Breve storia della letteratura inglese
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Breve storia della letteratura inglese

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Gli autori maggiori e i loro testi piú importanti ci sono tutti; e, soprattutto, c'è un «discorso» che, procedendo cronologicamente, illustra i percorsi e le tappe principali della letteratura inglese e in inglese, lasciando ovviamente un qualche spazio alle scelte, magari un po' partigiane, degli autori.E tuttavia è nostra comune convinzione avere offerto un profilo largamente condivisibile della storia letteraria inglese - accompagnata al tempo stesso dalla presunzione, laddove ci si è scostati decisamente dalla norma -, di avere saputo ridimensionare o valorizzare autori e opere in base a criteri non solo piú liberi dal pregiudizio critico, ma soprattutto piú attenti alla loro capacità di essere «una cosa viva» anche per il lettore contemporaneo.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858414668

Parte terza
Il Novecento e le letterature in inglese

di Paolo Bertinetti

A Riccardo

Capitolo ottavo

Il primo Novecento

1. Il modernismo.
L’inizio del Novecento, la cosiddetta età edoardiana, segnò l’apogeo della potenza imperiale inglese. Il regno di Edoardo VII, salito al trono nel 1901 alla morte della regina Vittoria, fu accompagnato dal consolidamento, in apparenza imperituro, del trionfo economico, industriale e militare del paese. Le condizioni di lavoro e di vita delle classi lavoratrici erano durissime, a volte disumane (come, ad esempio, mostravano le commedie «sgradevoli» di Shaw). Ma la classe dominante, la trionfante borghesia inglese (come pure quella francese della coeva belle époque) poteva comprensibilmente pensarsi come eterna, protagonista di un mondo che aveva per sempre trovato i suoi perfetti equilibri. La prima guerra mondiale li spazzò via per sempre.
I semi della dissoluzione di quell’ordine erano già tutti presenti all’inizio del secolo. Ma anche ignorandoli, era comunque evidente, almeno alle menti piú acute, che il vecchio mondo ottocentesco, con i suoi soffocanti valori, doveva lasciare il posto al nuovo, alla «modernità». «Make it new!», fu l’imperioso comando del poeta americano Ezra Pound, mirabile «fabbro» delle lettere inglesi del primo Novecento. Saggi, «manifesti», riviste come quella di Wyndham Lewis dal programmatico titolo di «BLAST», si assunsero la responsabilità di fare piazza pulita delle convenzioni letterarie del passato, di sbarazzarsi delle gabbie culturali dell’età vittoriana in nome della modernità. E modernismo fu il nome del vitalissimo movimento che, negli anni anteriori alla guerra, «distrusse» ciò che impediva la fondazione del nuovo – di quanto, cioè, venne poi pienamente realizzato nel dopoguerra.
Particolare alimento trasse il movimento modernista dal rapporto con le diverse espressioni artistiche, in particolare con le arti figurative. Di capitale importanza, come proclamò Virginia Woolf, furono le mostre su Manet e sui post-impressionisti organizzate da Roger Fry tra il 1910 e il 1913; e altrettanto «scandalose» furono quelle dedicate ai futuristi italiani negli stessi anni. Wyndham Lewis (1882-1957) ironizzò sull’ossessione del futurismo per la velocità, ma il movimento pittorico di cui fu promotore, il vorticismo, certamente doveva molto all’arte futurista, oltre che al cubismo. Il vorticismo proponeva una pittura dai tratti netti e forti, dalle angolazioni acute, dalle tessere nitide e brillanti, che esaltavano la macchina, l’energia, il vitalismo. Lewis portò questi principî anche all’interno della scrittura, realizzandoli nel romanzo Tarr (1918), ambientato nel mondo artistico parigino d’inizio secolo, che si avvale di un linguaggio duro, energico, dove esplode la risata e dove la parola ha la nettezza delle linee tracciate sulla tela.
I pittori dell’avanguardia rivelavano come la realtà potesse (dovesse) essere colta in modo non realistico, non «rappresentativo», come scrisse Pound a proposito della fonte espressiva di una sua celebre poesia. L’impeto iconoclasta del primo modernismo si sposò però con il recupero della tradizione: non quella recente, dai romantici in poi, rifiutata in nome della discontinuità, ma quella del grande patrimonio della cultura europea, a partire dalla poesia provenzale e da Dante, come spiegava Pound; o meglio ancora a partire da Omero, come sosteneva Eliot nel fondamentale saggio Tradition and the Individual Talent (La tradizione e il talento individuale, 1919): il poeta modernista doveva uscire dall’ambito «provinciale» dell’insulare cultura britannica, aprendosi alla cultura internazionale, e doveva confrontarsi con la preziosa vastità dell’eredità tuttora feconda di «the mind of Europe».
Nel dopoguerra, come scrisse in un lontano ma insuperato saggio Erich Auerbach, alcuni scrittori (inglesi, francesi, tedeschi) sentirono che i vertiginosi cambiamenti avvenuti dalla fine dell’Ottocento in poi, e culminati con lo sconvolgimento della guerra, avevano fatto crollare quella «comunanza di pensiero e di sentimento» che prima consentiva allo scrittore di ritrarre la realtà «avendo in mano dei criteri sicuri per ordinarla». Ciò da un lato comportava la rinuncia a voler rappresentare la vita nel suo svolgimento e nella sua completezza, con la scelta di limitare l’argomento della narrazione a poche ore o giorni, nella convinzione che meglio era indagare il singolo fatto; e nella persuasione che esso, attraverso i collegamenti con altre vicende nel passato appena intuite, potesse, forse, fare scorgere il senso di una vita (in Joyce saranno rivelatrici le «impressioni» fuggevoli, le epifanie che rappresentano improvvise rivelazioni).
Dall’altro lato ciò comportava la scelta di «dissolvere la realtà, che passando per il prisma della coscienza» veniva cosí frantumata in aspetti e significati molteplici. Tecnicamente questo, nei narratori, comportava il ricorso al rivoluzionario stream of consciousness di Joyce, al flusso di coscienza, alla traduzione sulla pagina del processo inconsapevole di pensieri, associazioni e sensazioni che attraversano la mente. Oppure, esemplarmente in Virginia Woolf, nella rinuncia al punto di vista del narratore (che non può piú esserci in un mondo inconoscibile nella sua interezza, come invece era per il narratore ottocentesco) per l’adozione di una molteplicità di punti di vista. L’intento, diceva ancora Auerbach, era quello di «avvicinarsi a una vera realtà obiettiva con l’aiuto di molte impressioni soggettive avute da molte persone (e in momenti diversi)».
È significativo che, già prima, sia Conrad, sia Ford Madox Ford, pur senza adottare tali tecniche, avessero elaborato soluzioni narrative (il secondo narratore, il narratore inattendibile) che registravano la difficoltà di raccontare alla maniera tradizionale. Furono poi i modernisti, i testimoni della «perdita del centro», a denunciare l’impossibilità di raccontare una storia con la linearità e consequenzialità che veniva da un’ordinata visione del mondo ora che il mondo non era piú conoscibile nella sua totalità. È questo fu vero sia per i romanzieri, sia per i poeti: «Non so connettere nulla con nulla», lamenta Eliot in The Waste Land.
Lo sconcerto, la confusione, la mancanza di solidi punti di riferimento, ma al tempo stesso la consapevolezza della necessità e della possibilità di rappresentare dimensioni inesplorate e nuove dimensioni della realtà, si tradussero nella splendida fioritura letteraria degli anni Venti. Ma prima di affrontarla conviene soffermarsi ancora brevemente sul contributo fondamentale offerto dal cosiddetto Bloomsbury Group, formato dai rivoluzionari (nel loro campo specifico) John Maynard Keynes, economista, Lytton Strachey, biografo e saggista, Roger Fry, critico d’arte; oltre a Leonard Woolf e allo storico dell’arte Clive Bell, che sposarono rispettivamente le sorelle Virginia e Vanessa, le figlie di quel Leslie Stephen, critico letterario e biografo, nella cui casa avvenivano gli incontri del gruppo (a essi si avvicineranno in seguito Forster, Eliot e il filosofo Bertrand Russell).
La formazione elitaria e l’alta collocazione sociale dei membri del Group favorí una posizione piú moderata, pur nella radicalità modernista, rispetto a quella eroicamente rivoluzionaria di Joyce, Pound e Lewis; ma al tempo stesso si tradusse, a livello ideologico, in posizioni coraggiosamente liberali, a differenza di quelle reazionarie coltivate da molti dei modernisti «eroici». Il frutto piú bello del Bloomsbury Group (che in materia sessuale promosse uno spregiudicato rifiuto delle ipocrite convenzioni vittoriane) è rappresentato dalla rivendicazione della scrittura femminile, che dichiarava la propria estraneità e ostilità, diceva Virginia Woolf, «alla frase costruita dall’uomo, troppo pesante perché possa usarla una donna». È questo atteggiamento che consentirà la valorizzazione (e in certi casi, prima ancora, la paritaria possibilità di espressione) delle scrittrici del primo Novecento.
Tra di esse ricordiamo qui la Mansfield e Dorothy Richardson (1873-1957). Quest’ultima è autrice di un unico fluviale romanzo, Pilgrimage, fatto di dodici romanzi singoli pubblicati tra il 1915 e il 1938, che hanno come protagonista l’autobiografica Miriam: l’azione passa attraverso la mente del personaggio, concentrandosi sulla sua percezione soggettiva del presente. La sua «prosa femminile senza punteggiatura» indusse la scrittrice May Sinclair ad usare probabilmente per la prima volta, in una recensione dei primi romanzi (1918), l’espressione stream of consciousness. Katherine Mansfield (1888-1923), nata in Nuova Zelanda (nella sua opera sono importantissimi il valore metaforico e il ricordo dell’infanzia legati alla sua terra degli antipodi), fu autrice di splendidi racconti in cui non è difficile scorgere l’influenza di Čechov; ma la sua è una scrittura fortemente originale, che spesso rinuncia a una trama definita per affidare il senso e l’unità del racconto a un delicato equilibrio di particolari, sensazioni, impressioni fugaci, e alla risorsa modernista della molteplicità dei punti di vista. I suoi racconti, ben piú di quanto non venga talvolta riconosciuto, sono una delle espressioni piú alte e un punto di riferimento ineludibile per tutta la narrativa breve di lingua inglese del Novecento.
2. La poesia.
Nei primi decenni del secolo la critica, l’editoria e i lettori inglesi diedero quasi tutto il loro consenso a una poesia tradizionalista, quella di Kipling, di Hardy, di Housman e del prolifico e lodatissimo John Masefield (1878-1967) incoronato «poeta laureato» nel 1930. Una poesia che celebrava il mondo rurale inglese attraverso forme e linguaggi ripetitivi (ma per questo rassicuranti), e che però trovò poi accenti drammaticamente veri nelle liriche dei «War Poets», dei giovani poeti (come Wilfred Owen e Siegfried Sassoon) che affidarono al verso gli orrori della guerra.
Il rinnovamento del linguaggio poetico fu promosso, in certa misura, dalla lezione del simbolismo francese; ma soprattutto dall’imagismo, il movimento che trovava le sue basi nell’idea di una hard dry image da contrapporre ai cascami romantici promossa dal poeta e saggista T. E. Hulme, e di cui Ezra Pound (1885-1972) fu il piú acceso e influente promotore. Pound ribadí perentoriamente la necessità di fare piazza pulita dello «spirito crepuscolare» e della versificazione sdolcinata tardoromantica proponendo una poesia «dura e chiara, mai nebulosa e indefinita», rifiutando la tendenza vittoriana al poema narrativo per una lirica breve, intensa, compatta: «Less is more». Non piú abbondanza di aggettivi e dispersive metafore, ma un linguaggio diretto, concentrato nell’esaltazione della centralità dell’immagine (è solo attraverso un frammento, e l’immagine che ce lo consegna, che può essere comunicata l’esperienza), capace di annullare la distinzione tra poesia e prosa e di incorporare nella poesia il linguaggio della quotidianità.
