D. D. Deliri Disarmati
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D. D. Deliri Disarmati

  1. 246 pagine
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D. D. Deliri Disarmati

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Nell' Occhiale malinconico, Ceronetti si rammarica di scrivere «in una lingua europea ex magnifica, sfigurata e sopraffatta da scorie verbali tossiche, non piú creativa nel popolo». Nei Pensieri del Tè ne denuncia la fiacchezza sonora: «Il latino ha meno suono del greco ma piú dell'italiano (piú contenuto sacrale), l'italiano del Trecento piú di quello attuale (infinitamente piú)». Il suo dissenso dalla lingua di oggi lo esprime in vari interventi (indimenticabile, fra i tanti, quello contro l'abuso del verbo «gestire» nella Musa ulcerosa ), evitando i sintagmi- cliché e i luoghi comuni, ma anche utilizzando parole desuete o improbabili, neologismi e applicazioni morfematiche possibili ma non esistenti. (In questo slancio, devo dire, sento una forte affinità con lui). [...] Nei Deliri Disarmati: «sfacibile sfacitore», «elettuari per monache», «Cagòdromo», «lercia e slampadata», «una palpebrata segreta», «un sergozzone», «resti di laniato», «prepuziare... prepuziatrice... prepuziazione», «un Dio pirchio», «potenza plutoniale», «occhi fredegondi», «i loro ganziboldi», «grido marlupo» (dalla prefazione di Tiziano Scarpa).
Poeta, scrittore, polemista profondamente antimoderno, apocalittico, anarchico-reazionario, quasi sempre paradossale nelle forme e nei contenuti, Ceronetti ha adottato di volta in volta svariati mezzi espressivi, non solo verbali (si pensi ai suoi disegni, ai collage, alle performance teatrali). Questi Deliri, pubblicati originariamente nel 1993, sono fondamentalmente racconti satirici, grotteschi e surreali. Ma piú che lo sviluppo narrativo, a Ceronetti interessa il nucleo enigmatico, simbolico, forse profetico delle situazioni che «mette in scena». E qui, piú che in altri libri, le geniali invenzioni linguistiche della sua prosa si colorano di comicità. Ne risulta un concentrato della scrittura ceronettiana e, nello stesso tempo, una delle sue opere piú divertenti.
Intuizioni, imposture, sgambetti, convulsioni, risentimenti, nostalgie di prodigi, illuminazioni assetate d'ombra (Tiziano Scarpa).

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2022
ISBN
9788858439388

Camminando sul selciato delle nuvole

Come sono fatti, che cosa c’è dentro questi racconti? Prima di provare a dirlo, va dato il giusto rilievo a qualcosa di evidente – è scritto sul frontespizio – ma per niente ovvio: a scriverli è stato Guido Ceronetti. Sí, proprio il traduttore palombaro di Qohélet (1970) e del Libro di Giobbe (1972), il polemista antimoderno di Difesa della luna (1971), il cronista inattuale di La carta è stanca (1976), il collezionista patogeno del Silenzio del corpo (1979), il reporter stomacato di Un viaggio in Italia (1983) e Albergo Italia (1985), il diarista dandy della Pazienza dell’arrostito (1987), l’eremita mondano dei Pensieri del Tè (1987), l’inquilino museale dell’Occhiale malinconico (1988). Proprio uno scrittore come lui ha sentito il bisogno – in questi racconti e, prima, nelle poesie, nel romanzo Aquilegia (1973) e in certe escursioni narrative della Musa ulcerosa (1978) – di sconfinare oltre la sapienza antica e moderna, di arrischiarsi fuori della sua tana librivora, catacombale, misterica. (Perché anche quando viaggiava – e viaggiava tantissimo – Ceronetti restava chiuso dentro le pareti mentali della sua biblioteca; la sua disperazione consiste nel constatare ovunque quanto la bibliosofia non conti nulla, non faccia presa sul mondo). Dunque, anche un autore come Ceronetti ha chiesto alle parole un’altra prestazione. Quale? Quella che fa sprizzare immaginazioni e fantasie dopo essersi liberata dall’obbligo di commentare, di citare, di rifarsi alle tradizioni piú arcane sbattute in faccia all’attualità piú scabrosa. C’è una forza, nelle parole, che se ne va da tutt’altra parte, non si lascia sottomettere al culturalismo, si svincola dall’erudizione e dal thesaurus sapienziale, esce dal cono d’ombra dei morti sacri. Questa forza, Ceronetti l’ha trovata all’inizio nella poesia (i suoi primi versi li scrisse non ancora ventenne) e poi nelle invenzioni narrative.
Le parole, se le lasci andare per conto loro e le segui inerpicandoti sulle loro nuvole, emanano visioni e sogni infondati, senza poggiare i piedi per terra, senza cercare garanzie di autorevolezza nel canone del passato e nella cronaca giornalistica. A che servono? Forse a niente. Ma è un niente benefico; la loro indipendenza ci è indispensabile, perché trabocca salute, possibilità, utopia. Fuori dalle funzioni comunicative, emotive, legislative, informative, performative, le parole eccedono, tracimano nell’immaginazione. La fantasia è la loro sovranità assoluta, che non a caso è stata detronizzata dalla società e si è esiliata nella letteratura. (E casomai, chissà, un giorno potrà anche succedere che certe invenzioni campate in aria, a distanza di decenni o secoli, diventino inaspettatamente paradigmi essenziali per comprendere il presente e il sempiterno, com’è successo alle sirene, a Psiche e alla sua lucerna, a Don Chisciotte, a Gregor Samsa che si risvegliò insetto, a certe formule di matematica astratta che si sono rivelate essenziali per applicazioni tecnologiche di ogni tipo, dalla medicina ai viaggi spaziali).
Ceronetti ha passato la vita e la scrittura riparandosi nelle auctoritates, nell’erudizione, nelle glosse, nelle traduzioni, nei notiziari, nell’autobiografia, nel monumento, nel museo. A maggior ragione, accanto alle poesie, la sua narrativa cosí spregiudicata testimonia – anzi, giura – quanto sia necessaria una parola che sprigiona visioni senza garanzie, senza precedenti, senza attestazioni, senza certificati.

Sognare, forse.

Sono racconti diversi dal solito; allora andranno letti in maniera diversa dal solito. Ho provato col dormiveglia. Piú precisamente, con quella fase di combattimento fra sonno e veglia, quando ti ostini ad andare avanti con la lettura anche se le palpebre si abbassano. Credi di aver letto una frase, ma è la mente che si è inventata un’allucinazione testuale: piú che ipnagogica, ipnofobica, perché ti sforzi di respingere il tuo assopimento contrapponendogli un fantasma illusorio di lettura. Non so perché, ma io in quei casi, invece di arrendermi al sonno, mi sprono senza costrutto; mi riscuoto, cerco di continuare a leggere anche se so che è una battaglia persa. Assomiglia a un bagnasciuga della coscienza; la sonnolenza si ripresenta a ondate; ogni volta conquista un paio di metri sulla riva, poi si ritira, ma presto ritorna; continua cosí, avanti e indietro, finché non sommerge tutta la spiaggia.
La notte avevo dormito pochissimo, quel pomeriggio avevo una mezz’ora libera, mi sono steso sul divano con i Deliri Disarmati aperti. Sapevo come sarebbe andata a finire; e d’altronde, il lasciapassare me l’aveva dato l’esergo del racconto Il Trombettista di dolcezza: «La tua è una grande arte: addormenta». Mi sono detto: lo so che adesso mi addormenterò, sono troppo stanco; e so anche che cercherò di resistere, perché mi vergogno di fare un pisolino a quest’ora. Ma è proprio in questa terra di mezzo che voglio provare a leggere le fantasie di Ceronetti. Cosí è stato: leggevo qualche paragrafo, gli occhi si chiudevano; la mente proseguiva le frasi da sé, continuando con invenzioni tutte sue, distorceva, deragliava, convinta di leggere cose che invece non si trovavano sulla pagina. Alla fine ho ceduto sognando una donna, era accanto a me, mi ascoltava, le stavo raccontando un sogno; via via che glielo raccontavo lo vedevo, partecipavo, mi ci immergevo: sono seduto all’aperto, al tavolino di un bar, non lontano da casa; chiedo un caffè, non me lo portano; passa un’ora; mi indigno, voglio alzarmi e andarmene senza pagare, ma poi non sono piú sicuro di avere subíto un torto, forse sono stato servito, forse il caffè me l’hanno portato e sono io che mi sono dimenticato di averlo bevuto. «Non è una buona idea andare via senza pagare – ho pensato –, questo bar è vicino a casa mia, prima o poi avrò bisogno di tornare qui». Arriva il proprietario del bar, è un po’ anziano, non lo conosco. Rovescio sul tavolino tutti gli spiccioli del mio portamonete. Lí in mezzo spicca un gettone della Croce Rossa, che somiglia a una moneta da due euro, a cerchi concentrici, fatta di due metalli diversi. «Da quando in qua la Croce Rossa batte moneta?», mi chiedo. Quel gettone incuriosisce anche il proprietario del bar, che allunga la mano per prenderlo. «Questo non è per lei!», gli dico bloccandogli la mano. Lui afferra la mia e me la stringe facendomi male.
Mi sono svegliato con l’avambraccio che mi doleva, perché lo avevo schiacciato sotto un fianco, l’irrorazione sanguigna era insufficiente, i nervi frizzavano.
Potrebbe essere un delirio disarmato anche questo. Un paese in cui la Croce Rossa batte moneta, e i suoi gettoni sono contesi dalla popolazione, che non compra piú, non consuma piú, perché tutto ciò di cui ha bisogno è soccorso e salvezza.

Non sequitur.

No, non va bene. Considerare questi racconti dei sogni, leggerli come resoconti onirici che diventano sempre piú vividi man mano che si addentrano nel racconto, è riduttivo e puerile. Come se qualunque storia bizzarra dovesse avere per forza la sua origine in un sogno. E poi, quando lo ha ritenuto necessario, Ceronetti non si è fatto remore: in altri libri i suoi sogni li ha raccontati eccome. Per esempio, nel Silenzio del corpo; lí dentro ce ne sono almeno quindici. Mi ha sempre affascinato, e lasciato interdetto, il fatto che abbia inserito dei sogni proprio in un libro simile – per chi non lo conosce, è un piccolo zibaldone cancerografo, un repertorio di pratiche mediche del passato, superstizioni risanatrici, farmaci improponibili ma prescritti per secoli, amputazioni raggriccianti. Il silenzio del corpo è carta affetta da psoriasi. Che cosa c’entravano, lí in mezzo, i suoi sogni? Eppure ce li ha voluti mettere. Come se fossero anch’essi escrezioni corporee, flegma maligno, chimo andato a male, incubi da cattiva digestione, ancorati alla loro causa fisiologica, vaneggiamenti fegatosi, grevi di viscere, ispessimenti del sangue intossicato: anche loro silenzi carnosi, silenzi del corpo. E, ad ogni modo, quasi sempre quei sogni sono piú narrativi di questi Deliri Disarmati. Hanno una trama. Contengono svolte, imprevisti, rovesciamenti, colpi di scena finali.
Per esempio: «Un bambino molto bello, magro, biondo, abbandonava cadaveri, di gente da lui stesso uccisa, sul terrazzo e nelle stanze. La casa era immensa, con corridoi sterminati, un castello, pareva. Al pianterreno commentando i fatti domestiche e carabinieri si riscaldavano attorno al fuoco. Il bambino era sparito. Si temeva compisse altri orrendi delitti, lo cercavano dappertutto. Noi saliamo al primo piano e spalancate le porte del grande armadio nella camera da letto vediamo rotolarne giú il bambino, legato e insanguinato, ma vivo. Gridiamo che l’abbiamo trovato, accorrono i carabinieri; uno di loro lo piglia in braccio, il bambino piange poi ride, ha freddo, e quel bravo soldato lo consola, dimenticando che cosa ha fatto».
Oppure: «Mi accovacciavo e mi usciva un pezzo d’intestino; non finiva piú di uscirmene. L’intestino ammucchiandosi mi sollevava sopra di sé e cosí salivo salivo sopra il mio intestino che pareva una colonna tortile di marmo grigio, salivo piú alto delle case e anche delle montagne, senza mai separarmi dal mio intestino che continuava ad uscire. Finalmente anch’io mi trasformavo in intestino e quell’Io fatto intestino in cima alla colonna formata di se stesso era scosso da un’esplosione interna e precipitava in forma stellare». Sono due sogni contenuti nel Silenzio del corpo che, espandendoli un poco, avrebbero potuto figurare fra i racconti di questo libro.
Ma gran parte dei Deliri Disarmati non ce l’hanno, un ribaltamento o una sorpresa finale. Non sono racconti, per l’idea che si ha solitamente di racconto. Sono situazioni. Situazioni senza sviluppo. In ciò, a noi possono richiamare certi video di arte contemporanea, o un certo cinema contemplativo, ma non quello dilatato di Antonioni, Rohmer, Tarkovskij, Warhol, Wenders. Anche perché Ceronetti avrebbe avuto molto da eccepire, e da seccarsi, nel sentirsi affiancare all’arte e al cinema dei suoi contemporanei. In effetti, il suo repertorio di situazioni è del tutto diverso. Le sue parole fantasticanti porgono sempre qualcosa di inquietante, spesso ributtante, per niente statico; semmai istantaneo, repentino. La contemplazione della narrativa ceronettiana non risiede nella lentezza con cui si presentano gli avvenimenti, che sono svelti e arrivano senza preavviso, del tutto irrelati; al contrario, la contemplazione è un prodotto finale, deriva dal fatto che certi disagi, certi accenni di apocalisse e di prodigi fulminei si arrestano in un non sequitur. In questo modo, il loro moncone interruptus ostenta un enigma da meditare a lungo: cosicché, a ritrovarsi in stato di contemplazione meditativa è chi legge, per le condizioni in cui lo abbandona il sibillino narratore: fabulatore oracolare, o strategicamente avaro. Ceronetti è come un regista di film dell’orrore, o di suspense, o di satira surreale, che ogni volta si accontenta di una sequenza soltanto, di un cortometraggio, senza preoccuparsi di far procedere la storia. La sua attitudine è in sintonia con i film di Luis Buñuel. In La carta è stanca gli dedica un dettagliato omaggio, che comincia con questo squillo di trombe: «L’indigeribile monotonia del cinematografo, a quasi cento anni dalla sua invenzione, ogni tanto si rompe: c’è un film di Luis Buñuel». Ma i racconti di Ceronetti fanno pensare piuttosto a un Buñuel frammentato in singoli spezzoni. A un certo punto, Ceronetti chiama in causa il regista spagnolo in questi stessi Deliri, come vedremo fra poco. E comunque, credo di non esagerare dicendo che, per esempio, L’assaggiatore di rasoi – presente in questa raccolta – che di mestiere si tagliuzza la lingua per collaudare quanto sono affilate le lame, potrebbe sentirsi fratello dell’autolesionismo performativo artistico di quei decenni (i nomi sono sempre i soliti: Gina Pane, Vito Acconci, Chris Burden, Hermann Nitsch, Marina Abramović…) D’altronde, l’appello al sangue, alla sua rivelazione cruenta, extradermica, appartiene sia ai body artists che alle mistiche piú spesso invocate da Ceronetti, come si legge nell’epistolario di Caterina da Siena citato nel Silenzio del corpo: «“e bagnatevi di sangue” “e annegatevi di sangue” “e saziatevi di sangue”».
E gli ascendenti letterari? Il grande filone fantastico del Novecento italiano (o, come andava di moda chiamarlo qualche tempo fa, con la solita anglomania smemorata, weird): Papini, Bontempelli, Savinio, Landolfi, Buzzati, Manganelli. È Ceronetti stesso a identificare il punto geometrico in cui si conficcano i suoi racconti, un crocevia di direzioni da cui si discosta, per differenziazione: «Tutto sarebbe meno squallido se l’autore di questo racconto fosse Edgar Allan Poe. Baudelaire ne avrebbe ricavato uno splendido Poema in Prosa nel suo Spleen de Paris. E Wells… E anche Buzzati… Buñuel ne avrebbe fatto una sequenza di impeccabile ironia…», cosí scrive, con autoironia, a metà del Pianoforte flagellato, consapevole di non avere voluto dirigere la trama verso una soluzione all’altezza delle aspettative che ha suscitato nella prima parte del racconto.
Per la verità, un manipolo di racconti che contengono qualche timido o consistente sviluppo narrativo, qualche pallido o clamoroso colpo di scena, c’è. Per esempio, oltre a pochi altri che menzionerò dopo: Cristiani che si scrivono cartoline illustrate nell’anno del Signore 1192; Guerra e pace; Le illusioni di un fiore; Le delizie di Pornolandia; Il ladro; L’uscita del Cobra; Il pipistrello; Il Compratore di Seni Poveri; Le farfalle non abitano piú qui; Il Marionettista; Una mezzora circa di «collage»; In una piccola prigione; Un paio di calze di seta. Ma sono minoranza.
In generale, invece, si approfondisce una situazione, o meglio, si accatasta sopra di essa una quantità di analogie, variazioni, sfaccettature, applicazioni, possibilità. Questo modo di raccontare è una specie di concrescenza, interna alle proprie premesse, che non trascende sé stessa in qualcosa d’altro. Se fossero piante, direi che ramificano e si radicano, ma sono quasi sempre senza fiori, senza l’exploit della fruttificazione.
Delusione, elusione narrativa sono al servizio della meditazione, devono lasciare a bocca asciutta chi legge, per provocargli un altro modo di leggere una storia – e, soprattutto, a fine lettura, di considerarla. I racconti di Ceronetti si comincia a leggerli solo dopo che sono finiti; perché non finiscono, e a volte non cominciano nemmeno.

Intermezzo autointroduttivo.

Che i lettori, con questi deliri, si stessero per mettere sotto gli occhi un oggetto sui generis, ne dava avvertimento anche il perfetto risvolto di copertina della prima edizione einaudiana del 1993. Conviene riportarlo tutto: «Da un lato enigmatici, gotici, misteriosi – dall’altro grotteschi e satirici. Questi brevi e brevissimi racconti di Guido Ceronetti, coi quali l’autore – che mai si definí narratore – adotta tuttavia modi e formule narrativi, si pongono in entrambi i casi sotto il segno del surreale. Nell’anarchismo delle forme si delinea un itinerario tradizionalmente spirituale. L’irrisione di Ceronetti non muove certo da un gratuito irrazionalismo. I suoi collages mentali, le favole, i simboli, le immagini, restano tra i percorsi dell’anima perduta, che si cerca nei labirinti, fra mito, memoria biblica, inconscio. Per quanto divertita e macabra caricatura dei nostri mali, accanto alla pars destruens, nei racconti di Ceronetti è sempre implicito l’elemento costruttivo, visibile attraverso il velo comico e tragico, nell’ironia che talvolta si fa profetica. Ceronetti non si smentisce: rimane un affascinante moralista anche in versione narrativa, anche in questi Deliri in apparenza svagati, e irresistibilmente divertenti». Non so se a questo paratesto abbia contribuito la mano di Ceronetti, ma immagino che, in particolare, l’espressione «che mai si definí narratore» avrà avuto la sua approvazione.

Situazioni o racconti?

E dunque, stavo dicendo: situazioni, piú che racconti. Ma è sempre vero? Provo a verificarlo, uno dopo l’altro, almeno nella prima decina di questi testi.
Uccelli in gabbia: gli occhi di questi animali nel buio fanno rabbrividire i protagonisti. A parte ciò, non succede niente di rilevante. Però alla fine c’è una rivelazione: i narratori, che si esprimono con una vaga e reticente prima persona plurale, rivelano di essere chiusi in gabbia insieme a loro. Dunque qui una sorpresa finale c’è, anche se appena accennata.
I banditi: non ci si può fare nulla, né scappando, né affidandosi alla legge, «si è proprietà dei banditi e si viene, prima o poi, uccisi». È l’ultima frase del racconto. Arrivato a questo punto, un narratore di altro temperamento avrebbe potuto pensare che quanto appena esposto non era che una premessa, una rincorsa per spiccare il racconto, lo sfondo di circostanze su cui stagliare un avvenimento che avrebbe potuto contraddirle, o farle evolvere in un’altra direzione: la vera vicenda sarebbe dovuta cominciare da lí, magari con l’avventura di un ribelle che cerca di salvarsi fuggendo, o che riesce a coalizzare le vittime contro i banditi. E invece no, Ceronetti ci porge questa situazione enigmatica, in cui la necessità ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Camminando sul selciato delle nuvole. di Tiziano Scarpa
  4. D.D. Deliri Disarmati
  5. Uccelli in gabbia
  6. I banditi
  7. La lúnia
  8. La cassaforte della zia Clotilde
  9. Dal lattaio
  10. Un’assassinata
  11. Un dromedario senza padrone non si fermò alla Mecca ma a Zurigo
  12. Il dente di Austerlitz
  13. Il ragno-elefante
  14. Ultima lettera di Eloisa
  15. L’assaggiatore di rasoi
  16. In giacca di formaggio
  17. L’Apollo dimenticato sopra una foglia di lattuga
  18. La pancera di Santa Teresa
  19. Aspettando Clemenceau
  20. Midrâsh apocrifo: Sansone
  21. Il pianoforte flagellato
  22. La visita
  23. La Ghigliottina degli Innocenti
  24. Il pianto di una madre
  25. La Cattedrale Inghiottita
  26. Dio telefona
  27. Il Trombettista di dolcezza
  28. La cremazione
  29. Cristiani che si scrivono cartoline illustrate nell’anno del Signore 1192
  30. Rientrando per cena a casa
  31. Guerra e pace
  32. Guardarobiera
  33. L’Orchestra degli Sfruttatori
  34. L’uomo antropomorfo
  35. La Bella Gelataia
  36. Io sono l’Essenza
  37. La modella elettronica
  38. Le illusioni di un fiore
  39. Notturno
  40. All’accendersi delle candele
  41. Notturno con figure 20 luglio 1936
  42. Eigerwand
  43. Altre linee di tram per Alfred Doeblin
  44. Le delizie di Pornolandia
  45. Notturno con guardiano quando si scriveva col cuneo
  46. Lettera a mia figlia
  47. Voleva essere amato
  48. Neonate partorienti
  49. Antigone
  50. Il ladro
  51. Le mosche
  52. La donnina a dondolo
  53. La donnina a dondolo n. 2
  54. Grande pescespada
  55. In Uganda
  56. Trascrizione in cronaca di una poesia di Giorgio Seferis
  57. Stracchini e timbri dimenticati
  58. Estasi e Sbranamento
  59. L’uscita del Cobra
  60. Ma un uomo al telefono è ancora un uomo?
  61. Colpo di vento e una cosa bianca
  62. Memoria improvvisa
  63. La Pietà De Pippa
  64. Il pipistrello
  65. Banane e Terrore
  66. Il latino è forza
  67. Cassiera del Teatro alla Pigna
  68. Il Compratore di Seni Poveri
  69. Il Compratore di Chiappe Usate
  70. Le farfalle non abitano piú qui
  71. Il Marionettista
  72. Una mezzora circa di
  73. Quasi un intero giorno di
  74. Stress e Strauss
  75. Torso femminile vivente accoccolato
  76. I ragni scriventi
  77. In una piccola prigione
  78. La pigiatura dei piedi
  79. L’Estuario delle Dondone
  80. Una cartolina
  81. Cameretta nella casa di Barbablu
  82. La porta, l’orecchio e l’occhio
  83. Tali e quali
  84. Un paio di calze di seta
  85. L’uovo
  86. Il libro
  87. L’autore
  88. Dello stesso autore
  89. Copyright