Racconti di Pietroburgo
eBook - ePub

Racconti di Pietroburgo

  1. 320 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Racconti di Pietroburgo

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

Il naso, Il ritratto, Il mantello: i racconti piú famosi dello scrittore russo. Un barbiere trova un naso nel panino che sta mangiando; un impiegato mite e solitario viene derubato del mantello nuovo e sarà vendicato dal suo fantasma; un uomo solo scrive un diario di fatti e date impossibili... Maestro del grottesco e del realismo fantastico, Gogol' reinventa la vita e ne rovescia il senso in una scrittura vivacissima, di pirotecnica originalità.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Racconti di Pietroburgo di Nikolaj Gogol', Tommaso Landolfi in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Letteratura e Classici. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858415474
Argomento
Letteratura
Categoria
Classici

Il ritratto

Parte prima

In nessun posto si fermava tanta gente quanta davanti alla bottega d’arte del Mercato Ščukin. E in verità questa bottega presentava la piú eterogenea accolta di cianfrusaglie: i quadri, la massima parte a olio, erano coperti da una vernice verde cupo, incorniciati d’un oro falso e ingiallito. Un inverno con alberi canuti, un tramonto invece completamente rosso, simile al riflesso d’un incendio, un contadino fiammingo colla pipa e il braccio dinoccolato, simile piuttosto a un gallo d’india vestito di gala che a un essere umano: tali ne erano i piú comuni soggetti. Cui bisogna aggiungere un certo numero di stampe: il ritratto di Hozrev-Mirza in berretto di montone, i ritratti di certi generali in tricorno col naso aquilino. Inoltre, le porte d’una simile bottega sono abitualmente tappezzate da una quantità di composizioni popolari stampate alla diavola su grandi fogli, le quali testimoniano delle qualità native del popolo russo. In una era visibile la reginotta Miliktrisa Kirbit′evna1, in un’altra la città di Gerusalemme, sulle cui case era steso senza riguardo un color rosso che invadeva parte del terreno e persino due contadini russi in preghiera, colle loro mitene. Gli acquirenti di tali produzioni abitualmente non sono molti, ma in compenso i curiosi sono una folla. Vi sarà certo un cialtrone di lacchè che sbadiglia lí davanti tenendo in mano dalla trattoria il portapranzo col desinare del padrone, il quale senza dubbio non mangerà la zuppa troppo calda. Piú innanzi vi sarà certo un soldato in gabbana, questo cavaliere del robivecchi, che sbarca il lunario vendendo qualche tagliapenne; o una merciaia ambulante del sobborgo di Ochta, con una scatola piena di ciabatte. Ciascuno s’estasia a suo modo: i contadini abitualmente puntano le dita; i militari esaminano i quadri con serietà; i garzoni e gli apprendisti ridono e si sbuffoneggiano prendendo pretesto dalle caricature; i vecchi domestici, in gabbane di tela di Frisia, guardano solo perché non hanno altro posto dove andare a sbadigliare, e le merciaie, da brave donne russe, accorrono per istinto, allo scopo di udire di che ciancia la gente e di vedere quello che tutti guardano.
Il giovane pittore Čartkov, che si trovava a passare di là, involontariamente si fermò davanti a questa bottega. La sua vecchia palandrana e l’abito trasandato mostravano in lui un uomo dedito con abnegazione al proprio lavoro e che non aveva tempo d’occuparsi del proprio abbigliamento, il quale ha sempre, pure, un segreto fascino per la gioventú. Si fermò egli davanti alla bottega e dapprima rise fra sé di quei pietosi quadri. Ma fu preso poi da un involontario pensiero: rifletteva a chi mai potessero servire simili produzioni. Che al popolo russo andassero a genio cose come Eruslan Lazarevič, Il mangione e il beone, Tommaso e Geremia2, di questo non si meravigliava: troppo accessibili e comprensibili al popolo erano i soggetti rappresentati; ma chi avrebbe comprato queste multicolori, terrose impiastricciature a olio? A chi potevano essere necessari questi contadini fiamminghi, questi paesaggi rossi e turchini che rivelano una vaga aspirazione verso uno stadio in qualche maniera già piú alto dell’arte, ma solo perché vi si rifletta tutto il suo profondo decadimento? Questa non era l’opera d’un fanciulletto autodidatta; in tal caso dalla squallida goffaggine dell’insieme sarebbe emerso, pure, un vivo slancio. Qui non si scorgeva che ottusità, impotente, decrepita piattezza, arbitrariamente introdottasi nell’ordine delle arti, quando il suo posto naturale sarebbe stato fra i piú bassi mestieri, piattezza fedele nondimeno alla propria vocazione sí da aver fatto dell’arte stessa un mestiere. Questi erano i colori, la fattura, la mano pesante e abitudinaria d’un grossolano automa, piuttosto che d’un essere umano!...
