La guerra contro i cliché
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La guerra contro i cliché

Saggi letterari

  1. 232 pagine
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La guerra contro i cliché

Saggi letterari

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I saggi, le recensioni, le letture di devastante arguzia e le scazzottate letterarie di Martin Amis sono dispacci provenienti da un'epoca in cui la critica era, sí, una faccenda molto seria, ma anche maledettamente divertente. Lungi dall'essere l'estenuato rituale di un laboratorio (come a volte è oggi nelle università) o il proseguimento della pubblicità con altri mezzi (come a volte è sui giornali), la critica era il fronte in cui la letteratura incontrava la società, il campo di battaglia e la posta in gioco nella guerra dei significati. Un'epoca, ad esempio, dove la recensione - il piú umile ma allo stesso tempo il piú puro dei gesti critici - non era la mera ostensione di un gusto, ma l'occasione per misurare il talento individuale dell'autore sullo sfondo del canone, e l'intelligenza non rispondeva a nessuna legge se non a quelle della letteratura. Però Amis fa anche un'altra cosa in questo libro, forse la piú preziosa. Ci ricorda che quell'epoca non è ancora finita. Nessuna passione, di certo non quella per la critica letteraria, è spenta per sempre.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858417058

Don Giovanni a Hull

Quando muore un poeta, di solito c’è una specie di corsa al giudizio: una rivalutazione, una rivalsa – una qualche reazione, per un verso o per un altro. Sappiamo come vanno queste cose, con i poeti. Chi ha goduto di lodi e di fama in vita ecco che di colpo appare superficiale e privo di mordente. Chi è stato dileggiato, chi non ha conosciuto il successo commerciale ecco che risulta «stranamente» trascurato. Nel 1985, anno della sua morte, Philip Larkin era d’ufficio il poeta laureato d’Inghilterra, il poeta piú amato dal dopoguerra; amato, in quanto poeta, piú di John Betjeman, che invece riscuoteva consensi per la sua simpatia, per la famosa risata, per quell’aria aristocratico-bohémien e per il suo carisma televisivo, tutte cose di cui Larkin era decisamente privo. Oggi, nel 1993, Larkin è diventato una specie di paria, un intoccabile. Quello che un tempo era bello improvvisamente appare brutto.
C’è stata un’epoca in cui l’aggettivo larkinesque evocava un’atmosfera malinconica, provinciale, crepuscolare, il sentimento dei non amati. Ora invece è avvolto da un’aura di scabrosità e razzismo. La parola larkinism un tempo indicava un tipo di inglesità contegnosa, rispettabile, prudente. Ora si riferisce a una certa destra estrema che sa usare bene le parole. All’inizio degli anni Ottanta, nell’immaginario comune, Larkin era un secchione solitario ma gioviale – calvo, occhialuto, con i lacci da bicicletta ai pantaloni, sepolto in una biblioteca scalcagnata, con un lume a gas a illuminare la semioscurità. A metà degli anni Novanta, invece, vediamo in lui uno Scrooge rimbambito e settario, una sagoma in canottiera, appena visibile tra i fumi dell’alcol, con le sue ossessioni e le sue riviste sporche. La reazione contro Larkin è stata violenta e ipocrita come non mai, tendenziosa e compiaciuta. Tanta energia non trae origine, non può trarre origine, dalla letteratura: nasce invece dall’ideologia, o da piú vaghe sollecitazioni di un nuovo abito mentale. In un certo senso ha poca importanza, perché quello che conta davvero sono le poesie. Ma lo spettacolo tiene viva l’attenzione. Si tratta di una sorta di revisionismo critico ripulito. La reazione, come spesso capita, è stata sopra le righe. Una reazione, per essere sopra le righe, deve essere condivisa da un gran numero di persone. Devono essere in tanti, insomma, a reagire sopra le righe. E infatti eccoli qui: tutti sopra le righe.
C’è chi è convinto che i problemi siano cominciati nel 1981 con la pubblicazione dei Collected Poems. Il curatore di questo volume, Anthony Thwaite, che di Larkin ha curato anche la raccolta delle Selected Letters, decise di non separare le poesie pubblicate da quelle inedite. E cosí, invece dei tre volumi contenenti opere chiaramente compiute – The Less Deceived (1955), The Whitsun Weddings (1964) e High Windows (1974) – con tutta l’altra roba nascosta in fondo, ci ritroviamo con un corpus piú slegato e disordinato, formato da frammenti, pezzetti, lavori sconclusionati e lasciati a metà, poesiucole lascive e bizzarrie confessionali come la spaventosa Love Again [Di nuovo l’amore], tra le ultime da lui scritte:
Love again: wanking at ten past three
(Surely he’s taken her home by now?),
The bedroom hot as a bakery,
The drink gone dead, without showing how
To meet tomorrow, and afterwards,
And the usual pain, like dysentery.
Someone else feeling her breasts and cunt,
Someone else drowned in that lash-wide stare […]1.
Parrebbe che la decisione del curatore abbia avuto come effetto quello di appannare le poesie. Si potrebbe anche sostenere che egli sia andato contro lo spirito di Larkin. Larkin escludeva dalle sue raccolte un sacco di cose di buon livello. La sua opera (come i suoi gusti) era limitata, ma anche cristallizzata; era capace di girare attorno a una poesia per anni, stesura dopo stesura, prima di portarla a compimento oppure decidere di scartarla definitivamente. Comunque, l’uomo Larkin aveva cominciato a dare segni di maggiore stranezza. La pubblicazione dei Collected Poems non lo ha esposto agli attacchi. Ma forse lo ha indebolito.
L’assalto frontale è iniziato nell’autunno del 1992, con la pubblicazione in Inghilterra delle Selected Letters. A guidare la carica c’era Tom Paulin, un (non piú tanto) giovane turco, ben noto nel Regno Unito per la sua opera di critico letterario e poeta, nonché per la verve polemica e le sfuriate sul piccolo schermo. Paulin, nella rubrica delle lettere dei lettori sul «Times Literary Supplement» (e anche in Tv), ha vestito i panni della pubblica accusa. Il capo d’accusa principale era quello di «odio razziale»: «razzismo, misoginia e opinioni parafasciste». Paulin insinuava che Thwaite, il curatore, avesse manipolato le lettere operando dei tagli per eliminare brani ancora piú «violentemente razzisti» di quelli che aveva deciso di lasciare. Paulin chiosava cosí: «Per la nostra epoca, questa antologia risulta sconvolgente e, sotto vari aspetti, disgustosa: rivela e nasconde in modo imperfetto la fogna che scorreva sotto quel monumento nazionale che Larkin era diventato».
Quando ho visto Paulin dare il via alle ostilità in modo tanto impetuoso, ricordo di aver pensato: non avremo mica intenzione di prendere questa china, vero? Ma il nuovo abito mentale era già entrato in vigore, e sí, stavamo proprio prendendo quella china – e le regole del gioco le aveva stabilite Paulin. Il suo modo di esprimersi ha influenzato i toni dell’ultimo assalto con tanto di stoccata finale rappresentata dalla pubblicazione, la scorsa primavera, di Philip Larkin: A Writer’s Life di Andrew Motion. Disgustoso. Fogna: questo modo di esprimersi si basa su fondamenta davvero poco solide. Per esistere ha bisogno di un conflitto di passioni e di poter sperare che la lotta prenda una brutta piega. (Blake Morrison, anch’egli poeta, ha salutato con entusiasmo l’intervento di Paulin, con i suoi richiami scatologici e morbosi, definendolo – udite udite – «balsamico». Cercate un po’ la parola «balsamico» sul vocabolario). E cosí, la pubblicazione della biografia è stata accolta da narici frementi e da un frequente ricorso a fazzoletti profumati, sali ammoniacali e sacchetti per vomitare. In un articolo sul «Times», Peter Ackroyd ha attribuito al «fanatico sboccato» «una grettezza stantia e insidiosa». Sulla stessa lunghezza d’onda, Bryan Appleyard ha visto, o meglio, ha annusato in questa «galleria provinciale del grottesco» una «mascolinità inadeguata, repellente e maleodorante». In un articolo dal simpatico titolo Larkin, quel vecchio amico che non ho mai sopportato, A. N. Wilson ha detto che «Larks» era un «uomo davvero sgradevole, invecchiato prematuramente», «davvero una specie di fascista piccolo-borghese» e «davvero pazzo».
Per capire la portata del dibattito basti sapere che è approdato addirittura sulle pagine solitamente tranquille della rivista della Library Association, accanto a titoli come Nuovo approccio nei confronti delle biblioteche pubbliche da parte del DNH e Taglio ai fondi per il NVQ. In quella sede, un commentatore che si firmava con lo pseudonimo di The Commoner [l’Uomo della strada] paragonava Larkin a David Irving (lo storico che continua a scoprire che l’Olocausto non è mai avvenuto e che, col passare degli anni, per caso o per scelta, assomiglia sempre piú a Hitler). The Commoner, in conclusione, diceva addirittura che i libri di Larkin «andrebbero messi al bando». Certamente i commentatori piú anziani dei giornali piú autorevoli non si sono espressi in modo tanto veemente. Ma si sa che l’offesa subita aguzza l’ingegno, e l’ingegno cerca un modo per reagire. Queste persone non possono mettere al bando – né tanto meno bruciare – i libri di Larkin. Ma possono dare inizio al piú elegante processo di soppressione letteraria. Una terza alternativa può essere quella di inserire Larkin nel nutritissimo gruppo di scrittori di rilievo segretamente animati da idee antidemocratiche (o predemocratiche). Ma questi detrattori sono troppo infervorati per accontentarsi di cosí poco: l’offesa è troppo volgare e immediata. E cosí leggiamo: «un poeta minore con sprazzi di eccellenza assurto immeritatamente al livello di monumento nazionale» (Appleyard); «poeta fondamentalmente minore che, per ragioni squisitamente locali e contingenti, ha goduto di una grossa reputazione» (Ackroyd); «si rivela sempre piú un minore… [Le sue poesie] avranno anche un certo valore – d’accordo – ma, diamine, non sono niente di che» (Wilson).
Alla fine di aprile, quando il polverone seguito all’uscita della biografia cominciava a diradarsi, Andrew Motion, in un articolo apparso nella sua rubrica sull’«Observer», ha fatto una disamina del dibattito in corso. Piú triste e piú saggio – per nulla sconvolto, ma semplicemente deluso –, Motion ha riconosciuto alcune tendenze disdicevoli nella crociata anti-Larkin, e cioè: la mancanza di una contestualizzazione storico-sociale (Larkin, «purtroppo», era un rappresentante abbastanza tipico dei suoi tempi e della sua nazione), l’incapacità di distinguere fra dichiarazioni pubbliche e dichiarazioni private («Cerchiamo di non dimenticare che è del dottor Larkin che stiamo parlando, e non del dottor Goebbels»), «l’evidente sforzo di gente che cerca di districarsi tra le strettoie del politically correct»; e l’ingenua «fusione di vita e arte». Tale fusione, secondo Motion,
si basa sull’assunto che l’arte sia semplicemente un’espressione convulsa della personalità. Talvolta, nei momenti piú puramente lirici, ciò può anche essere vero. Ma piú in generale, l’arte è una forma di soppressione della personalità […] un adattamento, un ingrandimento. È molto triste leggere critici letterari che scrivono come se non capissero che l’arte si colloca a una distanza cruciale dal suo creatore.
Parole che sembrano piene di buon senso, e infatti lo sono. Ma in sottofondo sentiamo anche un fruscio di raggi di bicicletta: perché l’articolo dell’«Observer» è, in realtà, un tour de France in cui si pedala all’indietro. Il libro di Motion, pur senza essere animato da cattive intenzioni, non privo di qualche remora e addirittura di una certa forma di pietà, si macchia di tutti i peccati contro i quali Motion stesso ora punta sardonicamente il dito. Non è tanto una posizione, quanto un atteggiamento, o semplicemente un certo tono. Philip Larkin: A Writer’s Life è un libro incredibilmente esauriente, scritto con grande perizia; è anche un’antologia delle tendenze contemporanee nei confronti di chi è troppo letterale, conformista e portato ad avere attacchi di amnesia. Se in futuro degli storici del gusto volessero studiare le fluttuazioni nei confronti di Larkin, potrebbero consultare esclusivamente questo libro.
