Miracoli e traumi della comunicazione
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Miracoli e traumi della comunicazione

  1. 160 pagine
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Miracoli e traumi della comunicazione

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Come raccontare il periodo che va dalla fine degli anni Sessanta a oggi? Per comprendere quanto è avvenuto, le categorie tradizionali della cultura e della politica sembrano inadeguate. Ci si è trovati dinanzi a eventi, come il Maggio francese del '68, la Rivoluzione iraniana del 1979, la caduta del muro di Berlino del 1989 e l'attacco alle Torri gemelle di New York dell'11 settembre 2001, nei confronti dei quali tutti hanno esclamato: «Impossibile, eppure reale!» Questi fatti hanno avuto grandissime conseguenze su tutti gli aspetti della vita individuale e collettiva, destabilizzando radicalmente le istituzioni, i costumi sessuali e il modo di sentire di intere generazioni. È nato un nuovo regime di storicità, caratterizzato dall'esperienza di fenomeni che sono vissuti ora come miracoli e ora come traumi, perché sembrano inaccessibili a una spiegazione razionale e a una narrazione coerente.
L'autore, che ha vissuto con partecipazione emozionale e con vigilanza intellettuale le vicende di questo periodo storico, prestando una continua attenzione ai mutamenti e interrogandosi sul loro significato, propone criteri di intelligibilità che aiutino a cogliere la sostanziale unità di questo quarantennio, nel quale la possibilità di una vera azione politica, sessuale e letteraria è venuta meno: in tutti questi ambiti il posto dell'azione è stato preso dalla comunicazione, con effetti insieme devastanti e comici.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858416372

Introduzione

Impossibile, eppure reale!

Raramente e solo in tempi molto recenti, l’umanità si è posta la domanda sul senso di ciò che viveva individualmente e collettivamente: la stragrande maggioranza degli esseri umani, in passato, è stata assorbita dalla preoccupazione di riuscire a sopravvivere e possibilmente a vivere con meno fatica e piú beni a disposizione. Il senso della vita individuale e collettiva non costituiva un problema, perché la risposta era già fornita dalla condizione sociale in cui si nasceva, dal sapere tramandato e dai rituali.
Tuttavia, a partire dai tempi moderni, e specialmente nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento, si sviluppò in Occidente soprattutto nelle classi che avevano raggiunto il benessere attraverso l’esercizio di attività amministrative, commerciali e industriali, la tendenza a cercare anche nello svolgersi della vita individuale e sociale l’esistenza di principî razionali, se non addirittura di leggi, che, similmente a quanto avveniva nelle scienze, avrebbero consentito non solo di capire ciò che avveniva, ma perfino di prevedere ciò che sarebbe accaduto senza ricorrere alla divinazione e alle arti magiche. La grande fioritura della letteratura narrativa e della storiografia nell’Ottocento e nel Novecento rispose proprio alla pretesa di attribuire un senso nuovo e originale alle vite degli individui e delle collettività, in modo da inserirle in un piano di sviluppo che poteva individuare con relativa attendibilità i segni di un progresso o di un regresso nello svolgersi delle vicende personali, familiari, istituzionali, economiche, politiche, sociali e culturali e consentiva cosí la possibilità di un’azione capace di intervenire in modo efficace sullo svolgersi degli eventi.
Tutta questa immensa opera di razionalizzazione della vita privata e collettiva su cui si è fondata la civiltà occidentale e che le ha garantito la conquista del mondo, ha funzionato abbastanza bene fino alla fine della seconda guerra mondiale, trovando il suo compimento nella vittoria sul nazifascismo e nell’asservimento di una grande cultura che era riuscita a sottrarsi alla colonizzazione euroamericana, quella giapponese. Nonostante gli infiniti orrori, stragi, eccidi, genocidi e catastrofi varie, di cui è costellato questo periodo storico, c’è un certo numero di spiegazioni di tali eventi, diverse e anche opposte tra loro, che forniscono delle chiavi di lettura abbastanza plausibili.
Le generazioni che crebbero dopo la fine della seconda guerra mondiale non hanno ereditato questa concezione del mondo basata sull’importanza decisiva dell’azione individuale e collettiva e sul carattere razionale e progressivo della storia: tale concezione è diventata per loro tanto piú estranea quanto piú la loro data di nascita si allontanava dalla fine della seconda guerra mondiale. Esse sono state testimoni di eventi del tutto imprevedibili, il cui significato resta tuttora opaco e indecifrabile fintanto che si ricorre ai concetti e alle nozioni che hanno dominato nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento. Queste generazioni si trovano perciò oggi nella condizione di non aver ancora capito niente degli eventi che hanno vissuto e nei quali hanno perfino talora pensato di giocare il ruolo di protagonisti.
Dalla fine della seconda guerra mondiale sono accaduti in Occidente quattro fatti imprevedibili che hanno colto di sorpresa anche il pubblico piú informato: il Maggio francese del ’68, la Rivoluzione iraniana del febbraio 1979, la caduta del muro di Berlino nel novembre 1989 e l’attentato alle Torri gemelle di New York nel settembre 2001. Nei confronti di questi fatti la stragrande maggioranza delle persone ha fatto propria una frase dello scrittore francese Georges Bataille, impossible et pourtant là («impossibile, e nondimeno qui!»). Infatti, quanti previdero che una rivolta di studenti parigini avrebbe dato luogo al piú grande sciopero selvaggio della storia? Che una monarchia sostenuta dal forte appoggio americano e da un sistema repressivo spietato sarebbe stata rovesciata in pochi mesi da una rivolta popolare diretta dal clero? Che un regime costruito su una fittissima rete poliziesca di delatori e di spie si sarebbe dissolto rapidamente? Che, infine, diciannove kamikaze sarebbero riusciti a portare a termine con successo un devastante attentato sul suolo americano?
È noto che i contemporanei non sono i migliori conoscitori del loro presente: la maggior parte della gente non vive nell’attualità, e anche i meglio informati si sbagliano. Proverbiale è diventato l’esempio di Lenin che, poche settimane prima dello scoppio della rivoluzione russa, diceva agli operai svizzeri che sarebbe morto prima che questa avesse luogo. In linea di massima, il senso di ciò che è stato vissuto individualmente e collettivamente si scopre solo alla fine. È sempre stato difficile prevedere l’avvenire: tuttavia gli eventi successivi agli anni Sessanta del Novecento presentano un aspetto piú refrattario alle interpretazioni che si valgono delle categorie storiche e ideologiche moderne.
Questi eventi appaiono piú come miracoli che come compimenti di processi di cui si conosce lo svolgimento o realizzazioni di utopie; piú come traumi che come tragedie o catastrofi di cui sia possibile elaborare il lutto. Certo è che nel momento in cui la società umana sembra diventare piú razionale grazie alle straordinarie invenzioni della tecnoscienza, irrompono nell’esperienza individuale e storica fatti che sembrano caratterizzati da un’irrazionalità che appartiene all’orizzonte artistico e religioso piú che a quello scientifico e filosofico, piú a sindromi psicotiche che all’esplosione di contraddizioni o a crisi che possono essere superate.
Se si guarda alla verità effettuale della cosa, i quattro fatti di cui si è parlato sono meno importanti di quanto sembra a prima vista. Nel 1968, dopo lo sciopero selvaggio, tutti sono tornati a lavorare. La Rivoluzione iraniana non si è propagata a tutto l’Islam ed è rimasta confinata in un solo paese. La condizione socioeconomica dei tedeschi dell’est è ancora molto inferiore rispetto a quella dei tedeschi dell’ovest. I danni recati dall’attacco alle Torri gemelle sono stati, da un punto di vista militare, insignificanti. In questi fatti presi in se stessi e isolati dalle loro conseguenze c’è qualcosa di ironico. Del Maggio francese un filosofo diceva: Le sang n’a pas coulé, donc rien s’est passé («Il sangue non è colato, dunque nulla è avvenuto»). Nel caso iraniano di sangue invece ne è colato moltissimo, ma la rivoluzione non ha raggiunto gli obiettivi che si proponeva. Quanto alla caduta del muro di Berlino, vale un celebre aforisma di Stanisław Lec: «Un domani migliore non dà mica la certezza di un dopodomani ancora migliore». Per quanto riguarda le Torri gemelle, è ancora Lec a venirci in aiuto: «Chissà, forse le mura di Gerico sono crollate per il troppo strombazzare all’interno?» Si è tentati di condividere l’atteggiamento ironico che lo storico tedesco Jakob Burckhardt nutriva nei confronti del processo storico.
Eppure chi potrebbe negare l’impatto immaginativo e affettivo che questi quattro eventi hanno scatenato?
Bisogna approfondire le nozioni di miracolo e di trauma per capire quanto queste siano lontane dalla sensibilità e dalle categorie filosofiche, politiche e sociali dell’Ottocento e del primo Novecento. Per Bataille il miracolo definisce l’esperienza della sovranità che si manifesta quando riusciamo a sottrarci al mondo dell’utilità e ad accedere a una piena esperienza del presente. Ciò avviene, secondo Bataille, in una serie di eventi che comprendono l’arte e il sacro, il riso e il pianto, la sessualità e la morte. L’incontro con questi eventi genera una specie di ebbrezza, una sensazione miracolosa, l’ingresso in uno stato straordinario che emancipa dalle catene del quotidiano. Perciò il termine non deve essere inteso con esclusivo riferimento a una trascendenza. Per Bataille, le parole miracle e miraculeux vanno intese in un senso letterale: dal latino mirus che vuol dire mirabile, meraviglioso, sorprendente. Il contesto cui rimanda il miracolo per Bataille è connesso con l’etimologia di mirus che presenta un’affinità con la radice indoeuropea da cui proviene il greco μειδιάω, che vuol dire sorridere, da cui l’inglese smile. Del resto solo l’essere umano sorride. Se in altri libri, Bataille è stato il fondatore di un’antropologia erotica, la quale vedeva appunto nell’erotismo il carattere distintivo dell’essere umano, qui la direzione sembra andare verso un’antropologia sorridente: infatti l’istante miracoloso è quello in cui l’attesa si risolve in niente! Bataille sembra ripetere la famosa definizione di Kant, secondo cui il riso è un’affezione che deriva da un’aspettazione tesa, la quale d’un tratto sfuma nel nulla.
Nell’espressione francese impossible et pourtant là c’è una particolarità linguistica della lingua francese assai significativa. Colpisce innanzitutto il fatto che il francese corrisponda al qui italiano. Per esempio, le espressioni Que fais-tu là? si traduce «Cosa fai qui?». Les faits sont là si traduce «Questi sono i fatti». Impossible et pourtant là! Questa espressione francese risulta intraducibile in altre lingue, ma esprime molto bene la stranezza dei quattro eventi. Essa implica un certo spostamento, un décalage, uno shift rispetto alla verità effettuale della cosa. Perché in francese si adopera invece di ici? L’avverbio francese è ambivalente; esso implica insieme presenza e lontananza.
Si tratta di una sfumatura molto importante. Infatti, essa rinvia a un altro che non si esaurisce nel fatto in sé, ma implica una pluralità enormemente piú ampia di memorie e di attese, di illusioni e di interessi. Sicché non è errato attribuire a questi fatti un significato paradigmatico che li trasforma in spartiacque tra quattro diverse epoche: l’età della comunicazione, della deregolamentazione, della provocazione e infine della valutazione.
Com’è noto, per Bataille i momenti sovrani per eccellenza nei quali si manifesta qualcosa d’inatteso, insperato e ritenuto fino allora impossibile, sono quelli in cui la morte e la sessualità si avvicinano fino a confondersi l’una con l’altra. Qui invece abbiamo che fare con fatti che riguardano non solo le esperienze private, ma anche quelle collettive, vale a dire la storia. Certamente anche per Bataille la storia è stata oggetto di una riflessione costante e tenace: tuttavia egli ha pensato la sovranità quasi sempre con riferimento a epoche remote nello spazio o nel tempo. Sono l’antropologia e l’antichità a fornirgli i riferimenti e gli esempi della sovranità pubblica, non il mondo a lui contemporaneo: il potlatch, le piramidi, i sacrifici, la grande arte del passato. Capitalismo e comunismo, i due modelli di società che si sono contrapposti nella sua epoca, restano per lui entrambi sottomessi alla logica servile del lavoro e dell’utilità e perciò inaccessibili all’irruzione dell’impossible et pourtant là.
Bataille muore nel 1962; pochi mesi dopo, l’ordine mondiale delle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale sembra dare qualche segno di cedimento. A causa dell’installazione di basi missilistiche a Cuba, dove Castro aveva instaurato un regime comunista, i rapporti tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica paiono sul punto di una rottura irreparabile. La terza guerra mondiale sembra imminente, ma questa non avviene! Tuttavia al posto della logica del risparmio e del lavoro, che è stata l’oggetto della critica di Bataille, compare all’orizzonte l’estetica del consumo e dello spettacolo. L’homo ludens, che era stato messo nell’angolo dall’homo laborans del razionalismo ottocentesco, fa il suo ritorno alla grande e si attende il suo benessere dalla dea Fortuna: il miracolo prende il posto del piano programmatico, l’inaspettato dell’attesa, il meraviglioso dell’interessante. Il surrealismo non ha piú ragione di esistere, perché è realizzato: il meraviglioso è messo alla portata di tutti.
Lentamente la società occidentale comincia a essere pervasa da una mentalità miracolistica, al cui diffondersi un contributo determinante è dato dagli sviluppi di una tecnoscienza vissuta come fantascienza in procinto di realizzarsi, significativamente accompagnata dal declino nella maggior parte della popolazione delle conoscenze tecnico-scientifiche elementari. Un contributo ancora piú importante all’avvento della mentalità miracolistica è recato dai mezzi di comunicazione di massa che proprio a partire dagli anni Sessanta giocano un ruolo molto maggiore che in passato, per la diffusione della televisione e per l’effetto di feedback esercitato sugli agenti: a dire impossible et pourtant là non sono solo gli spettatori, ma anche gli attori degli eventi, i quali sono i primi a meravigliarsi del rilievo dato dai media alle loro performance e dell’interesse con cui ne seguono gli sviluppi. Le loro parole e i loro comunicati diventano immediatamente una parte essenziale degli eventi influenzandone in modo molto rilevante lo svolgimento; la verità effettuale della cosa è sommersa e scompare sotto una quantità enorme di parole e di immagini trasmesse in tutto il mondo.
Il miracolismo mediatico genera in tutti un’eccitazione assolutamente sproporzionata rispetto all’effettivo peso di avvenimenti che si presentano e che spesso sono effettivamente inauditi, ma nasconde una situazione storica che si è fermata alla fine della seconda guerra mondiale. Sono tuttora i vincitori della seconda guerra mondiale a tenere saldamente in pugno i destini del mondo attraverso i seggi con diritto di veto che occupano all’Onu e una fitta trama di rapporti finanziari, economici e militari poco trasparenti. Quando questo equilibrio sembra essere messo in pericolo, esso viene piú o meno prontamente ristabilito. Per esempio, nel 1971, in un momento di grande incertezza finanziaria a causa del crollo del sistema monetario internazionale stabilito nel 1944 a Bretton Woods, il seggio all’Onu con diritto di veto occupato da Taiwan viene dato per iniziativa americana alla Repubblica Popolare Cinese. Analogamente, negli anni successivi al 1991 è stato nell’interesse delle altre quattro grandi potenze evitare che il crollo dell’Unione Sovietica conducesse alla guerra civile e permettere alla Russia di tornare a essere una grande nazione. Tutto sommato, neanche cosí poi è andata male! La guerra fredda non è mai diventata calda, i conflitti sono rimasti locali, i successi del terrorismo islamico, immergendo in un clima di paura l’America e l’Europa, hanno impedito finora che i movimenti alterglobalisti (Seattle nel dicembre 1999, Genova nel luglio 2001, Londra e centinaia di altre città nel mondo nel febbraio 2003), acquistassero un vero significato politico creando scenari incontrollabili e facendo entrare in gioco altre nazioni e continenti.
Anche sul piano degli orizzonti e delle prospettive delle vite individuali, vale la pena di chiedersi se qualche cosa di veramente importante sia avvenuto: la vita dei singoli valeva poco in passato, e vale molto meno oggi. Le grandi ideologie dell’Ottocento e del primo Novecento conferivano a coloro che le facevano proprie un’aureola eroica; quanti le rifiutavano ricevevano proprio da questo rifiuto un sovrappiú di grandeur. Il miracolismo mediatico ha invece reso futili e vuote le esistenze individuali e le relazioni di parentela: esse non sono piú argomento di romanzi, ma al massimo di storiette. La cosiddetta «rivoluzione sessuale» si è rivelata una beffa. La mobilità sociale ed economica è oggi molto minore di quanto è stata negli anni successivi alla fine della seconda guerra mondiale. Il disfacimento delle istituzioni scolastiche e universitarie rende impossibile il riconoscimento dei meriti e delle eccellenze. Tutto sommato, neanche cosí poi è andata male! Si ama e si odia molto meno; il posto delle passioni è stato preso da piccole attrazioni che non hanno la forza di legare le persone per la vita e la morte e da piccole invidie che non hanno la forza di uccidere. Si vive pericolosamente solo per gioco o per soldi. La legge di sopravvivenza del piú adatto fa sí che chi non ha il gusto del miracoloso si autodistrugga senza spiacevoli interventi esterni.
Certamente ne hanno sofferto il capire, il sentire e l’agire, vale a dire la possibilità dell’esperienza umana nel suo complesso. Non che siano mancati grandi pensatori, in gran parte francesi e tedeschi, che hanno aperto nuovi orizzonti essenziali per la comprensione del mondo attuale, ma la loro trasformazione in divi dello spettacolo e l’impossibilità di avere una reale influenza sui loro seguaci ha fatto sí che le loro vite personali finissero in fallimenti esistenziali: chi è entrato in conflitto con i propri sostenitori e ne è rimasto talmente turbato da morirne, chi ha ucciso la moglie, chi è rimasto vittima di dipendenze fatali, chi si è gettato dalla finestra, chi ha finito per diventare la caricatura di se stesso, chi, dopo aver scritto e parlato incessantemente per decenni in ogni parte del mondo, prossimo a morire ha avuto l’impressione di essere stato totalmente frainteso. Ciò che desta stupore è l’enorme sproporzione tra la notorietà mondiale e la mancanza di una vera influenza capace di incidere sulla vita degli ascoltatori e dei lettori. Gli artisti hanno capito molto piú rapidamente la futilità del miracolismo mediatico e l’hanno cavalcato alla grande, specie se americani. Alcuni leader religiosi e personaggi del jet set non sono stati da meno.
L’altra faccia del miracolo è il trauma che, nella sua dimensione collettiva, è stato riservato agli stati dell’America latina, dell’Asia, dell’Africa e dei Balcani. Le dittature militari latinoamericane degli anni Settanta, il regime dei khmer rossi in Cambogia dal 1975 al 1979, le numerose guerre civili africane succedute alla decolonizzazione, i massacri nei Balcani degli anni Novanta, nonché le guerre dell’Afghanistan, la prima e la seconda guerra dell’Iraq sono stati traumi immani differenti dagli eccidi e dai genocidi del passato. Essi si sono configurati come eventi nei confronti dei quali vale la stessa espressione che adoperiamo nei confronti dei miracoli: «Impossibile, eppure reale!» Per molte di queste terribili vicende, che si sottraggono clamorosamente alla tesi della razionalità della storia, possono essere addotte spiegazioni di vario genere.
Ciò che colpisce, tuttavia, non è tanto che siano avvenute, ma che i loro responsabili abbiano per lo piú goduto di impunità e soprattutto non siano stati inseguiti dalla sete di giustizia dei sopravvissuti, come per esempio è avvenuto per la Shoah. Non bastano il disinteresse delle grandi potenze, che sono state in gran parte complici di tali eccidi, né le protezioni occulte di cui hanno goduto gli assassini a spiegare la facilità con cui questi sono in massima parte riusciti a uscire indenni dalle conseguenze dei massacri di cui sono stati gli autori, nonostante tante inchieste giornalistiche abbiano mostrato al mondo intero le atrocità compiute e fornito prove inoppugnabili di queste. Resta qualcosa di incomprensibile nell’assenza di reazioni effettive da parte di coloro che le hanno subite. Non solo nei confronti di ciò che è avvenuto, ma anche di ciò che non è avvenuto, ritorna l’espressione: «Impossibile, eppure reale!» Sembra che le denunzie giornalistiche e qualche iniziativa giudiziaria senza efficacia siano state ritenute sufficienti a riscattare e a redimere gli orrori avvenuti. C’è nel cosiddetto «buonismo» e «perdonismo» qualcosa che appartiene intimamente al mondo della comunicazione e alla futilità nel quale anche la verità effettuale delle cose piú atroci è sprofondata.
La nozione di trauma, intesa come una ferita psichica provocata da una violenza esterna, che non può essere elaborata psichicamente e quindi superata attraverso il lavoro analitico, sembra la piú adatta a descrivere la condizione che, insieme a quella di miracolo, ha caratterizzato il modo di sentire dagli anni Sessanta del Novecento in poi. Il trauma resta nella psiche come un corpo estraneo del quale non si riesce a trovare una spiegazione logica convincente, esattamente come avviene nel caso del miracolo, generando uno stato di impotenza e di frustrazione che non si riesce a superare. Esso è qualcosa di non interpretabile e non assimilabile fintanto che si resta in un orizzonte psichico meramente soggettivo.
Lo psicanalista francese Jean Laplanche, che ha dedicato una grande attenzione al trauma, ha introdotto una nozione molto interessante, quella di impianto, di invasione dell’inconscio in un’altra persona. L’inconscio non sarebbe dunque un’istanza autonoma del soggetto, ma qualcosa che proviene dall’esterno. Infatti, secondo Laplanche, i bambini non hanno inconscio. Ciò non vuol dire ovviamente che esista un’occulta complicità tra persecutori e vittime, ma che entrambi fanno parte dello stesso mondo che è retto dall’«impossibile, eppure reale!». In altri termini, i traumatizzati non sono soltanto coloro che subiscono la violenza, ma già quelli che la esercitano.
Il fatto che i grandi traumi collettivi abbiano riguardato, nel periodo successivo alla fine della seconda guerra mondiale, solo paesi marginali rispetto al cosiddetto «primo mondo», non deve ingannare. Il traumatismo mediatico è solidale col miracolismo mediatico. I media si nutrono insieme di miracoli e di traumi. Gli spettatori dei telegiornali sono sempre nell’attesa di un evento traumatico che non li riguardi personalmente. Questo luogo lontano, sede di atrocità inimmaginabili, gioca lo stesso ruolo che l’Australia ha svolto per gli inglesi dal 1787 al 1868, data dell’ultimo invio di prigionieri. Tuttavia dopo l’11 settembre 2001 a New York, l’11 marzo 2004 a Madrid, il 7 luglio 2005 a ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Miracoli e traumi della comunicazione
  3. Introduzione. Impossibile, eppure reale!
  4. I. L’età della comunicazione (1968-1978)
  5. II. L’età della deregolamentazione (1979-1989)
  6. III. L’età della provocazione (1989-2001)
  7. IV. L’età della valutazione (2001-2009)
  8. Bibliografia
  9. Indice dei nomi
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso author
  13. Copyright