A lungo si fermò Čartkov davanti a queste croste, e già pensava a tutt’altro, ma intanto il padrone della bottega, un ometto grigio in mantello di tela di Frisia e con una barba della domenica precedente, gli andava già da tempo parlando, mercanteggiava, dichiarava prezzi, prima ancora di sapere che cosa gli piacesse o convenisse. – Guardate, venti rubli questi contadinotti e il paesaggetto. Che pittura! Vi spacca gli occhi addirittura; li ho appena ricevuti dalla sala di vendite; il colore non s’è ancora asciugato. Oppure ecco un inverno, prendete questo inverno! Quindici rubli! La sola cornice vale di piú! Guardate un po’ che specie d’inverno! – Qui il mercante applicò un leggero buffetto sulla tela, certo per mostrare tutta la bontà di quell’inverno. – Volete che ve li leghi insieme e ve li faccia portare? Dove abitate? Ehi, ragazzo, uno spago!
– Calma, amico, non cosí in fretta, – disse il pittore tornando in sé, quando vide che l’accorto mercante prendeva davvero a legare i quadri. E poiché gli pareva brutto non prender nulla, dopo essersi trattenuto tanto a lungo nella bottega, disse: – Aspetta, vediamo se c’è qualche cosa che fa al caso mio qui, – e, chinandosi, cominciò a trarre, da un voluminoso fastello lí in terra, dei vecchi dipinti mezzo scancellati e polverosi, che non godevano, sembrava, d’alcuna considerazione. C’erano dei vecchi ritratti di famiglia, i cui discendenti erano forse già scomparsi dalla faccia della terra; immagini irriconoscibili colla tela strappata; cornici che avevano perduto la doratura; in una parola ogni sorta d’anticaglie. Ma il pittore osservava ciò attentamente, e pensava in segreto: «Chi sa che non ne venga fuori qualcosa». Piú d’una volta aveva sentito dire di quadri di grandi maestri trovati per caso tra le cianfrusaglie d’una bottega d’antiquario.
Il padrone, visto dove il pittore s’era cacciato, smise la sua petulanza e, ripresa l’abituale posizione e la conveniente gravità, si pose di nuovo fuori della porta, dando la voce ai passanti e indicando loro la bottega con una mano: – Di qua, batjuška, ecco i quadri! Avanti, avanti; appena ricevuti dalla sala di vendite –. Gridò cosí fino a stancarsi, e per lo piú infruttuosamente; chiacchierò a sazietà col rigattiere di faccia, che anche lui se ne stava sulla soglia della sua bottega, e da ultimo, ricordandosi d’avere un cliente in bottega, voltò le spalle alla gente e rientrò. – Ebbene, batjuška? Avete trovato qualcosa? – Ma il pittore restava immobile davanti a un ritratto chiuso in una cornice a suo tempo magnifica, ma su cui ora appena brillavano le tracce della doratura.
Era un vecchio dal viso abbronzato, rinsecchito, dagli zigomi sporgenti; i lineamenti parevano colti in un istante d’agitazione convulsa e spiravano una forza che non era quella del settentrione: l’ardente mezzogiorno era impresso in quel volto. Il vecchio era drappeggiato in un ampio costume asiatico. Per quanto avariato e polveroso fosse il ritratto, quando Čartkov ebbe nettato il viso dalla polvere, vi scorse l’opera di un grande pittore. Il ritratto pareva non finito; ma la forza del tocco era stupefacente. La cosa piú straordinaria erano gli occhi: sembrava che in essi l’artista avesse impiegata tutta la forza del proprio pennello e tutta la propria cura. Essi, quegli occhi, guardavano davvero, guardavano dal quadro, quasi interrompendone l’armonia colla loro singolare vivezza. Portato il quadro vicino alla porta, gli occhi guardavano con intensità anche maggiore. La medesima impressione fecero ai presenti. Una donna che s’era fermata dietro a Čartkov esclamò arretrando: – Ma egli guarda, guarda! – In preda a un vago senso di malessere, incomprensibile a lui stesso, il pittore posò il quadro a terra.
– Ebbene? Prendete questo ritratto! – disse il padrone.
– Quanto? – disse il pittore.
– Diavolo, non mi butterò troppo in su; datemi settantacinque copechi!
– No.
– Allora quanto volete dare?
– Venti copechi, – disse il pittore disponendosi ad andarsene.
– Eh, che offerta! Piú di venti copechi vale soltanto la cornice! A questo prezzo lo comprerete un altro giorno. Signore, signore, venite qua! Aggiungete anche solo un piccolo pezzo da dieci copechi. Prendete, prendete, vada per venti copechi. Veramente, è proprio perché siete il primo compratore della giornata –. Dopodiché il mercante fece un gesto colla mano, come a dire: – Tanto peggio; ecco un quadro perduto!
In tal modo Čartkov si ritrovò inopinatamente padrone del vecchio ritratto, e pensava frattanto: «E perché l’ho comprato? Che me ne faccio?» Ma non c’era niente da fare. Egli trasse di tasca i venti copechi, li porse al padrone, prese il ritratto sotto il braccio e se lo portò via. Per la strada si sovvenne che quei venti copechi erano i suoi ultimi. I pensieri gli s’oscurarono improvvisamente; il dispetto e un’indifferente vuotaggine lo invasero nello stesso punto. – Al diavolo ogni cosa! Mondo cane! – diss’egli colla convinzione d’un russo cui vadano male gli affari. E quasi macchinalmente camminava a grandi passi, insensibile a tutto. Il rosso del crepuscolo indugiava ancora in mezzo al cielo, ancora le case volte a occidente erano un poco illuminate da quel tepido colore; e frattanto il chiarore freddo e azzurrato della luna diveniva già sensibile. Le ombre leggere, semitrasparenti, delle case e delle gambe dei passanti strisciavano a terra come code. A poco a poco il pittore prese a guardare il cielo illuminato d’una luce vaga e dubbiosa, diafana e sottile, e quasi contemporaneamente sfuggirono alle sue labbra le parole: – Che tono leggero! – e, in una, queste altre: – Che rabbia, al diavolo ogni cosa! – e, aggiustandosi sotto il braccio il ritratto, che sempre voleva scivolare, affrettò il passo.
Stanco e tutto in sudore, arrivò a casa sua, sulla Quindicesima Strada, all’Isola Basilio3. S’inerpicò faticosamente su per la scala inondata di risciacquature e costellata di tracce di cani e di gatti. Picchiò alla porta, ma non ebbe alcuna risposta: il domestico non era in casa. S’appoggiò allora alla finestra e si dispose ad aspettare pazientemente, finché come Dio volle risuonarono dietro a lui i passi di un ragazzotto in camicia turchina, suo servo, modello, stemperatore di colori e spazzatore di pavimenti, che però rinsudiciava tosto coi suoi propri stivali. Il ragazzo si chiamava Nikita e passava il suo tempo per la strada quando il padrone era fuori. Nikita si sforzò a lungo d’infilare colla chiave il buco della serratura, invisibile a causa dell’oscurità. Finalmente la porta fu aperta. Čartkov entrò nell’anticamera fredda da non si dire, come sempre a casa dei pittori, i quali tuttavia non se ne dànno alcun pensiero. Senza lasciare il mantello a Nikita passò, con quello indosso, nello studio, una camera quadrata, grande ma bassa, dalle finestre incrostate di gelo, ingombra d’ogni sorta d’artistico ciarpame: braccia di gesso, cornici, tele preparate, bozzetti cominciati e abbandonati, pezzi di stoffa drappeggiati sulle seggiole. Era molto stanco, si tolse il mantello, buttò distrattamente il ritratto che aveva portato fra due piccole tele e si gettò su uno stretto divano, di cui non si poteva dire che fosse ricoperto di pelle, giacché la fila di chiodi di rame che un tempo serviva a fissarla già da tempo era rimasta per conto suo, mentre la pelle s’era inarcata a sua volta per conto proprio, di modo che Nikita vi ficcava sotto le calze sporche, le camicie e in generale tutta la biancheria sudicia. Messosi a giacere, per quanto era possibile su quel divano, il pittore chiese finalmente una candela.
