L'ordine del discorso
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L'ordine del discorso

e altri interventi

  1. 112 pagine
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L'ordine del discorso

e altri interventi

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L'ordine del discorso è il testo della lezione inaugurale di Michel Foucault al Collège de France, e costituisce ancor oggi, pur nella sua brevità, un documento di grande importanza per comprendere l'inflessione che il cantiere foucaultiano avrebbe conosciuto a partire dagli anni settanta. In esso, infatti, l'autore pone al centro delle proprie preoccupazioni teoriche, per la prima volta in maniera esplicita, la questione dei rapporti tra discorso, verità e potere, delineando il progetto critico e genealogico che avrebbe sviluppato e approfondito negli anni successivi.
Ne L'ordine del discorso Foucault analizza in particolare le varie forme in cui in ogni società la produzione del discorso è al tempo stesso controllata e selezionata, in modo da scongiurarne i poteri e i pericoli, e poterlo cosí padroneggiare. Questione piú che mai di drammatica attualità.
Alla riedizione del testo si è aggiunta la plaquette di candidatura al Collège de France, intitolata Titoli e lavori, nella quale Foucault offre una illuminante sintesi di tutte le sue ricerche anteriori, illustrando il cammino percorso fino ad allora, e delineando alcuni dei problemi e dei campi che avrebbero dovuto essere oggetto delle sue indagini e del suo insegnamento negli anni a venire.
A completare il dossier relativo agli esordi dell'avventura foucaultiana, i due interventi con i quali Jules Vuillemin sosterrà la candidatura di Foucault alla prestigiosa istituzione.
Nella Postfazione che chiude il volume, infine, Mauro Bertani rievoca alcuni dei temi e dei problemi affrontati da Foucault nel corso dei tredici anni di ricerche febbrili e di insegnamento instancabile, fino a poco prima della morte, al Collège de France.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858415443