Il libro – la vita – trabocca di quell’antica poesia insita nella sciatteria e nella privazione, ma Motion la percepisce a fatica. Nelle lettere di Larkin la cosa piú deprimente e allo stesso tempo eccitante sono quei mucchietti di numeri e lettere nell’angolino in alto a destra: Appartamento 13, 30 Elmwood Avenue, Belfast; 200 Hallgate, Cottingham, East Yorkshire; 192A Hallgate, Cottingham, Yorks; 172 London Road, Leicestershire («Mi sono stabilito in una soffitta con una minuscola finestra, un letto, una poltrona, una sedia di vimini, un tappeto, una lampada da tavolo CHE NON FUNZIONA, una stufetta elettrica CHE NON FUNZIONA e qualche libro»); Glenworth, Kings St, Wellington, Salop. Anche le mete delle sue vacanze appaiono tutt’altro che amene. Per esempio, Dixcart Hotel, Sark. Questi toponimi, decisamente, non aiutano. «Ti invidio quel viaggio che hai fatto a Sledmere», scrive a un intrepido conoscente. La madre della sua fidanzata ha un fatale attacco cardiaco «nella sua casa di Stourport-on-Severn». E guardate poi con quanto entusiasmo Larkin si prepara per le vacanze estive:
Le mie vacanze mi si profilano davanti come una spaventosa corsa a ostacoli: Mallaig-Weymouth, senza vagone letto (probabilmente) e senza posti prenotati: a quanto pare è possibile prenotare i posti solo nei giorni in cui se ne troverebbero comunque di liberi. Per il 25 luglio e il 1° agosto – i due giorni piú movimentati dell’anno – non si può prenotare. E QUESTI SONO I DUE GIORNI IN CUI VIAGGIO IO.
Un indirizzo importante è 73 Coten End, Warwick. Si tratta della casa che ospitava i genitori di Larkin, Sidney ed Eva. Motion, con tratti discreti e convincenti, descrive il senso di asfissia e costrizione che regnava in quell’atmosfera domestica. Non si sofferma piú di tanto su alcune succose scoperte sulle simpatie filotedesche – diciamo pure filonaziste – di Sidney Larkin. Parrebbe che Sidney, negli anni Trenta, avesse preso parte a piú di un raduno di Norimberga; teneva sulla mensola del camino un’assurda statuetta meccanica di Hitler «che, schiacciando un pulsante, alzava di scatto il braccio in un saluto nazista». Anche per un nazista, un aggeggio del genere è un tantino troppo kitsch e ridicolo. Il vecchio Sidney, tesoriere comunale, pare proprio un tipico eccentrico della provincia inglese prebellica; un tiranno dell’umore che stabiliva il barometro emotivo di tutti quelli che lo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. La guerra contro i cliché
  3. Prefazione
  4. La guerra contro i cliché. Ulisse di James Joyce
  5. In visita dalla signora Nabokov
  6. Lezioni. Lezioni di letteratura di Vladimir Nabokov
  7. Il grande slam di Nabokov. Lolita di Vladimir Nabokov
  8. Saul Bellow a Chicago
  9. L’aquila americana. Le avventure di Augie March di Saul Bellow
  10. Philip Larkin, 1922-1985
  11. Don Giovanni a Hull
  12. Mailer: il Vendicatore e la Troia
  13. Crash di J. G. Ballard
  14. J. G. Ballard
  15. Dallo spazio siderale allo spazio interiore
  16. John Updike
  17. Odd Jobs: Essays and Criticism di John Updike
  18. Truman Capote: conoscere tutti
  19. Anthony Burgess
  20. William Burroughs: i pezzi brutti
  21. Philip Roth: l’insoddisfazione
  22. La controvita di Philip Roth
  23. Il teatro di Sabbath di Philip Roth
  24. L’India di V. S. Naipaul
  25. I poteri di DeLillo. Mao II di Don DeLillo
  26. Underworld di Don DeLillo
  27. Salman Rushdie
  28. Il libro
  29. L’autore
  30. Dello stesso autore
  31. Copyright