Il mestiere di uomo
eBook - ePub

Il mestiere di uomo

  1. 160 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Il mestiere di uomo

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

«La mia è una vita lunga, che inizia nel 1925, l'epoca del delitto Matteotti. Una vita in cui ogni giorno, da quando sono sopravvissuto allo scoppio di una mina, mi chiedo perché e per che cosa sono vivo. O, per dirla con Marco Aurelio, qual è il mio mestiere di uomo». Ci sono confini dell'esistenza, e del pensiero, che l'uomo tocca e inizia a conoscere, prima di scegliere la via da percorrere. Si può decidere di attraversarli, per passare oltre, o di accettarli, per sentirli propri. Nella sua vita, Umberto Veronesi ha attraversato tanti di questi confini. Li ha indagati nella sua lunga esperienza di medico, li ha studiati come scienziato, ma soprattutto li ha scandagliati con curiosità di uomo. Non si è mai tirato indietro di fronte a interrogativi grandi o piccoli, ponendosi sempre altre domande, spesso le piú difficili, senza mai accontentarsi di una prima, magari piú semplice, risposta. Molte sono le lotte di pensiero nate da questa esperienza, numerosi gli argomenti coinvolti: il tramonto della fede, l'inutilità del dolore, la libertà e il diritto di autodeterminazione (dal testamento biologico all'eutanasia) e di procreazione (la fecondazione assistita, la pillola RU e gli anticoncezionali), la liberalizzazione delle droghe, la ricerca di una giustizia senza vendetta (dall'impegno contro la pena di morte alla riflessione sull'ergastolo), l'amore universale, i diritti degli animali, il vegetarianesimo, il consumo sostenibile e lo sradicamento di ogni forma di superstizione. E molte, moltissime, sono le storie e le persone che sono questi temi. Attraverso don Giovanni, il curato di campagna di cui Veronesi era il piú affezionato chierichetto, o l'uomo ombra che gli scrive dal carcere lunghe lettere filosofiche, o Mina e Piergiorgio Welby, o la prima Nazionale senza filtro fumata da ragazzo, o gli animali della cascina dell'infanzia o la casa «stregata» di Mammoli, o l'esperienza della guerra, o le pazienti incontrate durante la sua lunga carriera, Veronesi traccia la mappa dell'impegno di un uomo. L'impegno di un laico, o meglio di un agnostico che proprio perché tale non può smettere mai di interrogarsi sui dogmi e le regole che ci vengono trasmessi e magari trasgredirli se ci sembrano inadeguati e ingiusti.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Il mestiere di uomo di Umberto Veronesi in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Tecnologia e ingegneria e Biografie in ambito scientifico e tecnologico. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Smettere di fumare, un gesto di libertà

Ho conosciuto da vicino il mondo della droga. Gli anni Settanta stavano ormai finendo e i miei figli entravano, l’uno dopo l’altro, nel periodo dell’adolescenza e della giovinezza. La nostra casa è sempre stata aperta ai loro amici – bambini prima, ragazzi poi –, e lo è ancora oggi: la domenica quando ci riuniamo tutti, tra famigliari e non, siamo in piú di trenta, con tutte le età rappresentate. Con sette figli molto socievoli, e animati da un forte senso di solidarietà, posso dire che da casa nostra è passata mezza Milano.
Purtroppo c’è stato però un periodo in cui ho dovuto chiedere ai ragazzi di far sparire tutto e di chiudere i cassetti a chiave, perché qualcuno dei loro amici si era messo a rubare. Erano gli anni dell’eroina, e il bisogno incontrollabile di procurarsi una dose spingeva quei ragazzi di buona famiglia a rubare anche a casa degli amici piú cari. «Non possiamo chiudere loro la porta: dobbiamo capire perché lo fanno», dicevo ai miei figli e allo stesso tempo a me stesso. Decisi di studiare quella nuova tragedia parlando con alcuni di loro, i piú vicini, e ne trassi le mie conclusioni. Dopo il fallimento del Sessantotto molti ragazzi si erano sentiti completamente sbandati e a molti di loro l’eroina si era presentata come l’occasione per creare un gruppo che condivideva lo stesso rifiuto di entrare in una società ingiusta e mercificata. Perché l’eroina? Perché è una droga che aliena dalla realtà e allo stesso tempo pacifica con se stessi, spegnendo i desideri, compreso quello sessuale, e inducendo una trasfigurazione del reale che appare improvvisamente come un sogno. Il problema è che la sostanza entra nel metabolismo cerebrale e diventa un bisogno fisico impellente, forte come la fame e ancora piú totalizzante: per un eroinomane esiste solo l’eroina.