MICHEL FOUCAULT

L’ORDINE DEL DISCORSO

E ALTRI INTERVENTI

Nuova edizione

Einaudi
L’ordine del discorso è il testo della lezione inaugurale al Collège de France, letta il 2 dicembre 1970. Per ragioni d’orario, alcuni passaggi erano stati ridotti e modificati nella lettura. Qui sono stati ripresi.
Nel discorso che devo oggi tenere, e in quelli che mi occorrerà tenere qui, forse per anni, avrei voluto poter insinuarmi surrettiziamente. Piú che prendere la parola, avrei voluto esserne avvolto, e portato ben oltre ogni inizio possibile. Mi sarebbe piaciuto accorgermi che al momento di parlare una voce senza nome mi precedeva da tempo: mi sarebbe allora bastato concatenare, proseguire la frase, ripormi, senza che vi si prestasse attenzione, nei suoi interstizi, come se mi avesse fatto segno, restando, per un attimo, sospesa. Inizi, non ce ne sarebbero dunque; e invece d’essere colui donde viene il discorso, secondo il capriccio del suo svolgimento, sarei piuttosto una sottile lacuna, il punto della sua scomparsa possibile.
Mi sarebbe piaciuto che dietro a me ci fosse (avendo preso la parola da un pezzo, superando in anticipo tutto quel che sto per dire) una voce che parlasse cosí: «Bisogna continuare, non posso continuare, bisogna dire parole sinché ce ne sono, bisogna dirle sinché mi trovino, sinché mi dicano – strana pena, strana colpa, bisogna continuare, è forse già cosa fatta, mi hanno forse già detto, mi hanno forse portato sino alle soglie della mia storia, dinnanzi alla porta che s’apre sulla mia storia, mi stupirei si aprisse, questa porta».
C’è in molti, penso, un simile desiderio di non dover cominciare, un simile desiderio di ritrovarsi, d’acchito, dall’altra parte del discorso, senza aver dovuto considerare dall’esterno ciò che esso poteva avere di singolare, di temibile, di malefico forse. A questo augurio cosí comune, l’istituzione risponde sull’ironico, perché essa rende solenni gli esordii, perché li attornia d’un cerchio di attenzione e di silenzio, e impone loro, per segnalarli da piú lontano, forme ritualizzate.
Il desiderio dice: «Non vorrei dover io stesso entrare in quest’ordine fortuito del discorso; non vorrei aver a che fare con esso in ciò che ha di tagliente e di decisivo; vorrei che fosse tutt’intorno a me come una trasparenza calma, profonda, indefinitamente aperta, in cui gli altri rispondessero alla mia attesa e in cui le verità, ad una ad una, si alzassero; non avrei che da lasciarmi portare, in esso e con esso, come un relitto felice». E l’istituzione risponde: «Non devi aver timore di cominciare; siamo tutti qui per mostrarti che il discorso è nell’ordine delle leggi; che da tempo si vigila sulla sua apparizione; che un posto gli è stato fatto, che lo onora ma lo disarma; e che, se gli capita d’avere un qualche potere, lo detiene in grazia nostra, e nostra soltanto».
Ma forse quest’istituzione e questo desiderio non sono altro che due risposte opposte ad una stessa inquietudine: inquietudine nei confronti di ciò che il discorso è nella sua materiale realtà di cosa pronunciata o scritta; inquietudine nei confronti di quest’esistenza transitoria, destinata magari a cancellarsi, ma secondo una durata che non ci appartiene; inquietudine nell’avvertire dietro a questa attività, pur quotidiana e grigia, poteri e pericoli che si immaginano a stento; inquietudine nel sospettare lotte, vittorie, ferite, dominazioni, servitú attraverso tante parole, di cui l’uso ha ridotto da sí gran tempo le asperità.
Ma che c’è dunque di tanto pericoloso nel fatto che la gente parla e che i suoi discorsi proliferano indefinitamente? Dov’è dunque il pericolo?
Ecco l’ipotesi che vorrei avanzare questa sera, per fissare il luogo – o forse il molto provvisorio teatro – del lavoro che faccio: suppongo che in ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità.
In una società come la nostra si conoscono, naturalmente, le procedure d’esclusione. La piú evidente, ed anche la piú familiare, è quella dell’interdetto. Si sa bene che non si ha il diritto di dir tutto, che non si può parlare di tutto in qualsiasi circostanza, che chiunque, insomma, non può parlare di qualunque cosa. Tabú dell’oggetto, rituale della circostanza, diritto privilegiato o esclusivo del soggetto che parla: si ha qui il gioco di tre tipi d’interdetto che si incrociano, si rafforzano o si compensano, formando un reticolo complesso che non cessa di modificarsi. Noterò solo che, ai nostri giorni, le regioni in cui il reticolo è piú fitto, in cui si moltiplicano le caselle nere, sono le regioni della sessualità e della politica: come se il discorso, lungi dall’essere l’elemento trasparente o neutro nel quale la sessualità si placa e la politica si pacifica, fosse uno dei siti in cui esse esercitano, in modo privilegiato, alcuni dei loro piú temibili poteri. Il discorso, in apparenza, ha un bell’essere poca cosa, gli interdetti che lo colpiscono rivelano ben tosto, e assai rapidamente, il suo legame col desiderio e col potere. E non vi è nulla di sorprendente in tutto questo: poiché il discorso – la psicanalisi ce l’ha mostrato – non è semplicemente ciò che manifesta (o nasconde) il desiderio; e poiché – questo, la storia non cessa di insegnarcelo – il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi.