– Non ci sono candele, – fece Nikita.
– Come mai?
– Ma neanche ieri ce n’era, – disse Nikita. Il pittore si ricordò che, di fatto, neanche il giorno precedente c’erano candele, si mise l’animo in pace e tacque. Si lasciò svestire e infilò da ultimo la sua veste da camera, lisa fino alla trama.
– E anche, c’è stato il padrone, – disse Nikita.
– È venuto certo per i quattrini? Lo sapevo, – disse il pittore con un gesto indolente della mano.
– Ma non è venuto lui solo, – seguitò Nikita.
– E chi altro dunque?
– Non lo so, chi... qualcosa come un agente.
– E perché l’agente?
– Non lo so, perché; dice perché il quartiere non è stato pagato.
– Ebbe’, come andrà a finire?
– Non lo so, come andrà a finire; ha detto: «Dato che non vuole, allora, dice, lasci il quartiere». Devono tornare domani tutti e due.
– Lascia che vengano, – disse Čartkov con smorta indifferenza, e la sua cupa disposizione di spirito l’invase ormai completamente.
Il giovane Čartkov era un pittore dotato di talento e che prometteva molto: per accessi e a momenti, la sua pittura mostrava spirito d’osservazione, discernimento, e un vivo slancio verso la natura. – Sta’ attento, fratello, – gli diceva spesso il suo maestro, – tu hai certo del talento: sarebbe un peccato che lo buttassi via; ma sei impaziente; appena una cosa qualunque t’attrae o ti piace, non ti occupi che di quella, e il resto per te vale meno di niente, il resto non serve a niente e non lo degni neanche di uno sguardo. Sta’ attento di non diventare un pittore alla moda: già adesso il tuo colore comincia a essere troppo vistoso; il disegno non è sicuro, talvolta è addirittura debole, la linea è confusa; tu ricerchi gli effetti di luce alla moda, ciò che colpisce l’occhio di primo acchito... sta’ attento che non ti capiti di dare nella maniera inglese. Bada a te: il mondo già comincia ad attirarti; ti vedo qualche volta con un elegante fazzoletto al collo e il cappello lustro... È certo una tentazione, e ci si può buttare a far quadri alla moda per denaro; ma in questo modo il talento perisce, non si sviluppa. Pazienta; matura ogni tua opera; lascia perdere l’eleganza, i quattrini li raccolgano gli altri, cosí ciò che è davvero tuo non ti abbandonerà.
Il maestro aveva solo in parte ragione. Qualche volta, infatti, al nostro pittore veniva la voglia di far baldoria, di far la bella vita, insomma, di godersi la sua giovinezza; ma quasi sempre riusciva a dominarsi. Talora, afferrato il pennello, egli sapeva dimenticarsi e non si staccava dall’opera che come da un bel sogno che si debba interrompere. Frattanto il suo gusto si sviluppava sensibilmente. Ancora non capiva tutta la profondità di Raffaello, ma già era attratto dalla rapida, larga pennellata di Guido, si fermava davanti ai ritratti di Tiziano, s’estasiava dei Fiamminghi. Ancora l’oscurità che avvolge le opere degli antichi maestri non s’era interamente dissipata ai suoi occhi; ma già egli ne intendeva qualcosa, sebbene dissentisse intimamente dal suo maestro, che sosteneva essersi gli antichi elevati a un’altezza inaccessibile per noi: gli pareva anzi che il XIX secolo li avesse in qualcosa superati, e l’imitazione della natura si fosse ora fatta piú distinta, piú vivace, piú prossima; in una parola, egli la pensava su questo argomento come la pensa un giovane che abbia già realizzato qualcosa e che ne abbia il senso intimo e orgoglioso. Provava talvolta dispetto vedendo un pittore di passaggio, un francese o un tedesco, e qualche volta niente affatto pittore per vocazione, procurarsi col solo aiuto dei suoi procedimenti abituali, coll’arditezza della pennellata e la vistosità dei colori, generale rinomanza, e accumulare in un baleno un bel gruzzolo. Questi pensieri non gli venivano già in capo quando, tutto dedito al suo lavoro, si scordava persino di bere, di mangiare e d’ogni cosa al mondo, ma quando in ultimo la necessità lo stringeva forte, quando non c’era da comprare pennelli e colori, quando l’importuno padrone di casa veniva dieci volte al giorno a reclamare l’affitto. Allora la sua famelica fantasia gli mostrava degna d’invidia la sorte del pittore ricco; allora gli veniva persino la tentazione, come spesso capita ai russi, di mandar tutto al diavolo e di buttarsi per dispiacere alla deboscia, a dispetto d’ogni cosa. E adesso era quasi in una simile disposizione.
– Sí, pazienta, pazienta! – pronunciò con dispetto; – anche la pazienza ha finalmente una fine. Pazienta! E con quali quattrini mangerò domani? A prestito non ci sarà un cane che me li darà. E se andassi a vendere i miei quadri e disegni, me ne darebbero venti copechi fra tutti. Essi sono utili, certamente; questo lo sento: ognuno di essi non è stato intrapreso invano, ognuno di essi m’ha insegnato qualcosa. Ma a che servono? Studi, abbozzi – e ancora studi, abbozzi – e cosí la storia non finirà mai. E d’altronde chi li comprerà, essendo il mio nome sconosciuto? E a chi fanno comodo dei disegni scolastici, o i miei incompiuti Amori di Psiche, o la prospettiva della mia camera, o il ritratto di Nikita, sebbene, questo, sia, in coscienza, migliore dei ritratti di un qualunque pittore alla moda? Di che si tratta, in sostanza? Perché mi tormento io e, come uno scolaretto, m’affanno sull’abbiccí, quando potrei brillare né piú né meno degli altri ed essere come loro, coi quattrini?
Ciò dicendo, il pittore improvvisamente rabbrividí e impallidí: da una tela posata lí in terra un viso convulso lo guardava; due occhi terribili lo fissavano intensamente quasi preparandosi a divorarlo; la bocca imponeva minacciosamente il silenzio. Atterrito, egli volle gridare e chiamare Nikita, che già faceva udire dall’anticamera un eroico stronfio; ma all’improvviso si fermò e scoppiò a ridere; il senso di terrore si dissipò in un attimo: quello era il ritratto comprato poco prima, e di cui s’era completamente dimenticato. Il chiaro della luna, che illuminava la stanza, vi batteva contro e gli comunicava una strana vita. Il pittore, prese a esaminarlo e a pulirlo. Intrise d’acqua una spugna, ve la passò sopra parecchie volte, lo nettò di tutta la polvere e sporcizia che vi s’erano accumulate, lo appese davanti a sé sulla parete e poté ammirare ancora meglio la straordinaria opera: tutto il volto quasi viveva, e gli occhi lo guardavano in modo tale che alla fine egli rabbrividí, e traendosi indietro esclamò con voce attonita: – Ma esso guarda, guarda con occhi umani! – Gli venne alla mente a un tratto una storia che il suo maestro gli aveva raccontato tanto tempo fa, d’un ritratto del celebre Leonardo da Vinci su cui il grande maestro aveva lavorato parecchi anni, ma che stimava tuttavia incompiuto, sebbene, secondo le parole del Vasari, fosse da tutti giudicato opera delle piú compiute e rifinite. E i piú rifiniti erano appunto gli occhi, che suscitavano l’ammirazione dei contemporanei: neppure le minute, appena visibili venuzze che li attraversavano erano state dal pittore dimenticate. Ma qui, tuttavia, in questo ritratto che Čartkov aveva ora innanzi, c’era qualcosa di strano. Questa non era già piú arte: qui l’armonia del ritratto era persino interrotta; questi erano occhi vivi, occhi d’uomo! Si sarebbe detto che fossero stati strappati a un uomo vivo e incastonati nella tela. Non si provava, qui, quell’elevato godimento che può invadere l’anima a contemplar l’opera d’un pittore, per quanto spaventoso sia il suo soggetto: qui s’era invece invasi da una sensazione morbosa e tormentosa. «Che è questo? – si chiedeva involontariamente il pittore: – eppure questa è natura, natura vivente; da che viene un simile strano senso di malessere? Ovvero la servile, letterale imitazione della natura è già un delitto e suona come un grido acuto e disarmonico? Ovvero, a trattare freddamente e indifferentemente, senza partecipazione, un soggetto, quello deve di necessità presentarsi nella sua ripugnante realtà, non illuminato dalla luce dell’irraggiungibile pensiero nascosto al fondo di tutte le cose, presentarsi cogli attributi di quella realtà che scoprirebbe chi, volendo conoscere un bell’uomo, si armasse del coltello anatomico, lo squartasse e scoprisse cosí un uomo ripugnante? Perché la semplice, vile natura si rivela in un pittore in una certa luce, e non n’hai alcuna bassa impressione; al contrario ti pare di goderne, e, dopo, tutto scorre e si muove attorno a te piú calmo e uguale? E perché quella stessa natura appare, in un altro pittore, vile, sordida, e nondimeno anch’egli le è stato fedele? Ma no, non v’è in essa alcunché che l’illumini. Poco importa come sia in natura un paesaggio: per quanto incantevole voglia essere, manca sempre qualcosa, se in cielo non c’è il sole».
Čartkov s’avvicinò di nuovo al ritratto per osservare quei portentosi occhi, e notò con terrore che essi guardavano lui appunto. Questa non era una copia dal vero: questo era il ritratto di un morto levatosi dalla tomba. Fosse il lume della luna, che reca seco il delirio della fantasia e ogni forma converte in altra opposta a quella del positivo giorno, o fosse per diverso motivo, certo il pittore all’improvviso, non si sa perché, ebbe paura a star solo in quella stanza. S’allontanò piano dal ritratto, si volse da un’altra parte e si sforzò di non guardarlo, ma involontariamente l’occhio, per se stesso torcendosi, lo raggiungeva. Infine egli ebbe persino paura di passeggiare per la stanza; gli pareva che qualcun altro camminasse dietro a lui, e ogni volta si volgeva indietro spaventato. Non era mai stato pauroso; ma aveva la fantasia e i nervi sensibili, e quella sera non poteva egli stesso spiegarsi il suo involontario terrore. Sedette in un angolo, ma anche qui gli pareva che qualcuno, di minuto in minuto, lo guardasse in volto di sulla spalla. Lo stesso ronfare di Nikita, che risuonava dall’anticamera, non valeva a dissipare il suo spavento. Da ultimo, timorosamente, senza neppure alzar gli occhi, si levò dal suo posto, si diresse al letto dietro il paravento e si coricò. Attraverso una fessura del paravento vedeva la camera illuminata dalla ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Racconti di Pietroburgo
  3. Il naso
  4. Il ritratto
  5. La Prospettiva
  6. Il giornale di un pazzo
  7. Il mantello
  8. Appendice
  9. Pietroburgo 1836
  10. Roma (frammento)
  11. Nota del traduttore
  12. Il libro
  13. L’autore
  14. Dello stesso autore
  15. Copyright