Forse, però, il problema vero è stato quello del rifiuto da parte dei famigliari: molte famiglie non hanno capito i propri figli e non li hanno accettati perché il tossicodipendente era una vergogna e un segno di fallimento per i genitori, e quindi li hanno allontanati da casa.
Fuori dalla famiglia c’erano le comunità, che funzionavano bene, e i Sert, dove medici eroi – è davvero il caso di dirlo – riuscivano a salvare centinaia di giovani con il metadone. Però prima bisognava convincere il ragazzo a entrare in comunità o a lasciarsi avvicinare dai servizi sociali, ma come era possibile farlo senza il dialogo?
I ragazzi rubavano a casa degli amici, appunto, o finivano per spacciare loro stessi, quindi entravano e uscivano di prigione, imparando tutto fuorché il modo per uscire dalla droga. Anzi, molti di loro dopo il periodo passato in carcere diventavano delinquenti «professionisti». Era anche un’epoca quella, non dimentichiamolo, della violenza dei gruppi terroristici, gli anni in cui i sequestri di persona erano all’ordine del giorno.
Solo negli anni Novanta i fenomeni legati alla ribellione giovanile progressivamente sparirono per lasciar posto a una gioventú piú allineata e a una società piú ordinata. Ma da quell’ultimo decennio del secolo scorso i ragazzi di oggi hanno ereditato soprattutto l’uso della cocaina, nato da un atteggiamento opposto rispetto al rifiuto e alla rivolta degli anni Settanta: chi fa uso di cocaina vuole partecipare alla società e vuole farlo da protagonista. La cocaina dà una sensazione di potenza e di superomismo ed esalta le capacità individuali: è come se i cocainomani proclamassero che non solo accettano questo mondo ma vogliono viverci da vincenti. Tuttavia, anche se clinicamente può essere piú facile uscire da una dipendenza da cocaina, la droga degli anni Duemila causa lo stesso circolo vizioso che porta i giovani nel baratro della criminalità a danno della loro stessa vita.
Se non mi ha mai neppure sfiorato il pensiero di provare una sostanza stupefacente, ho invece provato a fumare. L’ho fatto quando ancora non capivo che anche il fumo è una grave, gravissima, forma di tossicodipendenza.
Non ricordo esattamente quando ho fumato la prima sigaretta, probabilmente una Nazionale senza filtro, ma ricordo, anche se un po’ confusamente, la sensazione che ho provato: piacere.
Dicono che la nicotina quando giunge ai nostri neuroni provoca un piacere consolatorio simile a quello provato dal neonato alla prima poppata di latte materno. Nell’Italia povera degli anni Quaranta la sigaretta era un segno di benessere, un piccolo premio – un benefit, si direbbe oggi – e come tale infatti veniva distribuita dallo Stato ai soldati in guerra, per sopportare meglio il freddo, la fame e l’orrore della convivenza con la morte. In un mondo in cui il sesso era tabú assoluto e la seduzione era quasi priva di armi, la «bionda» fungeva anche da richiamo sessuale. La gestualità sensuale che si giocava fra la mano e le labbra sapeva essere anche molto esplicita. Per le donne poi era segno di una mente libera e trasgressiva: la sigaretta non era una cosa per signorine per bene, e non certo per ragioni di salute. I giovanotti come me, invece, fumavano tutti, e non contavamo mai le sigarette che ogni giorno mancavano da quel pacchetto che costava solo poche lire, nella piena incoscienza di essere parte di un meccanismo che avrebbe scatenato la piú grave epidemia del secolo.
Ho fumato anche da adulto, nelle lunghe sere passate a giocare a bridge con mia moglie e gli amici, come gesto rituale che sembrava inscindibile dalle carte. Quando però, anni piú tardi, approfondendo l’oncologia, mi sono reso conto che a ogni sigaretta stavo facendo uso del piú potente cancerogeno noto alla scienza, non ho fatto alcuna fatica a smettere. Ho smesso come gesto di libertà: non potevo pensare di essere dipendente – cioè schiavo – di una sostanza esterna, che per di piú poteva farmi soffrire e morire. Ho abbandonato e dimenticato il pacchetto di sigarette, pur avendolo amato a lungo, e so che questo si può fare con un semplice atto di volontà, senza perdere alcun piacere per la vita, anzi.
Ho realizzato sulla mia pelle che fumare non è affatto la risposta a un desiderio naturale – come lo è quello provocato dal buon cibo, dal buon vino, da una bella donna o da un uomo affascinante –, ma è un bisogno «artificiale», indotto dall’esterno, che può sparire esattamente come è stato creato: con il nostro pensiero. Per questo non riesco a farmi una ragione del fatto che oggi la società non sappia trovare i modi per liberarsi dalla piaga del fumo. I miei amici e, direi soprattutto, le mie amiche, in particolare le piú giovani, che non riescono in alcun modo a smettere, mi dicono: «Facile per te, con il lavoro che fai…» Eppure non è stato il mio lavoro che mi ha allontanato dal fumo (molti medici, e molti oncologi, fumano), ma è stata piuttosto una questione di coscienza e di responsabilità. Al di là della mia sopravvivenza, penso di dover contribuire, come singola persona, all’eliminazione del fumo dalla Terra. Mi crea un immenso dolore assistere impotente alla morte di cinquantamila persone all’anno (solo in Italia) per un’abitudine che, per motivi culturali e, va detto, economici, non siamo ancora stati capaci di sradicare.
Malgrado tutte le sue certezze, la scienza è disarmata di fronte allo sfruttamento economico della dipendenza dal fumo (che, a certi livelli, è una malattia vera e propria) da parte delle multinazionali del tabacco, che in Italia hanno come alleato addirittura lo Stato. Il Monopolio statale dei Tabacchi è scandaloso: lo Stato non solo legittima, ma addirittura guadagna, e non poco, su un prodotto letale per i suoi cittadini. Come si può pensare allora a una campagna informativa e educativa antifumo in grado di contrastare le campagne persuasive miliardarie delle lobby del tabacco? E, infatti, nel nostro paese l’azione antitabacco è affidata al volontariato e alle associazioni non profit e dunque, in ultima analisi, ai cittadini stessi che si devono autoproteggere dal fumo, tutelando in particolare i loro figli e nipoti che sono i piú esposti alla minaccia tabagista.
In base ai dati dell’Osservatorio Fumo, Alcol e Droga dell’Istituto Superiore di Sanità, la fotografia dell’Italia con la sigaretta in bocca è indicativamente la seguente: attualmente fuma il 25,4 per cento delle persone di oltre 15 anni, corrispondenti a circa 13 milioni di cittadini italiani (7,1 milioni di uomini e 5,9 milioni di donne), i non fumatori sono il 60 per cento e gli ex fumatori il 14,6 per cento, pari rispettivamente a 30,7 milioni e a 7,5 milioni di italiani. L’allarme è particolarmente alto per i piú giovani: pare che l’85 per cento dei tabagisti inizi a fumare prima dei 17 anni. Se pensiamo alle previsioni scientifiche della Lega italiana per la Lotta contro i Tumori, che confermano che almeno un fumatore su tre morirà prematuramente a causa del suo vizio (senza contare il peso delle malattie gravi che li colpiranno), ci rendiamo conto che siamo di fronte a un’emergenza sociosanitaria di proporzioni inquietanti.
In particolare è allarmante fra le donne. Sono numerose le nostre giovanissime che iniziano a fumare addirittura a 11 o 12 anni. Scacciato dai locali chiusi sia dalla legge che dal buon senso, il fumo femminile pare ritornare in molte giovani sotto forma di rituale all’aperto, come segnale per socializzare, riconoscersi e fare gruppo. A giudicare dagli atteggiamenti, le motivazioni di questa nuova generazione di fumatrici sono le stesse delle loro madri: desiderio di affermare la propria emancipazione, ribadire la parità con l’uomo (ma perché, non posso fare a meno di domandarmi, imitare proprio i segni di maggiore debolezza del sesso forte?), reagire all’insicurezza, esprimere il desiderio di apparire piú aggressive e dunque piú sensuali, o comunque piú grandi e mature. Pare che, per quanto riguarda la sigaretta, gli ultimi decenni di progresso civile e di reale emancipazione della donna siano passati invano: il fumo per le ragazze rimane ancora un simbolo, un rifugio dalle proprie frustrazioni, uno sfogo delle nevrosi. L’uomo, al contrario, ha cominciato a imparare a rinunciare al tabacco, e grazie a questa sua consapevolezza la mortalità legata al fumo, in particolare per il tumore del polmone, ha iniziato a diminuire sensibilmente. La donna invece si sta esponendo lucidamente a una forma di sconcertante epidemia: già oggi in Italia muoiono per carcinoma polmonare seimila donne ogni anno e se continua la tendenza attuale nei prossimi vent’anni le vittime del tumore del polmone saranno superiori a quelle del tumore al seno. Va detto però che se ci voltiamo indietro agli ultimi quindici, venti anni, in Italia il consumo di tabacco è diminuito complessivamente di circa il 10 per cento e la mortalità per tumore al polmone, nel maschio, si è ridotta del 25 per cento. C’è da sperare quindi che anche per la donna varrà questa tendenza.
Ho tentato di dare il mio piccolo contributo privato abbandonando la sigaretta della gioventú, e tutt’oggi continuo a non fumare. Negli anni Ottanta, poi, insieme ai colleghi mi sono battuto a livello europeo perché fosse abolita la pubblicità dei prodotti contenenti tabacco, e perché sui pacchetti di sigarette fosse messo ben in evidenza il danno che provocano alla salute. Quando nel 2000, come ministro della Sanità del governo Amato, ho disegnato la legge di divieto di fumo nei luoghi pubblici, la mia intenzione era di proteggere i diritti e la salute dei non fumatori. Il non dover subire il fumo degli altri, nei bar o nei ristoranti, è per me prima di tutto una questione di convivenza civile. Come speravo, la legge, introdotta dal governo successivo, ha avuto però anche un’influenza benefica sui fumatori che non solo hanno accettato di buon grado la limitazione, ma ne hanno fatto un motivo di piú per abbandonare o almeno limitare la sigaretta. Dopo circa dieci anni, però, l’effetto positivo ha iniziato a ridursi fino a svanire, e il numero di fumatori ha ricominciato a crescere. Non di molto, solo di qualche punto percentuale, ma il segnale di ripresa è chiaro. Questo perché dopo la legge nulla piú è stato fatto per sviluppare la cultura antifumo e molti di coloro che avevano smesso, abbandonati a loro stessi, sono ricaduti nella dipendenza. Avremmo dovuto prendere esempio dagli Stati Uniti dove fumare non solo non è civile, ma non è neppure «trendy».
Rispetto ai tempi delle mie Nazionali, negli Usa il quadro si è invertito: le upper classes non fumano piú e la sigaretta è segno di disagio e di emarginazione. Da noi invece aumentano, sebbene lievemente, i nuovi fumatori, e ancora piú le fumatrici, mentre diminuiscono gli ex fumatori, segno che chi aveva smesso, alasciato a se stesso, ci è ricaduto.
Il fumo è una delle piú pericolose forme di tossicodipendenza, anzi, dal punto di vista della salute, la piú pericolosa, ma soprattutto è la piú difficile da combattere perché la società non la condanna, come fa per le altre droghe. Anzi, subdolamente la promuove. Per esempio pochi anni fa, nel 2011, dopo essere stato a lungo bandito, il fumo è tornato, inaspettatamente, nelle scene dei film. In molti casi ci si appella all’esigenza del realismo perché fino agli anni Sessanta e Settanta il fumo era effettivamente molto diffuso e accettato. Ma si fuma ad esempio anche in Avatar, il kolossal della realtà virtuale, che certo non è un film storico e per di piú è destinato a un pubblico di ragazzi, che sono le maggiori vittime del tabagismo. L’allarme è scattato subito da parte delle associazioni americane antitabacco e anche da noi in Italia qualche protesta c’è stata. Ma non abbastanza forte, secondo me. La lotta al fumo è poi tornata al centro dell’attenzione durante l’estate del 2012, grazie alla decisione dell’Alta Corte australiana di eliminare il brand dai pacchetti di sigarette per renderli completamente anonimi, e alla scelta italiana di vietare la vendita di sigarette ai minori di 18 anni.
Anche se penso che la misura australiana sia lodevole – oltre a essere un’idea originale –, credo che la sua efficacia sia maggiore nei paesi dove è permessa la pubblicità dei prodotti del tabacco. Può rivelarsi, infatti, un buon antidoto contro la forte capacità di persuasione che le multinazionali del tabacco esercitano essenzialmente attraverso le campagne pubblicitarie. Alcune, in particolare, hanno saputo creare nei fumatori una totale fedeltà al brand: la potenza del marchio Marlboro ne è un esempio. Quanto alle immagini scioccanti e alle diciture che sostituiranno il marchio – scritte che in Europa sono già obbligatorie – abbiamo sperimentato come il loro potere deterrente sia limitato. Sono troppo perentorie e suonano come sentenze inappellabili, che non lasciano spazio né a spiegazioni né all’elaborazione personale.
Io credo che il fumatore vada convinto a smettere, vada sempre persuaso e mai minacciato, perché il problema della dipendenza dal fumo è prima di tutto una questione psicologica. Per questo sono certo che in Italia il divieto di vendita ai minorenni punito a suon di multe salate ai commercianti non sia la via giusta. Come dichiaro da sempre, sono contrario a ogni forma di proibizionismo e credo invece nell’approccio informativo-educativo. Se si deve ricorrere alla proibizione, significa che abbiamo fallito nella nostra azione di sensibilizzazione e di convincimento. Ma il divieto non deve arrivare dove non è prima arrivata la riflessione e, anzi, si può ottenere l’effetto opposto a quello desiderato. Penso che il cittadino, anche giovanissimo, debba essere reso consapevole delle sue scelte per poter esercitare il suo diritto all’autodeterminazione. La salute è un diritto e non un dovere: è un principio sacrosanto, sancito dalla nostra Costituzione, che non dovremmo mai perdere di vista. Per questo stesso motivo sono favorevole alla liberalizzazione delle droghe e so che questa mia posizione è molto impopolare e per lo piú incompresa.
Come medico sono un convinto oppositore di tutte le droghe, pesanti e leggere, compreso il fumo e l’alcool, perché creano assuefazione fisica e psicologica e danni irreparabili e talvolta letali. Sono contrario alle droghe anche come padre, l’ho già detto, perché ho visto troppi ragazzi all’interno delle numerose e diverse cerchie dei miei figli, annullarsi in una siringa, buttare via la propria vita, soffrire e morire. Sono altrettanto convinto, però, che proibire e punire non serva, anzi. La droga è un problema piú sociale e famigliare che penale. Del resto, come si può credere che una legge che impone sanzioni pesanti o addirittura la prigione per possesso di sostanze stupefacenti o psicotrope che «appaiono» destinate a un uso personale (ma è il giudice a decidere) possa risolvere il problema della droga?
Le statistiche dimostrano che tanti anni di proibizionismo non hanno attenuato il fenomeno, e anzi l’uso delle droghe è in aumento nel mondo occidentale ed è un mercato che ignora completamente la crisi economica. Gli unici paesi che hanno visto scendere i consumi fra i giovanissimi sono i paesi come il Portogallo che ha depenalizzato l’acquisto di tutte le droghe. Del resto già le esperienze di paesi come la Svizzera, l’Olanda e la Danimarca, che hanno adottato politiche di liberalizzazione nei confronti della droga, parlano chiaro. Nel 2006 la prestigiosa rivista scientifica «The Lancet» ha pubblicato uno studio condotto dall’Ospedale psichiatrico universitario di Zurigo: la ricerca è iniziata nel 1991, quando la Svizzera ha intrapreso un programma di somministrazione controllata di eroina. In circa dieci anni i neoconsumatori erano scesi da 850 a 150 (circa l’82 per cento in meno). Per gli autori dello studio, il sociologo Carlos Nordt e lo psichiatra Rudolf Stohler, questi dati dimostrano che la politica «liberale» in materia di droga in Svizzera non ha provocato la tanto temuta «banalizzazione» del consumo di eroina (il rischio era di usarla di piú perché era piú facile procurarsela). Al contrario, la dipendenza da eroina è diventata sempre piú un problema medico e ha perso in qualche modo la sua immagine di «atto di ribellione». In Svizzera, sostengono i ricercatori, l’uso di eroina è considerato oggi una malattia che dev’essere trattata da un medico e non è piú visto come un atto criminale. I risultati di questa ricerca non ci devono meravigliare: già dopo un anno dalla legalizzazione della prescrizione di eroina ai tossicodipendenti gravi, all’inizio degli anni Novanta, il governo elvetico aveva ottenuto la riduzione del 20 per cento di morti per overdose. Del resto tutto il movimento antiproibizionista europeo sostiene che se liberalizziamo la droga non ne aumentiamo l’uso ma riduciamo appunto la mortalità «per overdose» (che in realtà non è tanto causata da una «dose eccessiva» quanto dall’utilizzo di sostanze non controllate) e riduciamo la criminalità associata perché viene meno la necessità di commettere i reati ai quali i tossicodipendenti ricorrono per pagarsi la dose. Le prigioni sono piene di piccoli spacciatori che sono anche tossicodipendenti e ogni giro di vite aumenta il loro numero senza avere effetti sul mercato complessivo delle droghe. Infatti i ragazzi e le ragazze che cadono nella tossicodipendenza – che, ripeto, è una vera malattia – non hanno che tre scelte: rubare, prostituirsi o spacciare. Molti piccoli consumatori diventano piccoli spacciatori e poiché ogni nuovo cliente viene gratificato dall’organizzazione criminale con una dose premio, gli stessi consumatori creano altri proseliti. Un circolo vizioso, quindi.
Secondo molti studiosi la liberalizzazione metterebbe dunque in ginocchio i grandi trafficanti, la mafia, le economie che si basano sul narcotraffico come quella talebana in Afghanistan e quella colombiana in Sud America. Quelli che ricordano la strage di Torreón, in Messico, del 2010, sono stati colpiti come lo fui io dalla violenza e dall’arroganza con cui i narcotrafficanti hanno fatto irruzione in un locale gremito di giovani sparando, a freddo, su un gruppo inerme di persone che ballavano e si divertivano. Si calcola che dalla «dichiarazione di guerra» ai narcos nel 2006 le vittime siano state fino a oggi venticinquemila: donne, bambini, civili, oltre ai politici e ai membri della polizia. Sembra impossibile che nessuno – neppure i potenti Stati Uniti – riesca a opporsi al potere dei «cartelli», come si chiamano i gruppi, peraltro noti, che si spartiscono il mercato dei narcotici. Eppure, a ben pensarci, la loro realtà non è molto diversa da quella della «nostra» mafia che, come abbiamo visto ancora recentemente, continua a svilupparsi come uno Stato nello Stato.
Sono nato nel 1925 a Milano, non ho mai vissuto altrove e dunque credo di poter essere considerato un buon conoscitore del nostro paese. Posso quindi testimoniare che sin dal secondo dopoguerra sento parlare di lotta alla mafia da parte di tutti i governi, ma non ho mai visto risultati veri. Io credo che per togliere potere alla mafia bisogna «tagliarle gli alimenti» e il suo alimento piú importante è senza dubbio il traffico illegale di droga. E non sono l’unico, naturalmente, a sostenerlo.
Fra tanti autorevoli pensatori voglio citare Roberto Saviano, perché lo stimo e perché, all’opposto mio, è giovane ed è nato e vissuto nel Meridione. Scrive Saviano in un suo articolo sulla «Repubblica» del 9 gennaio 2014, dal titolo eloquente Il Padrino proibizionista: «Bisognerebbe partire da una semplice, elementare constatazione: tre sono le forze proibizioniste piú forti e sono camorra, ’ndrangheta e Cosa nostra». Stiamo parlando di un mercato nero che vale, in base alle stime, quattrocento miliardi di dollari l’anno: perché stupirsi dunqu...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il mestiere di uomo
  3. Al mattino
  4. Il mestiere di uomo
  5. Il primo giorno senza Dio
  6. «Ishokudoghen», che il cibo sia la tua medicina
  7. L’incantesimo della scienza
  8. Smettere di fumare, un gesto di libertà
  9. L’ultimo atto d’amore
  10. La grazia di poter morire
  11. In nome dell’amore universale
  12. La pena di morte viva. Storia di un uomo ombra
  13. Chi ha inventato la guerra può ora inventare la pace
  14. Il libro
  15. L’autore
  16. Dello stesso autore
  17. Copyright