Autobiografia
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Autobiografia

(1809-1882)

  1. 264 pagine
  2. Italian
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Autobiografia

(1809-1882)

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Charles Darwin scrisse questi testi autobiografici per i suoi figli, senza la consapevolezza che sarebbero stati un giorno pubblicati. Essi rivelano un uomo modesto che preferiva la compagnia dei famigliari a quella degli eminenti scienziati che lo circondavano. L'edizione completa dell' Autobiografia di Darwin comprende numerosi passi censurati e alcuni importanti documenti inediti che consentono di far avvicinare i lettori all'amabile figura e alla grande teoria del celebre scienziato.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858416884

AUTOBIOGRAFIA 1809-1882

«Se mi fosse dato vivere e lavorare per altri venti anni, quanto dovrei modificare l’Origine e quanto profondamente dovrei correggere ogni affermazione! Intanto questo è un principio ed è già qualcosa...»
CHARLES DARWIN a J. D. Hooker, 1869.

31 MAGGIO 1876.

REMINISCENZE SULLO SVILUPPO DELLA MIA MENTE E DEL MIO CARATTERE.

Quando un editore tedesco mi invitò a scrivere un resoconto sul mio sviluppo intellettuale e spirituale, con l’aggiunta di qualche notizia su fatti della mia vita, pensai che il tentativo di comporre un’autobiografia mi avrebbe divertito e che essa avrebbe potuto interessare i miei figli e i loro discendenti. Sarebbe stato molto interessante per me leggere qualche notizia, anche breve e insignificante, scritta da mio nonno sulla sua vita intellettuale e spirituale, su quello che pensò, su quanto fece, e sul suo metodo di lavoro. Ho cercato di scrivere questi appunti su me stesso, come se fossi un uomo morto che dall’altro mondo si volge indietro a considerare la propria vita passata. La cosa non è stata difficile, perché la mia vita volge ormai al termine. Nello scrivere non mi sono troppo preoccupato dello stile.
Sono nato a Shrewsbury il 12 febbraio 1809. Mio padre diceva che le persone dotate di notevole intelligenza conservano memoria di fatti avvenuti in periodi molto precoci della loro vita. Questo non è il caso mio, perché i miei primi ricordi risalgono solamente a quando avevo quattro anni e alcuni mesi, cioè al tempo in cui andai con la famiglia nei pressi di Abergele per i bagni di mare; di quella vacanza rammento alcuni luoghi e fatti con una certa chiarezza.
Mia madre morí nel luglio del 1817 quando avevo da poco compiuto otto anni, ed è strano che non ricordi quasi nulla di lei, a eccezione del letto di morte, della sua lunga veste di velluto nero e del suo tavolo da lavoro, di singolare fattura. Credo che tanta dimenticanza sia dovuta in parte al fatto che le mie sorelle, chiuse nel loro grande dolore, non sono state mai capaci di parlare di lei e neanche di pronunciare il suo nome, e in parte alla sua precedente infermità. Nella primavera dello stesso anno fui iscritto a una scuola di Shrewsbury, dove rimasi un anno1. Prima di frequentare la scuola, la mia istruzione era stata affidata a mia sorella Caroline; non saprei dire con quanto successo. Mi è stato detto che nell’apprendere ero molto piú lento della mia sorella minore, Catherine; credo d’essere stato, per molti aspetti, un discolo. Caroline era molto gentile, intelligente e zelante, anche troppo, nel cercare di migliorarmi; ricordo infatti molto bene, a distanza di tanti anni, che quando stavo per entrare in una stanza dove si trovava Caroline, mi domandavo: «Cosa avrà, ora, da rimproverarmi?» E cercavo di farmi forza in modo da non curarmi di quanto mi avrebbe detto.
Quando incominciai a frequentare la scuola, il mio interesse per la storia naturale e specialmente il desiderio di far collezioni era ben sviluppato. Tentavo di trovare il nome delle piante e facevo raccolta di ogni sorta d’oggetti: conchiglie, sigilli, bolli, monete e minerali. La mania di far collezioni, che può condurre un uomo a diventare un naturalista sistematico, un conoscitore d’arte oppure un avaro, era molto pronunciata in me e sicuramente innata, poiché nessuno dei miei fratelli o sorelle ha avuto mai tale gusto.
Un piccolo avvenimento di quell’anno si è fissato tenacemente nella mia memoria e vorrei credere che ciò sia dovuto al fatto che, in seguito, la mia coscienza ne è stata dolorosamente turbata; è un avvenimento curioso, in quanto dimostra che già a quell’età avevo interesse per la variabilità delle piante. Dissi a un ragazzo (credo che fosse Leightoni2, il quale divenne poi un botanico e noto studioso di licheni) che ero in grado di ottenere polianti e primule di vari colori innaffiandoli con certi liquidi colorati, ciò che naturalmente era un’assurda invenzione né io avevo mai tentato alcunché di simile. Devo anche confessare che da bambino ero molto portato a raccontare cose false, sempre allo scopo di provocare interesse. Una volta, per esempio, raccolsi dei frutti molti belli dagli alberi di mio padre e li nascosi fra gli arbusti, poi corsi a perdifiato per diffondere la notizia che avevo scoperto un mucchio di frutti rubati3.
Pressappoco in questo periodo o forse, spero, quand’ero un po’ piú piccolo rubavo talvolta i frutti per mangiarli, e per procurarmeli mettevo in opera un piano ingegnoso. La sera l’orto era chiuso a chiave; era circondato da un alto muro, del quale, però, con l’aiuto degli alberi vicini potevo raggiungere facilmente la sommità. Poi fissavo un lungo bastone nel foro del fondo di un vaso da fiori piuttosto grande; con il bastone spiccavo pesche e susine che cadevano nel vaso e il mio bottino era cosí assicurato. Ricordo che da bambino molto piccolo, rubavo le mele dal frutteto per portarle a certi bambini e giovanotti che vivevano in una casetta non lontana; ma prima di dare loro i frutti dimostravo la mia velocità nella corsa; ed è incredibile ch’io non mi rendessi conto che la sorpresa e l’ammirazione che essi mostravano di provare per la mia bravura nella corsa era dovuta unicamente alle mele! Ma ricordo molto bene la mia felicità quando dicevano di non aver mai visto un bambino correre cosí veloce.
Degli anni trascorsi alla scuola del signor Case ricordo distintamente un altro avvenimento: i funerali di un soldato dei dragoni; rivedo ancora con grande precisione il cavallo, con gli stivali e la carabina che penzolavano dalla sella; e risento la scarica di fucileria sulla tomba. Questa scena colpí profondamente quel po’ di immaginazione poetica che era in me4.
Nell’estate del 1818 fui ammesso alla grande scuola del dottor Butler a Shrewsbury, dove rimasi per sette anni fino all’estate del 1825, cioè fino all’età di sedici anni. Ero a convitto, ed ebbi perciò il grande vantaggio di vivere pienamente la vita scolastica; ma poiché la scuola era a poco piú di un miglio dalla mia casa, molto spesso facevo una corsa fin là, negli intervalli fra la fine delle lezioni e la chiusura notturna. Credo che anche questo sia stato un vantaggio, perché mi dette la possibilità di coltivare gli affetti e di mantenere l’interesse alla vita della famiglia. Ricordo che nel primo periodo della mia vita scolastica facevo gran corse per arrivare in tempo, il che generalmente mi riusciva perché ero un buon corridore; ma quando temevo di non farcela chiedevo ardentemente aiuto a Dio, e ricordo di aver spesso attribuito il buon esito della corsa alle preghiere anziché alla mia velocità, e di essermi meravigliato di quanto spesso le mie preghiere fossero esaudite.
Mio padre e le mie sorelle maggiori dicevano che fin da quando ero bambino avevo una strana inclinazione per le lunghe passeggiate solitarie; ma non so quali pensieri mi accompagnassero. Spesso camminavo completamente assorto; e una volta, mentre tornavo a scuola lungo la parte piú alta delle antiche mura di cinta di Shrewsbury, che erano un pubblico sentiero senza parapetto da un lato, andai oltre il sentiero e caddi di sotto. Fortunatamente fu solo un salto di sette o otto piedi5; ma un grandissimo numero di pensieri attraversarono la mia mente in quella caduta rapida e inaspettata, e ciò non sembra d’accordo con quanto hanno dimostrato i fisiologi: che ogni pensiero richieda un tempo non indifferente.
Quando incominciai a frequentare la scuola dovevo essere un ragazzo molto semplice. Un giorno un mio coetaneo, Garnett, mi condusse in una pasticceria e prese alcuni dolci che non pagò perché il negoziante gli faceva credito. Appena usciti gli chiesi perché non avesse pagato, ed egli mi rispose prontamente: «Come? Non sai che mio zio ha lasciato una forte somma alla città a patto che ogni negoziante dia gratuitamente tutto ciò che vuole a chi porti il suo vecchio cappello e lo agiti in un modo particolare?» e mi mostrò quale fosse questo modo. Poi entrò in un altro negozio, dove pure gli si faceva credito, e chiese qualche piccolo oggetto muovendo il cappello nel solito modo; anche questa volta ricevé la merce senza pagare. Quando uscí mi disse: «Se ora tu vuoi andare nel negozio dei dolci (come ricordo bene la sua precisa ubicazione!) ti posso prestare il mio cappello e puoi avere tutto ciò che vuoi, se lo agiti nel modo opportuno». Accettai di buon grado la generosa offerta, entrai nel negozio e chiesi dei dolci, togliendomi il vecchio cappello nel modo convenuto. Stavo già per uscire quando il negoziante balzò su di me, sicché lasciai cadere i dolci e me la diedi a gambe: fuori fui accolto, con mio grande stupore, dalle risate del mio falso amico.
Posso dire, in mio favore, che ero un ragazzo di buoni sentimenti; e ciò era dovuto all’educazione ricevuta dalle mie sorelle e al loro esempio. Non so se la bontà sia una qualità naturale, cioè innata. Mi piaceva molto raccogliere le uova degli uccelli, ma non ne prendevo mai piú di uno da ogni nido, tranne una volta che le presi tutte quante, non per il loro valore, ma per fare una specie di bravata.
Avevo gran passione per la pesca con l’amo ed ero capace di star seduto per molte ore sulla riva di un fiume o di un laghetto, tenendo d’occhio il galleggiante; quando andai a Maer6 mi fu suggerito che potevo uccidere i vermi con acqua e sale, e da allora non ho mai piú infilzato un verme vivo, anche se ciò poteva comportare un minore rendimento nella pesca.
Quand’ero ancora bambino, nel periodo della scuola, o forse anche prima, commisi un’azione crudele: picchiai un cucciolo, al solo scopo, credo, di assaporare un senso di potenza; ma le percosse non dovettero essere troppo forti, perché il cucciolo non si lamentò. Di ciò sono sicuro e ricordo bene che il fatto avvenne in un punto molto vicino alla nostra casa. Questa azione mi pesò gravemente sulla coscienza e lo dimostra il fatto ch’io ricordo esattamente il luogo dove l’atto criminoso fu compiuto. Tanto piú forte fu il rimorso in quanto il mio amore per i cani era già allora una vera passione e tale rimase per lungo tempo. I cani stessi sembravano capírlo, perché ero capace perfino di farmi amare piú che i loro padroni.
Niente è stato tanto sfavorevole allo sviluppo della mia mente quanto la scuola del dottor Butler, che era esclusivamente a indirizzo classico, e nella quale non si studiava niente altro che un po’ di storia e di geografia antiche. Tale scuola fu per me assolutamente priva di valore educativo. Per tutta la vita non fui capace di servirmi perfettamente di una qualsiasi lingua. Nella scuola si dedicava particolare attenzione alla composizione in versi, ma io non seppi mai farla bene. Avevo molti amici con l’aiuto dei quali misi insieme una grande raccolta di versi antichi, che poi combinavo insieme, talvolta con l’aiuto di altri ragazzi, fino a comporli in un argomento. Si dava molta importanza alla ripetizione a memoria della lezione del giorno precedente, cosa per me molto facile perché ero capace d’imparare a memoria quaranta o cinquanta versi di Virgilio o di Omero, mentre stavo in cappella la mattina. Ma l’esercizio era completamente inutile, perché dopo quarantotto ore avevo dimenticato ogni cosa. Non ero pigro e, esclusa la composizione di versi, di solito lavoravo coscienziosamente ai miei classici, senza ricorrere ai traduttori. L’unico piacere che ricavai da questi studi lo ebbi da qualche ode di Orazio, che ammiravo molto. Quando lasciai la scuola non ero né troppo avanti né troppo indietro per la mia età; credo che mio padre e i miei maestri mi giudicassero un ragazzo mediocre, un po’ al di sotto del livello intellettuale medio. Mio padre mi disse una volta, con mia profonda mortificazione: «Non fai altro che andare a caccia, occuparti di cani, e catturare i topi, e sarai perciò una disgrazia per te stesso e per tutta la famiglia». Mio padre, l’uomo piú gentile che io abbia mai conosciuto, e di cui venero la memoria con tutto il cuore, doveva essere inquieto, per dirmi quelle parole un po’ ingiuste.
Desidero dedicare alcune pagine a mio padre che fu per molti aspetti un uomo notevole7.
Era alto circa sei piedi e due pollici, aveva le spalle larghe ed era molto corpulento: era l’uomo piú grosso che abbia mai veduto. L’ultima volta che si pesò era ventiquattro pietre8, ma in seguito aumentò ancora molto. Le sue doti principali erano la capacità di osservazione e la comprensione, che in nessun altro ho trovato mai superiori o uguali. Egli prendeva parte non soltanto ai dolori, ma ancor piú alle gioie altrui; e per questo cercava sempre di far piacere agli altri e, pur tenendosi lontano da ogni stravaganza, compiva molte azioni generose. Il signor B*** per esempio, un piccolo fabbricante di Shrewsbury, una volta si presentò a lui e gli disse che avrebbe fatto fallimento s’egli non gli avesse prestato immediatamente 10 000 sterline. Aggiunse che non poteva dargli alcuna garanzia legale. Mio padre, che aveva molto intuito, gli lasciò spiegare i motivi per cui avrebbe potuto contare sulla restituzione del denaro, capí che poteva prestargli fede e gli dette la somma, ch’era molto forte per lui, ancora assai giovane. Dopo un certo tempo le 10 000 sterline gli furono restituite.
Credo che fosse la sua comprensione a dargli un’illimitata capacità di ispirare fiducia, ed è probabilmente per questo ch’egli riuscí cosí bene nella professione di medico. Incominciò a esercitare quando non aveva compiuto i ventun anni e i suoi onorari, nel primo anno, gli permisero di tenere due cavalli e un servo. Nell’anno successivo la clientela si accrebbe e continuò ad aumentare per piú di sessantanni, fino a quando egli cessò di prestare la sua assistenza. Nella professione ebbe grandissima fortuna, sebbene da principio la odiasse: tanto, mi disse, che se avesse potuto contare su di un minimo assegno, o se suo padre gli avesse consentito una scelta, nulla al mondo lo avrebbe indotto a seguirla. Fino agli ultimi anni il pensiero di una operazione lo faceva quasi star male e non sopportava la vista di una persona sanguinante. Quest’orrore si è trasmesso a me e ricordo che mi assaliva quando, studente, leggevo di Plinio (mi pare) che moriva dissanguato in un bagno caldo9. Mio padre mi raccontò due strane storie sul dissanguamento. Una del tempo in cui, giovanotto, fu iniziato alla massoneria: un suo amico massone che fingeva di non conoscere il suo orrore per il sangue, gli aveva detto incidentalmente mentre si recavano ad una riunione: «Immagino che non ti dispiaccia di perdere qualche goccia di sangue!» Sembra che al momento della ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Autobiografia
  3. Introduzione alla presente edizione di Giulio Giorello
  4. Prefazione di Giuseppe Montalenti
  5. Premessa alla quarta edizione
  6. Nota al testo
  7. Introduzione all’edizione inglese di Nora Barlow
  8. Autobiografia 1809-1882
  9. Appendice
  10. Note
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright