Aspettando l'imperatore
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Aspettando l'imperatore

Principi italiani tra il papa e Carlo V

  1. 296 pagine
  2. Italian
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Principi italiani tra il papa e Carlo V

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Questo libro ricostruisce in modo nuovo un momento cruciale della storia italiana tracciando il quadro delle aspettative e delle speranze con le quali principi ed esponenti dei ceti dirigenti della penisola guardarono all'imperatore. Elena Bonora prende in considerazione i disegni elaborati dagli uomini di Carlo V in Italia e da gruppi di potere filoimperiali seguendo da vicino corrispondenze inedite e preziose di cardinali e principi. L'obiettivo è portare in primo piano un'«Italia dell¿imperatore» - tenacemente e assolutamente opposta all'«Italia del papa» - sinora poco studiata nella sua fisionomia complessiva e nel peso politico che rivestí durante gli anni trenta e quaranta del Cinquecento, in un quadro reso sempre piú instabile e incerto dall'aggravarsi del conflitto tra Carlo V e il papa Paolo III.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858417065
Argomento
Storia

Capitolo undicesimo

L’arma delle scritture

1. La sfera della comunicazione.
Lo scontro tra papa e imperatore si sviluppò non solo per mezzo degli eserciti, dei canali diplomatici ufficiali e delle trattative appartate, ma ebbe una dimensione comunicativa di grande rilievo. Paolo III e Carlo V erano ambedue consapevoli del fatto che la «reputazione», nella società europea di quegli anni, era un elemento costitutivo del potere con il quale si governavano gli stati. E che, di fronte alla respublica christiana lacerata, la posizione di volta in volta assunta relativamente alla convocazione conciliare, e quindi alla riforma della Chiesa, rappresentava un tassello essenziale di quella «reputazione».
Per chiarire questa affermazione, basterà un esempio. Nel 1543, il concilio si avviava a essere chiuso e prorogato ancor prima di cominciare per il rinnovarsi della guerra tra Carlo V e Francesco I, ma nel commentare quanto stava accadendo, il Giovio si divertiva soprattutto a smascherare, con il solito cinismo, le preoccupazioni che erano state all’origine della sua convocazione. Preoccupazioni legate all’immagine di sé di fronte al mondo, in altre parole alla «reputazione», dal momento che, in quella congiuntura, per Paolo III non era importante che il concilio si facesse, ma aver dimostrato di volerlo fare: «Noi mo’ al principio di giugno, serraremo il nostro aperto concilio, e faremo una bolla, ad perpetuam rei memoriam, protestando che per nos non stetit; e malediremo la ladra discordia, e interdiremo il Turco e il Barbarossa, e attenderemo a vivere piú risoluti e cauti e securi che potremo»1. Era, dopotutto, il medesimo orizzonte mentale del cardinale Ercole Gonzaga quando esortava Carlo V a evitare – con iniziative troppo radicali quali la convocazione di un concilio in Germania – di compromettere la sua «reputazione di imperatore cattolico», e gli ricordava il valore politico di quella «reputazione», «cosí appresso alla Spagna, colla quale val molto l’opinione della religione, come con tutto el resto della christianità»2.
«Reputazione», «opinione»: erano termini diffusi nel linguaggio politico dell’epoca, che presupponevano l’esistenza di una dimensione pubblica con cui i potenti dovevano fare i conti. Pertanto, se è vero, come sosterrà Giovanni Botero, che «la riputazione non è nel riputato ma nel riputante»3, chi era all’epoca il «riputante»?
Lo sviluppo delle reti diplomatiche e cortigiane, nonché la diffusione dell’industria della stampa, avevano impresso accelerazioni prima sconosciute alla propaganda politica. Occorre però mettere in chiaro che il concetto stesso di «propaganda politica» (come quello di «opinione pubblica») appare oggi agli storici inadeguato per descrivere questi fenomeni. Anzitutto, non è di un rapporto a senso unico, dall’alto verso il basso, che stiamo parlando. In secondo luogo, non era ai confini delle corti e delle aule del potere che si arrestavano le preoccupazioni dei principi per la propria «reputazione». La costruzione (o la distruzione) della «reputazione» di un potente rinviava infatti a una sfera della comunicazione che appare oggi piú larga e complessa di quanto si pensasse in passato; a una società urbana attraversata da pratiche dell’oralità e della scrittura i cui snodi erano la piazza, la strada, la bottega, tutti i luoghi insomma della sociabilità urbana d’antico regime.
Di conseguenza, le interazioni tra governanti e governati non erano né univoche, né lineari, ma attraversavano in tutte le direzioni una sfera della comunicazione densa e reattiva, che solo in parte i potenti potevano controllare4. Al vescovo Pietro Bertano che gli mandava notizie dal concilio di Trento raccomandandogli riservatezza, il cardinale Ercole Gonzaga rispondeva, con elegante gusto del paradosso: «Gli avisi che mi deste con tanta riserva si sapevano qui per le piazze di tre giorni avanti, onde s’io havessi voluto che fossino stati secreti conveniva far publicar un bando che non se ne parlasse»5. Si è già avuto modo di accennare allo scambio di notizie tra le corti di Mantova e Ferrara, e poi di Firenze, nonché alla diffusione di avvisi provenienti da Roma e dal concilio (come quelli del Bertano), a loro volta rielaborati e trasmessi al di qua e al di là delle Alpi dalla corte mantovana, che era un attivissimo centro di raccolta e redistribuzione di questo materiale. Talvolta gli avvisi erano selettivamente filtrati dalle corti di Ferrara e di Mantova in accordo tra loro, e di lí inviati rispettivamente alla corte francese e a quella asburgica. Oppure poteva accadere che l’imperiale Ercole Gonzaga si avvalesse di canali indiretti e segreti per far arrivare al re di Francia informazioni utili a condizionarne l’intervento tra i piccoli stati di Lombardia6. Ma anche il cardinal Gonzaga, come altri principi italiani, era conscio che questa massa di informazioni sfuggiva al suo controllo, e poteva trasformarsi rapidamente in parole che si pronunciavano nelle piazze di Mantova.
Negli ultimi anni, gli storici hanno messo in luce la vitalità della circolazione manoscritta a fianco di quella a stampa, nonché le reciproche influenze tra queste forme della comunicazione scritta e l’oralità. Ad alimentare tali fenomeni erano la produzione e il consumo di materiali eterogenei (avvisi, lettere, pasquinate, cartelli, opuscoli) che passavano di mano in mano trascritti, copiati, stampati, oppure imparati a memoria, recitati e cantati, ma comunque diffusi, variamente usati e, a ogni passaggio, modificati.
Non sempre pratiche come queste avevano valenze e finalità politiche. Non l’avevano, ad esempio, i cartelli che nel 1520 il marchese Federico II Gonzaga aveva fatto affiggere nelle «cità di Lombardia», in vista del carnevale a Mantova, per invitare «ogni gentilhuomo» a prender parte alle corse dei carri e ai tornei «per amor di dama»7. Ciò che tuttavia interessa qui, è la circolazione di materiali che nutrivano la pratica infamante nei confronti dei potenti. Anche per mezzo di composizioni di questo tipo, ispirate a un’antica tradizione, si svolgeva la lotta politica nel Cinquecento italiano. Ed è, infatti, lungo questo crinale che incontriamo gli esponenti dell’Italia imperiale – il cardinale di Ravenna, il cardinal Gonzaga, Diego Hurtado de Mendoza – nella veste di consumatori e produttori.
Nell’ultimo anno del pontificato di Paolo III, in vista della morte dell’anziano papa, questa produzione divenne piú che mai strumento degli scontri di potere per condizionare gli esiti del futuro conclave. Accuse infamanti contro l’uno o l’altro dei candidati furono «pubblicate» a Roma e «in diversi luoghi d’Italia»; e qui il termine «pubblicare» non riguarda solo la produzione tipografica, ma l’ampia circolazione di scritture non necessariamente a stampa8. La corrispondenza tra il cardinal Gonzaga e il cardinale di Ravenna è però ricca di riferimenti a pasquinate e a libelli famosi sin dagli anni trenta, quando la lotta politica non si è ancora trasformata in competizione accanita per il papato9. Nel 1538, da Ferrara, l’Accolti inviava a Mantova l’ultima composizione di «Pasquino quinto evangelista» appena giunta da Roma, invitando il cardinal Gonzaga «che non si sdegni di leggerla, perché penso n’harà piacere», ma raccomandandogli anche di «rimandarmela indietro o mandarmene la copia, perché desidero poterla rivedere et inoltre farla vedere al ciclope [il cardinal Salviati] et al signor duca nostro [Ercole II d’Este]»10.
«Et ne mandi mille copie in Italia per farla ben conoscere», auspicava nello stesso anno il vescovo di Pavia Giovangirolamo de’ Rossi, riguardo a una lettera infamante contro Ricciarda Malaspina marchesa di Massa che il vescovo Giovan Battista Cibo suo cognato, costretto allora a riparare in Francia a causa di quella «baldracc[a] archibuser[a]», voleva far stampare11. Qualche tempo dopo, per mezzo del cardinale di Ravenna, la pasquinata circolava sotto il nome di Lorenzo Cibo, marito della marchesa e anch’egli sua vittima. Veniva cosí inviata per tramite dell’Accolti alla corte imperiale, dopo che il cardinale ne aveva fatta una sintesi all’amico Ercole Gonzaga12. Sempre nel 1538, da Roma, un corrispondente del Gonzaga riferiva al cardinale che «in librerie stampati in volgare e latino» circolavano scritti sul «sanguinolento fatto d’armi di Pier Luigi col vescovo di Fano», cioè sulla violenza sessuale perpetrata l’anno precedente dal figlio del papa sul giovane vescovo di Fano Cosimo Gheri, la cui morte veniva collegata all’orrore per lo stupro subito13.
Di materiali come questi, si poteva essere al tempo stesso consumatori e produttori. E cosí, l’anno successivo, il cardinale di Mantova tornava sull’argomento per incitare il cardinale Accolti a farsi «tanto feroce, che a colpi di buone pincate possa fare le vendette del vescovo di Fano nelle tenere carni fregnesine», con evidente riferimento a vendette da farsi a colpi di penna: una penna che non doveva temere l’oscenità, dato che per «pincate» si intendevano i colpi dati con il membro virile14.
2. Altri scritti.
Non sappiamo se e come il cardinale di Ravenna avesse poi contribuito fattivamente all’ondata di pasquinate e sonetti feroci contro Pier Luigi Farnese che circolavano in quegli anni. È certo invece che il Gonzaga e l’Accolti diedero il loro apporto alla trasmissione manoscritta di un’opera del Gheri che nulla aveva a che fare con la pratica infamante, ma che tuttavia poteva assumere valenze politiche a causa dell’identità del suo autore, ormai icona del martir...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Aspettando l'imperatore
  3. Elenco delle abbreviazioni
  4. Aspettando l’imperatore
  5. Introduzione
  6. I. Il cardinale di Ravenna Benedetto Accolti (1497-1549)
  7. II. La rovina del cardinale di Ravenna (1535)
  8. III. Gli anni trenta e l’esilio alla corte di Ferrara
  9. IV. Dalla Venezia di Diego Hurtado de Mendoza (1541) alla corte di Cosimo de’ Medici (1543)
  10. V. Dagli intrighi italiani alla corte imperiale
  11. VI. Guerre d’Italia e progetti d’invasione dello stato della Chiesa
  12. VII. Élite italiane tra papa e imperatore
  13. VIII. Ercole Gonzaga
  14. IX. «Todos los tumultos de Italia»
  15. X. L’Italia dell’imperatore
  16. XI. L’arma delle scritture
  17. XII. Il conclave del 1549
  18. Elenco dei nomi
  19. Il libro
  20. L’autore
  21. Copyright