2.1. Yeats.
William Butler Yeats (1865-1939) era dublinese, di famiglia protestante. Il padre e il fratello erano pittori (egli stesso studiò per tre anni all’Accademia di Belle Arti) e il rapporto con le arti figurative, a maggior ragione quando incominciò a muoversi in ambito modernista, gli fu costantemente presente. Ne è un’ultima conferma la spiegazione da lui offerta per definire le griglie ideologiche-esoteriche entro cui sono inserite molte delle sue poesie: «organizzazioni stilistiche dell’esperienza, paragonabili ai cubi nei disegni di Wyndham Lewis e agli ovoidi nella scultura di Brancusi». Ma questo è il tardo Yeats.
Nella fase iniziale della sua attività poetica (sono gli ultimi lustri dell’Ottocento) Yeats si mosse in un ambito tardoromantico, proponendo una poesia di sognante carattere elegiaco che trovava ispirazione nelle figure leggendarie dell’antica Irlanda, nel suo folklore e nelle sue bellezze naturali, non contaminate dallo sviluppo industriale che aveva invece deturpato il volto dell’Inghilterra (The Celtic Twilight, 1893). Il primo Yeats era già però formidabile creatore di una poesia dalle strutture ritmiche di fascino avvolgente e ricca di una imagery capace di suscitare (facendo ricorso a un materiale di elementare semplicità) la suggestione piú profonda. Spesso i toni erano nostalgici, sognanti, fautori di un sentimento di abbandono e di ripiegamento su di sé. Ma poi interveniva il richiamo agli eroi della leggenda, al mito eroico dell’Irlanda celtica, che rimandava invece a una volontà di riscatto, magari non a un modello, ma certo a un’ispirazione da seguire per la rinascita irlandese (come vedremo poi, questo sarà l’aspetto centrale della sua produzione drammatica).
Una prima importante influenza «esterna» gli fu offerta dal simbolismo francese; ma decisivo fu poi l’incontro con Pound (che negli anni tra il 1913 e il 1916 gli fece talvolta da segretario), suggeritore della sua svolta modernista – mentre altrettanto importante sul piano ideologico fu la rivolta dublinese della Pasqua 1916, quella da cui, come dice la sua notissima lirica Easter 1916, nacque «una bellezza terribile». Abbandonata la struggente musica dai toni languidi e melanconici, dimenticato il placido tormento di dire l’ineffabile, Yeats si volse a un linguaggio piú diretto e asciutto, che incorporava le parole e gli accenti della colloquialità e che si impadroniva di ogni variante espressiva. E al tempo stesso si lasciava alle spalle la tendenza a immergere il personale nel mitico nell’esaltazione della propria soggettività per affrontare invece, forte dell’oggettività dell’immagine, i dilemmi del presente. Era un presente, tuttavia, che sentiva fondamentalmente nemico, almeno a giudicare dalle liriche «apocalittiche» della maturità. Forse è anche per questo che in Yeats assumono cosí grande rilievo le concezioni esoteriche, le teorie ermetiche e gli studi teosofici che assiduamente frequentò: corrispondevano all’aspirazione a trovare, fuori dal tempo e dalla storia, quell’unità spirituale del mondo che scorgeva nei mosaici bizantini, opere d’arte riverite come monumenti di «unageing intellect» capaci di far intravedere «l’artificio dell’eternità».
La poesia modernista di Yeats si muove con sovrana duttilità attraverso i piú diversi registri linguistici; e passa dai toni piú elevati a quelli teneri, dall’incanto alla riflessione, dalla musicalità piú armoniosa alla dissonanza stridente con una contraddizione voluta che sempre però si accompagna alla conquista di una perfezione di forma che ricorda e supera quella piú facilmente raggiunta nella poesia della giovinezza. Il premio Nobel che gli fu conferito nel 1923 fu il meritato riconoscimento al dono lirico e alla travolgente forza fantastica di uno dei maggiori interpreti della poesia europea del Novecento.
2.2. Eliot.
T. S. Eliot (1888-1965) era nato a St Louis, nel Missouri, e aveva studiato all’Università di Harvard. Studi decisivi soprattutto per la lettura dei poeti metafisici e di Dante, che furono due punti di riferimento centrali della sua produzione critica e poetica. Cosí come altrettanto importante, per la fase giovanile, fu l’incontro con la grande poesia francese di fine Ottocento, simbolista in particolare. Fondamentale fu però il successivo incontro con Pound nella Londra dei fermenti vorticisti.
Su «BLAST», nel 1915, Eliot pubblica Rhapsody on a Windy Night, che già contiene una delle immagini tematiche cruciali della sua poesia, quella dello squallore urbano. Due anni dopo, con l’aiuto di Pound, dà alle stampe una raccolta di poesie scritte tra il 1908 e il 1915, Prufrock and Other Observations (Prufrock e altre osservazioni), in cui la scrittura poetica modernista si manifesta in tutta la sua novità: con una scelta linguistica che trova nel linguaggio quotidiano, affidato al verso libero, lo strumento ideale per ritrarre la realtà impoetica del mondo contemporaneo, con una scelta filosofica che risponde alla crisi dell’io con la proposta spiazzante della frantumazione della coscienza, con un procedere del discorso che alla linearità sostituisce (sull’esempio della pittura) scomposizione e dislocazione dei piani e compresenza di luoghi e tempi diversi. E inoltre c’è il puntuale ed elegante ricorso alla dimensione ironico-satirica, o di rovesciamento ironico, costante in tutta la prima fase della produzione eliotiana fino a The Hollow Men (Gli uomini vuoti, 1925), che costituisce, al tempo stesso, una barriera contro ogni tentazione tardoromantica e uno sberleffo alla mediocrità di un presente di anonimo squallore e banalità.
Pochi anni dopo, con l’intervento assolutamente decisivo di Pound, uscí il capolavoro di Eliot, The Waste Land (La terra desolata, 1922), il poemetto che racchiude la piú completa visione del mondo offerta dal modernismo. I versi iniziali, con quel crudele mese di aprile «che genera lillà dalla terra morta», preannucia obliquamente il tema dell’opera, che è quello della crisi della civiltà occidentale vista attraverso il simbolo della perdita della fertilità. Uno dei decisivi elementi «mitici» del poemetto è quello della leggenda del re Pescatore (a sua volta legata a quella della ricerca del Graal) che ha perso la sua virilità, facendo cosí perdere la fertilità al suo popolo e alla sua terra. Un altro è quello della figura di Tiresia, secondo Eliot il personaggio piú importante di The Waste Land, poiché «ciò che vede è la sostanza» del poemetto. Tiresia, l’androgino dalle mammelle avvizzite, vede l’accoppiamento senza amore e senza passione di una dattilografa e di un impiegatuccio: fugace, meccanico, sterile, emblematico di un mondo incapace di procreazione. In The Waste Land è centrale l’immagine della città, della metropoli immensa che per il modernismo rappresenta termine di confronto e stimolo decisivo dell’esperienza creativa, garanzia provvidenziale contro l’odiato provincialismo. Ma la Londra di Eliot è soprattutto la «città irreale», luogo di alienazione e di assoluto anonimato, percorsa da una folla di anime morte.
Diversi momenti della Storia, non in quanto atti compiuti ma in quanto frammenti, e una folla di citazioni spesso criptiche dai diversi passati delle piú disparate culture coesistono in un presente di desolazione, in cui il conoscente incontrato per strada può essere al tempo stesso il compagno d’armi di una battaglia navale del 260 a.C. Nel continuo parallelo tra il presente e l’antico gioca un ruolo centrale la scelta dell’allusività, che condensa in pochi versi il riferimento a differenti esperienze di diverse epoche storiche e le incorpora nella condizione presente. L’intervento di Pound, che tagliò la metà del testo originale di Eliot, fu fondamentale nell’accentuare questo aspetto, eliminando parti di raccordo e momenti descrittivi, imprimendo al poemetto, attraverso il prosciugamento e la condensazione, quella struttura a blocch...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Breve storia della letteratura inglese
  3. Avvertenza
  4. Breve storia della letteratura inglese
  5. Parte prima - Dalle origini alla fine del Seicento di Rosanna Camerlingo
  6. Parte seconda - Il Settecento e l’Ottocento di Silvia Albertazzi
  7. Parte terza - Il Novecento e le letterature in inglese di Paolo Bertinetti
  8. Indice dei nomi
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright