critico, testi ed eventi sono ricondotti al loro preciso contesto storico, così da sgombrare il campo da sbavature anacronistiche e ricostruzioni approssimative che hanno intorbidato questioni già di per sé complesse di storia politica e sociale come di storia letteraria. Ne scaturisce una lezione di metodo, che non rifugge da scatti polemici: queste Machiavellerie, «scontrose piuttosto che indulgenti», sono la testimonianza dell'etica intellettuale di un grande studioso. Dai saggi sui rapporti col Valentino e il suo luogotenente e boia don Micheletto a quelli sulla lingua e la civiltà letteraria del primo quarto del Cinquecento, ci appare la multiforme attività di Machiavelli che, se non fu un umanista nel senso proprio del termine, sempre riflette nella sua personalità e nella sua cultura il sapere e il sentire del suo tempo nelle punte più avanzate e originali: dalla grande stagione di Lorenzo il Magnifico e del Poliziano fino all'età del primo e del secondo papato mediceo, tragicamente chiusa dal sacco di Roma. Nel cuore di questo periodo, Machiavelli, «dopo la delusione del Principe, sempre più animosamente s'impegna a cercare nella letteratura militante dell'età sua una ragione di vita», e dai Discorsi all' Arte della guerra vagheggia una soluzione della crisi italiana «attraverso il recupero dell'antica tradizione fiorentina, in direzione opposta agli sviluppi cortigiani comuni al resto d'Italia».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858414736

Machiavelli e la lingua fiorentina

Questo capitolo, piú lungo degli altri, anche ha una lunga storia. Risale a studi giovanili sulla questione della lingua fra Quattro e Cinquecento, e per la parte che riguarda, non soltanto Firenze, ma piú propriamente Machiavelli, risale a una mezza promessa, prematuramente e a mia insaputa resa pubblica in «Giornale storico della letteratura italiana», CXXXIX, 1962, p. 277. Era una delle tante promesse, mezze o intere, che senza danno, anzi per buona fortuna, vaniscono. Ma nel 1969, partecipando a celebrazioni varie del centenario di Machiavelli, mi accadde di fare uso ripetutamente, a voce e a stampa, di vecchi appunti sulla questione della lingua fiorentina. Frattanto, e indi innanzi, la questione della lingua era tornata e tornò ad essere urgente per gli studiosi di Machiavelli. Nel 1974 Bruno Migliorini mi chiese di recensire il libro, allora apparso, del comune amico Fredi Chiappelli, Machiavelli e la lingua fiorentina. La breve recensione («Lingua nostra», XXXVI, 1975, pp. 32-34), costringendomi a riesumare e riesaminare tutti i miei appunti sulla questione, mi invogliò a esporre in altra forma, senza limiti di spazio, i procedimenti e risultati di un’inchiesta che, come in quella stessa recensione avevo detto, pareva a me appena avviata e meritevole di essere condotta innanzi. Ne risultò un discorso di sproporzionata lunghezza, non pubblicabile come articolo in un periodico, né però tale da poter comparire nei mentiti panni di un libercolo. A rinviarne la pubblicazione mi persuase in seguito anche l’annunzio, via via ripetuto, di autorevoli interventi altrui sulla questione stessa. Trovandomi ora a raccogliere in volume le mie sparse machiavellerie, avrei dovuto e, bastandomi le forze, potuto rifare in parte questo inedito discorso sulla lingua, aggiornandolo, ossia resecando alcune cose, già dette da altri, e per contro aggiungendone molte a illustrazione e commento delle altrui pubblicazioni, apparse dopo il 1974. Avrei dovuto, ma non ho potuto: pubblico il mio discorso tal quale, augurandomi che ancora, qua e là, riesca utile, e mi limito ad aggiungere nelle note gli indispensabili rinvii a pubblicazioni recenti, brevemente dichiarando, ove occorra, il mio consenso o dissenso.
La sazietà delle questioni di lana caprina, che ingombrano l’accesso al Principe e ai Discorsi, ha contribuito a divertire l’attenzione degli studiosi su altre opere di Machiavelli: opere che contano fra le maggiori, per mole e per impegno, come l’Arte della guerra e le Istorie fiorentine, e opere minori, che però non fanno eccezione alla normale importanza e ambiguità di tutto quel che Machiavelli ha scritto, come il Discorso over Dialogo circa la lingua fiorentina (di qui innanzi Dialogo). La discussione su questo opuscolo fu riaperta dall’italianista inglese Cecil Grayson, il quale, dapprima oralmente, nel 1969, poi ripetutamente a stampa1, imprese a dimostrare che il Dialogo, comunemente datato intorno al 1514-15, non poté essere scritto prima del 1524-25, anzi fu probabilmente scritto piú tardi, sicché l’attribuzione stessa a Machiavelli deve considerarsi dubbia, probabilmente erronea.
La tesi del Grayson ha fatto breccia nella questione della data, piuttosto che in quella dell’attribuzione2. Comunque è stata una breccia piú larga di quanto fosse prevedibile: meritamente piú larga, e per essa si è rovesciata su quel breve Dialogo maggiore copia di argomenti e giudizi in pochi anni, che non prima in due secoli3. Poiché il poi ripete a volte, inconsapevolmente, il prima, certo non s’intende senza il prima, gioverà riesaminare dalle origini le due questioni, dell’autenticità e della data.
Quando il Dialogo, senza nome d’autore, fu pubblicato per la prima volta dal Bottari, a Firenze nel 1730, e di lí a poco ristampato dal Seghezzi, a Padova nel 1744, l’attribuzione a un autore condannato dalla chiesa non poteva in Italia essere dichiarata, nonché discussa. Né era discutibile la data di un testo forzatamente anonimo. Ma la pubblicazione stessa del testo con una presentazione che, tacendo il nome dell’autore, lo designava senza lasciare alcun margine di dubbio, faceva prova che la rivincita di Machiavelli era imminente. Infatti, già nel 1732, un’edizione nuova e non espurgata del Morgante Maggiore, allestita tra Firenze e Napoli e provvista di un’ottima prefazione, oltreché di una spropositata dedica, non mancava di registrare quel «vago dialoghetto, dato in luce senza nome… ma che è di Niccolò Machiavelli», nel qual dialogo «si convince col Morgante alla mano graziosamente Dante d’aver nella sua Commedia parlato fiorentino».
Vent’anni dopo, Machiavelli otteneva la sua rivincita nella fondamentale e mirabile Collectio di Angelo Maria Bandini (Arezzo 1752). Contemporaneamente, a Venezia, nelle sue Annotazioni alla Biblioteca del Fontanini (1753), Apostolo Zeno poneva in due parole la questione della data e dell’autenticità del Dialogo, rilevando la difficoltà di attribuire a Machiavelli un testo, che presupponeva già noto il De vulgari eloquentia di Dante. Questo rilievo di un lettore eccezionale nell’età sua, quando ancora era normale una buona conoscenza della letteratura cinquecentesca, non poteva essere ripreso né tanto meno sviluppato nell’età successiva. Nel 1794 il Baldelli, celebrando con un elogio accademico quella rivincita di Machiavelli che il Bandini aveva assicurato con la ricerca, tirava acqua al suo mulino anche dal Dialogo, compiacendosi che in esso Machiavelli, «di gran lunga superiore a Dante mostrandosi, prova a quel cinico e vendicativo poeta, benché immortale, che non in lingua curiale egli scrisse, come il pretende, ma in fiorentina favella». Già di qui, da un cosí pronto e sgarbato assenso all’atteggiamento polemico di Machiavelli nei confronti di Dante, risulta chiara l’animosità del Baldelli e la sua pertinenza a una società letteraria affatto diversa, anche in Toscana, da quella del Bottari e del Bandini4. L’erudizione ecclesiastica, come la chiesa stessa, cedeva all’urto degli eventi. Anche cedeva quel sistema accademico, comune a ecclesiastici e laici, a professionisti e dilettanti, che dal Cinquecento innanzi era stato proprio della cultura italiana. Le questioni letterarie, e fra esse l’immancabile questione della lingua, venivano ora dibattute in uno spazio piú aperto, con maggiore asprezza e urgenza, da uomini che non cessavano di essere, anzi sempre piú erano, partecipi della contemporanea crisi politica.
Il Baldelli, non ancora trentenne nel 1794, si era fatto le ossa prima della rivoluzione: era reduce dalla Francia, dove si era battuto come ufficiale delle milizie straniere a servizio del re; di lí a poco, nel 1799, sarebbe tornato a battersi in Toscana con le bande degli insorti contro gli invasori francesi. Insomma andava d’accordo, in Francia e in Toscana, con l’Alfieri, quanto poteva un gentiluomo toscano, erede di una superiore civiltà. Il Baldelli era abbastanza illuminato per fare l’elogio di Machiavelli, ma non abbastanza, come neppure l’Alfieri, per accettare il nuovo ordine politico e sociale della rivoluzione. In tanto era disposto a elogiare Machiavelli, in quanto non era disposto a prendere per buoni gli «abbagli del maggior numero dei Filosofi, che dopo di lui corsero la carriera politica, i quali, fabbricatori di fantastici sistemi, vogliono l’uman genere alle loro vane speculazioni sottoporre, compiacendosi di crear gli uomini quali gli vorrebbeno, non già quali sono». Questi filosofi della politica, posteriori a Machiavelli, erano i padri della rivoluzione francese, che l’alfieriano Baldelli detestava. Ma a differenza dell’Alfieri, il Baldelli, che per l’età sua ancora poteva battersi con le armi, non poteva né voleva battersi, a tutto suo rischio e senza speranza di successo, con le parole. I tagli e mutamenti operati nell’Elogio, quando questo fu ristampato nella nuova edizione (Philadelphia 1796) delle Opere di Machiavelli, provano che fin d’allora il Baldelli si era accorto di aver sbagliato strada. Puntualmente, l’anno dopo si ripresentava al pubblico con un massiccio e irreprensibile trattato Del Petrarca e delle sue opere (Firenze 1797). Anche qui, a guardar bene, traspariva a volte la preoccupazione del presente. C’era in ispecie una pagina (150), che non posso fare a meno di citare, perché dubito che sia stata reperita e riconosciuta importante, come evidentemente è, a una data cosí alta, quando appena si era aperta la crisi della civiltà europea che si consuma oggi davanti ai nostri occhi: «L’eloquente filosofo Ginevrino, che riguardò le dotte scoperte e le scienze come veleni perniciosissimi all’uman genere, quello stesso bizzarro filosofo che avrebbe atterrati pel bene degli uomini i termini e i segni di proprietà, non è già il solo a considerare dannose le arti e le scienze: imperocché anche il severo e virtuoso legislatore, che pianta le virtú per base della sociale felicità e stabilisce la tranquillità come fondamento del pubblico bene, inclina a riguardare come funesti gli avventurosi progressi dell’umano intelletto. Vede dalle scoperte, dalle colonie nascere sanguinosissime rivalità, che bagnarono di sangue europeo le piú remote contrade; vede gli agi, le voluttà, le arti, che sembran benefiche, fomentare la mollezza, il lusso, la cupidigia, l’avarizia, l’amor soverchio di noi stessi, per cui si spense ogni amore di patria, e s’estese quell’intervallo che separa il ricco dall’indigente. E se contempla le nazioni, ne vede l’apparente prosperità appoggiata a cosí lievi, a cosí fragili sostegni, tanto complicata la macchina dei governi, tante leggi e tanta irriverenza per quelle, le rendite degli stati soggette tanto alla fallacia delle arti e dei mestieri, tanta ricchezza in pochi privati, tanta povertà nei pubblici erari, bisogno di tanta quiete e tanta sete d’invadere e d’usurpare, che ad ogni esterno o interno scompiglio teme di vedere le nazioni precipitarsi a funesta rovina».
La patria, che per il Baldelli era la Toscana, ma anche era «la dolce madre comune, la bella Italia», faceva spicco ai due capi, prefazione e chiusa (pp. III e 160), di questa monografia sul Petrarca. A servizio della patria, non potendo far di meglio «nella quiete di un’oscura vita privata», egli aveva deciso di scrivere «alcune vite di quei rari e fecondi ingegni, a cui diede felice la cuna», e dal Petrarca aveva incominciato «l’ideato lavoro». Quanto al seguito, prometteva una monografia sul Boccaccio (p. XIX), che di fatto apparve nel 1806, esplicitamente dedicata all’Italia («A te d’eroi, di valorosi e di sapienti gloriosa progenitrice…») E qui, in una nota della prefazione, il Baldelli si risolse, non soltanto a ritrattare il suo giovanile elogio di Machiavelli, ma anche a riconoscere legittima e giusta la condanna ecclesiastica delle opere di lui: «santamente fece la Chiesa, cui non può negarsi questa potestà, di proibirne le opere, ed il Principe massimamente… estratto di massime per introdurre la piú empia, maligna e sottile tirannia». È chiaro che a quella data, 1806, dopo Le Génie du Christianisme, anche il Baldelli si era reso conto che la rivendicazione di Machiavelli, come eroe di una politica laica, aveva fatto il suo tempo, e che la chiesa di Roma aveva assunto una parte di primo piano nella lotta contro il nuovo machiavellico principato prodotto dalla rivoluzione francese. Ovviamente questo principato era preferibile, per il Baldelli, alla rivoluzione. Anche e in ispecie perché l’ascendenza italiana del nuovo principe consentiva un margine di impunità, maggiore in Toscana che non in Lombardia, alla rivalsa nazionalistica contro il predominio francese. Prudentemente accantonato come politico, Machiavelli restava il maggiore storico italiano, ed è curioso che in questa sua monografia sul Boccaccio il Baldelli, facendo l’elogio dello storico (pp. XXV-XXVI), gli assegnasse compagno al secondo posto il Sarpi e respingesse al terzo, «malgrado l’estimazione di cui gode», il Guicciardini, «a’ due menzionati di gran lunga inferiore». Poco oltre (p. XXVIII), continuando la sua rassegna degli storici italiani, il Baldelli sentenziava che «senza le Rivoluzioni d’Italia dell’abate Carlo Denina mancherebbe questo paese d’una generale istoria scritta con sana filosofia, con soda critica, con elegante semplicità e con rapida e pura dizione». Altra testimonianza non occorre per fare il punto: è chiaro che la ritrattazione parziale del giovanile elogio di Machiavelli non era frutto di una conversione religiosa, politica e letteraria del Baldelli. Questi era rimasto tal quale nel fondo, con le inclinazioni e preferenze di dieci o vent’anni prima, come anche risulta dall’inguaribile aritmia del suo modo di scrivere, tipico di quell’età e della zona toscana in cui si era formato. Certo, al paragone, il piemontese Denina poteva essere spacciato come scrittore esemplare. Ma a differenza del vecchio Denina, il Baldelli toscano poteva rimanere tal quale all’ombra del Petrarca e del Boccaccio; non aveva bisogno di compromettersi col nuovo regime né di celare la sua repulsione alla supremazia francese. Questa fedeltà al passato e la congiunta rivalsa nazionalistica contro l’assetto presente finirono con l’essere in parte conformi all’indirizzo nuovo perseguito nello stesso giro d’anni dal Foscolo. Cosí l’elogio di Machiavelli come la monografia petrarchesca del Baldelli pertengono alla storia dell’Ortis e dei Sepolcri. Che dal Baldelli dipendesse la figurazione foscoliana delle tombe di Santa Croce, vide bene il Solerti, che brevemente segnalò il riscontro nella «Rassegna bibliografica della letteratura italiana» del 1902 (pp. 186-87). Ma a quella data già cominciava a tirare il vento della nuova estetica, e subito, nella stessa annata della «Rassegna» (pp. 227-29), il Sanesi, futuro collaboratore della «Critica», si preoccupò di mettere le cose a posto, ammonendo a non «veder rapporti di derivazione là dove non sono che semplici e casuali ravvicinamenti», e però a salvaguardia propria non mancò di offrire alle canne accademiche l’offa di un riscontro a suo parere piú probabile fra l’Elogio del Baldelli e la canzone leopardiana per il monumento di Dante. Poiché i due articoletti del Solerti e del Sanesi sono ormai discesi insieme nella pace sepolcrale delle bibliografie, gioverà precisare che il primo resta valido senza alcuna riserva. Fonte originaria, da cui probabilmente dipendeva il Baldelli, deve considerarsi un passo sulle tombe di Santa Croce nella Collectio del Bandini (p. XXXII): «qua in ecclesia observatione dignum est trium post plura saecula virorum insignium cineres adservari, Angeli videlicet Bonarrotae, primi post Graecos ac Romanos artifices sculptoris, Galilaei Galilaei Mathematicae, et Nicolai nostri Politices summi instauratoris». Tanto era bastato, in latino, al Bandini. Sulla fine del secolo, scrivendo in italiano, il Baldelli aveva dato al motivo delle tombe spazio e rilievo di gran lunga maggiori: non soltanto nel testo del suo elogio di Machiavelli (pp. 77-78), ma anche in un’importante nota (pp. 114-115), debitamente soppressa nella ristampa del 1796 («La chiesa di Santa Croce presenta un’imponente riunione d’oggetti per gli animi generosi. Essa è di grandiosa ostensione, e di quella rozza ma ardita semplicità e sveltezza, che innalza la mente a quelle idee che si convengono all’adorazione dell’Ente Supremo ed alla meditazione di esso…») È probabile che il Baldelli subito si pentisse d’essersi lasciato cader dalla penna quell’Ente Supremo. Era una imprudenza inutile: bastava il riferimento agli animi generosi, perché un Foscolo rispondesse all’appello.
Questa mescolanza o alternanza di vecchio e di nuovo è riconoscibile anche nel giudizio del Baldelli sul Dialogo di Machiavelli. Nella questione della lingua, a qualunque data, può considerarsi normale la parzialità di uno scrittore toscano per la tesi di Machiavelli, e normale il rifiuto della tesi dantesca. Ma non bisogna dimenticare che negli ultimi anni del Settecento e nei primi dell’Ottocento la questione della lingua fu dibattuta prevalentemente nell’Alta Italia, e che la Toscana finí con l’essere coinvolta suo malgrado e tardi. Gli scritti, che qui importano, del Baldelli, dall’elogio di Machiavelli alla vita del Boccaccio, quest’ultima apparsa nello stesso anno 1806 in cui anche apparvero le Giunte Veronesi del Cesari, non contengono, se ho ben visto, alcun riferimento alle dottrine linguistiche proposte in quel giro d’anni dal Cesarotti, dal Galeani Napione e per l’appunto dal Cesari. Ma chiaramente presuppongono quello stesso risentimento nazionalistico di fronte al prepotente influsso francese, di cui si erano fatti campioni, da ultimo, il Galeani Napione e il Cesari. Il toscano Baldelli non era certo disposto a farsi campione di una lingua italiana, men che mai di una lingua toscana attinta alle sole fonti scritte dell’aureo Trecento. Ci si può chiedere se anche su questo punto della lingua egli ritraesse qualcosa dall’esempio del vicino suo grande, l’Alfieri, altrettanto sdegnoso del contemporaneo turpiloquio degli uomini colti, quanto invaghito del linguaggio popolare toscano. Nella sua vita del Boccaccio il Baldelli inserí una lunga e notevole digressione polemica (pp. 91-93), deplorando, come già l’Alfieri in un celebre sonetto, l’abolizione dell’Accademia della Crusca e insieme la generale corruzione della lingua letteraria, infranciosata, vaga di novità e insofferente di regole, e finalmente riconoscendo nella campagna toscana l’ultima e sola riserva di un linguaggio puro: «tanto va dilatandosi tale depravazione di gusto che non già ne’ licei, non nelle accademie, non nelle corti fa d’uopo correre per apparare la schietta e pura lingua natia, ma nei fortunati fiorentini colli, ove que’ semplici coloni, non contaminati da commercio straniero, non corrotti dalla moderna istruzione, quell’aureo patrimonio ereditato dagli avi conservan preziosamente, onde non vada spenta la piú bella fra le moderne lingue». Di qui bisognava procedere ancora un buon tratto per giungere alla tesi manzoniana, ma la via era quella. E tale essendo, si spiega in entrambi i casi, del Bal...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Machiavellerie
  3. Premessa
  4. Machiavellerie
  5. Machiavelli, Cesare Borgia e don Micheletto
  6. I capitoli di Machiavelli
  7. Dalla repubblica al principato
  8. Ricordo del Bibbiena
  9. Orti Oricellari e Sacra Accademia
  10. Stampe giuntine
  11. La testimonianza del Brucioli
  12. Machiavelli letterato
  13. Machiavelli e la lingua fiorentina
  14. Machiavelli storico
  15. Machiavelli e il Giovio
  16. Epilogo
  17. Indice dei nomi
  18. Il libro
  19. L’autore
  20. Dello stesso autore
  21. Copyright