Esiste, nella nostra società, un altro principio d’esclusione: non piú un interdetto, ma una partizione (partage) e un rigetto. Penso alla opposizione tra ragione e follia. Dal profondo del Medioevo il folle è colui il cui discorso non può circolare come quello degli altri: capita che la sua parola sia considerata come nulla e senza effetto, non avendo né verità né importanza, non potendo far fede in giustizia, non potendo autenticare un atto o un contratto, non potendo nemmeno, nel sacrificio della messa, permettere la transustanziazione e fare del pane un corpo; capita anche, in compenso, che le si attribuiscano, all’opposto di ogni altra parola, strani poteri, quello di dire una verità nascosta, quello di annunciare l’avvenire, quello di vedere del tutto ingenuamente quel che la saggezza degli altri non può scorgere. È curioso constatare che per secoli in Europa la parola del folle o non era intesa, oppure, se lo era, veniva ascoltata come una parola di verità. O cadeva nel nulla – rigettata non appena proferita; oppure vi si decifrava una ragione ingenua o scaltrita, una ragione piú ragionevole di quella della gente ragionevole. In ogni modo, esclusa o segretamente investita dalla ragione, in senso stretto essa non esisteva. La follia del folle si riconosceva attraverso le sue parole; esse erano il luogo in cui si compiva la partizione; ma non erano mai accolte né ascoltate. Mai, prima della fine del XVIII secolo, un medico aveva avuto l’idea di sapere ciò che era detto (come era detto, perché era detto), in questa parola che pur tuttavia stabiliva la differenza. Tutto l’immenso discorso del folle si risolveva in rumore; e la parola non gli era data che simbolicamente, sul teatro in cui si faceva avanti, disarmato e riconciliato, poiché vi sosteneva la parte della verità colla maschera.
Mi si dirà che tutto questo è finito, oggi, o che sta per aver fine; che la parola del folle non è piú dall’altra parte della separazione; che non è piú resa nulla e senza effetto; che al contrario ci mette in agguato; che vi cerchiamo un senso, o l’abbozzo o le rovine di un’opera; e che siamo riusciti a sorprenderla, questa parola del folle, in ciò che noi stessi articoliamo, nel minuscolo strappo attraverso cui quel che diciamo ci sfugge. Ma tanta attenzione non prova che la vecchia partizione non sia piú valida; basta riflettere a tutta la armatura del sapere attraverso cui decifriamo questa parola; basta pensare a tutta la rete di istituzioni che consente a qualcuno – medico, psicanalista – di ascoltare questa parola e che consente nello stesso tempo al paziente, di venir a portare, o a trattenere disperatamente, le sue povere parole; basta riflettere a tutto questo per sospettare che la partizione, lungi dall’essere cancellata, agisce altrimenti, secondo linee diverse, attraverso nuove istituzioni, e con effetti che non sono affatto gli stessi. E quand’anche il ruolo del medico non fosse che quello di prestare orecchio a una parola finalmente libera, l’ascolto si esercita pur sempre nel mantenimento di una cesura. Ascolto di un discorso che è investito dal desiderio, e che si crede, per la sua piú grande esaltazione e la sua piú grande angoscia, carico di terribili poteri. Se occorre veramente il silenzio della ragione per guarire i mostri, basta che il silenzio sia in allarme, ed ecco la partizione mantenuta.
È forse arrischiato considerare l’opposizione del vero e del falso come un terzo sistema d’esclusione, accanto a quelli di cui ho parlato. Come si potrebbe ragionevolmente paragonare la costrizione della verità con partizioni come quelle, partizioni che sono arbitrarie in partenza o che comunque si organizzano attorno a contingenze storiche; che sono non solo modificabili, ma in continuo spostamento; che sono sorrette da tutto un sistema di istituzioni che le impongono o le riconfermano; che non si esercitano infine senza costrizione, o senza almeno una parte di violenza.
Certo, se ci si situa a livello di una proposizione, all’interno di un discorso, la partizione tra il vero e il falso non è né arbitraria, né modificabile, né istituzionale, né violenta. Ma se ci si situa su altra scala, se ci si pone la questione di sapere quale è stata, qual è costantemente, attraverso i nostri discorsi, questa volontà di verità che ha attraversato tanti secoli della nostra storia, o qual è, nella sua forma generalissima, il tipo di partizione che regge la nostra volontà di sapere, allora vediamo profilarsi qualcosa come un sistema d’esclusione (sistema storico, modificabile, istituzionalmente costrittivo).
Partizione storicamente costituita, senz’altro. Poiché, già nei poeti greci del VI secolo, il discorso vero – nel senso forte e valorizzato del termine – il discorso vero per cui si aveva rispetto e terrore, quello al quale bisognava pur sottomettersi, perché regnava, era il discorso pronunciato da chi di diritto, e secondo il rituale richiesto; era il discorso che diceva la giustizia e attribuiva a ciascuno la sua parte; era il discorso che, profetizzando il futuro, non solo annunziava quel che stava per accadere, ma contribuiva alla sua realizzazione, comportava l’adesione degli uomini e si tramava cosí col destino. Ed ecco che un secolo piú tardi la piú alta verità non risiedeva piú ormai in quel che il discorso era o in quel che faceva, bensí in quel che diceva: un giorno è venuto in cui la verità si è spostata dall’atto ritualizzato, efficace e giusto, d’enunciazione, verso l’enunciato stesso: verso il suo senso, la sua forma, il suo oggetto, il rapporto colla sua referenza. Tra Esiodo e Platone si è stabilita una certa partizione, che ha separato il discorso vero e il discorso falso; partizione nuova perché ormai il discorso vero non è piú il discorso prezioso e desiderabile, poiché non è piú il discorso legato al potere. Il sofista è cacciato.
Questa partizione storica ha senza dubbio dato la forma generale che le è propria alla nostra volontà di sapere. Ma non ha per questo cessato di spostarsi: le grandi mutazioni scientifiche possono forse essere lette talora come le conseguenze di una scoperta, ma possono anche essere lette come l’apparizione di nuove forme nella volontà di verità. C’è senza dubbio una volontà di verità, nel XIX secolo, che non coincide, né per le forme messe in gioco, né per i campi d’oggetti cui si rivolge, né per le tecniche su cui poggia, con la volontà di sapere che caratterizza la cultura classica. Risaliamo un po’ indietro: tra il XVI e il XVII secolo (e soprattutto in Inghilterra) è apparsa una volontà di sapere che, anticipando i contenuti attuali, disegnava piani d’oggetti possibili, misurabili, catalogabili; una volontà di sapere che imponeva al soggetto conoscente (e in certo modo prima di ogni esperienza), una certa posizione, un certo sguardo e una certa funzione (vedere piú che leggere, verificare piú che commentare); una volontà di sapere che prescriveva (e con modalità piú generali di ogni strumento determinato) a che livello tecnico le conoscenze tecniche avrebbero dovuto investirsi per essere verificabili ed utili. È come se, a partire dalla grande partizione platonica, la volontà di sapere avesse la sua propria storia, che non è quella delle verità costrittive: storia dei piani d’oggetti da conoscere, storia delle funzioni e posizioni del soggetto conoscente, storia degli investimenti materiali, tecnici, strumentali della conoscenza.
Ora, questa volontà di verità, come gli altri sistemi d’esclusione, poggia su di un supporto istituzionale: essa è rinforzata, e riconfermata insieme, da tutto uno spessore di pratiche come la pedagogia, certo, come il sistema dei libri, dell’editoria, delle biblioteche, come i circoli eruditi una volta, i laboratori oggi. Ma essa è anche riconfermata, senza dubbio piú profondamente, dal modo in cui il sapere è messo in opera in una società, dal modo in cui è valorizzato, distribuito, ripartito, e in certo qual modo attribuito. Ricordiamo qui, a titolo puramente simbolico, il vecchio principio greco: l’aritmetica può ben riguardare le città democratiche, poiché insegna i rapporti d’eguaglianza, ma solo la geometria deve essere insegnata nelle oligarchie, poiché essa dimostra le proporzioni nell’ineguaglianza.
Credo insomma che questa volontà di verità, cosí sorretta da un supporto e da una distribuzione istituzionali, tenda ad esercitare sugli altri discorsi – parlo sempre della nostra società – una sorta di pressione e quasi un potere di costrizione. Penso anche al modo in cui la letteratura occidentale ha dovuto da secoli cercar sostegno sul naturale, sul verosimile, sulla sincerità, persino sulla scienza, in breve sul discorso vero. Penso inoltre al modo in cui le pratiche economiche, codificate come precetti o ricette, al caso come morale, hanno dal XVI secolo cercato di fondarsi, di razionalizzarsi e di giustificarsi su una teoria delle ricchezze e della produzione; penso inoltre al modo in cui un insieme prescrittivo come il sistema penale ha cercato le sue basi o la sua giustificazione, dapprima naturalmente in una teoria del diritto, poi, a partire dal XIX secolo, in un sapere sociologico, psicologico, medico, psichiatrico: come se la parola stessa della legge non potesse piú essere autorizzata, nella nostra società, se non da un discorso della verità.
Dei tre grandi sistemi d’esclusione che colpiscono il discorso, la parola interdetta, la partizione della follia e la volontà di verità, è del terzo che ho parlato piú a lungo.
Verso di esso, infatti, da secoli, han continuato ad esser sospinti i primi; sempre piú, infatti, esso cerca di prenderli su di sé, per modificarli e fondarli ad un tempo; se i primi due, infine, non cessano di diventare piú fragili, piú incerti nella misura in cui vengono ora attraversati dalla volontà di verità, questa non cessa in compenso di rafforzarsi, di diventare piú profonda ed inaggirabile.
E tuttavia, è di essa che si parla meno. Come se per noi la volontà di verità e le sue peripezie fossero mascherate dalla verità stessa nel suo necessario svolgimento. E la ragione è forse questa: se il discorso vero non è piú, in effetti, dai greci, quello che risponde al desiderio o quello che esercita il potere, che cos’è dunque in gioco, nella volontà di verità, nella volontà di dirlo, questo discorso vero, se non il desiderio e il potere? Il discorso vero, che la necessità della sua forma affranca dal desiderio e libera dal potere, non può riconoscere le volontà di verità che lo attraversa; e la volontà di verità, quella che si è imposta a noi da moltissimo tempo, è siffatta che la verità ch’essa vuole non può non mascherarla.
Cosí, non ci appare allo sguardo se non una verità che è ricchezza, fecondità, forza dolce ed insidiosamente universale. E ignoriamo in compenso la volontà di verità, come prodigioso macchinario destinato ad escludere. Tutti coloro che, puntualmente nella nostra storia, hanno cercato di aggirare questa volontà di verità e di rimetterla in questione contro la verità, proprio là dove la verità si dà a giustificare l’interdetto e a definire la follia, tutti costoro, da Nietzsche ad Artaud a Bataille, devono servirci da segni, senza dubbio altieri, per il lavoro di ogni giorno.
Esistono evidentemente altre procedure di controllo e di delimitazione del discorso. Quelle di cui ho finora parlato si esercitano in certo qual modo dall’esterno; esse funzionano come sistemi d’esclusione; esse concernono senza dubbio la parte del discorso che mette in gioco il potere e il desiderio.
Si può, credo, isolarne un altro gruppo. Procedure interne, poiché sono i discorsi stessi che esercitano il loro proprio controllo; procedure che fungono piuttosto da principî di classificazione, d’ordinamento, di distribuzione, come se si trattasse questa volta di padroneggiare un’altra dimensione del discorso: quella dell’evento (événement) e del caso.
Al primo posto, il commento. Suppongo, senza per altro esserne certissimo, che non ci siano molte società in cui non esistono narrazioni salienti che si raccontano, si ripetono, si fanno variare; formule, testi, insiemi ritualizzati di discorsi che si recitano, secondo circostanze ben determinate; cose dette una volta e che si conservano, perché vi si presagisce qualcosa come un segreto o una ricchezza. In breve, si può avere il sospetto che ci sia, assai regolarmente nelle società, una sorta di dislivello tra i discorsi: i discorsi che «si dicono» col trascorrer dei giorni e cogli scambi, e che passano con l’atto stesso che li ha pronunciati; e i discorsi che sono all’origine di un certo numero di atti nuovi, di parole che li riprendono, li trasformano o parlano d’essi; insomma, i discorsi che, indefinitamente, al di là della loro formulazione, sono detti, restano detti, e sono ancora da dire. Questi discorsi, nel nostro sistema di cultura, li conosciamo: sono i testi religiosi o giuridici; sono inoltre quei testi curiosi, quando si consideri il loro statuto, che si definiscono «letterari»; in certa misura, certi testi scientifici.
È certo che questa sfasatura non è né stabile, né costante, né assoluta. Non vi è, da una parte, la categoria, data una volta per tutte, dei discorsi fondamentali o creatori; e poi, dall’altra, la congerie di quelli che ripetono, chiosano e commentano. Non pochi testi salienti si confondono e scompaiono, e talora dei commenti vengono ad occupare il posto primitivo. Ma i punti d’applicazione hanno un bel cambiare, la funzione resta; e il principio d’una sfasatura si trova senza posa rimesso in gioco. Il radicale annullamento di questo dislivello non può mai essere che gioco, utopia o angoscia. Gioco alla Borges di un commento che non sarà altro che la ricomparsa parola per parola (ma questa volta solenne e attesa) di ciò che commenta; gioco ancora di una critica che parlasse all’infinito di un’opera che non esiste.
Sogno lirico d’un discorso che rinasce in ciascuno dei suoi punti assolutamente nuovo e innocente, e che riappare senza tregua, con piena freschezza, a partire dalle cose, dai sentimenti o dai pensieri. Angoscia di quel malato di Janet per il quale il minimo enunciato era come «parola del Vangelo», nascondendo inesauribili tesori di senso e meritando d’essere indefinitamente ripreso...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'ordine del discorso
  3. Appendici
  4. Titoli e lavori
  5. Relazione prima
  6. Relazione seconda
  7. Postfazione di Mauro Bertani
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright