Aracoeli
eBook - ePub

Aracoeli

  1. 344 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Aracoeli

Dettagli del libro
Anteprima del libro
Indice dei contenuti
Citazioni

Informazioni sul libro

«Mia madre era andalusa. Per caso, i suoi genitori portavano, di nascita, l'uno e l'altra, il medesimo cognome Munoz: cosí che lei, secondo l'uso spagnolo, portava il doppio cognome Munoz Munoz. Di suo nome di battesimo, si chiamava Aracoeli». Cosí ha inizio questo romanzo, in cui Manuele, quarantenne fallito e omosessuale infelice, rimpiange l'infanzia paradisiaca vissuta in simbiosi con la madre Aracoeli, una selvaggia ragazza andalusa sposata a un ufficiale della marina italiana. Per Manuele la fine dell'infanzia si configura come una cacciata senza colpa dall'Eden e il suo ricordo è prigione e sventura, poiché la madre, colpita da un morbo misterioso, è morta oltraggiando gli affetti famigliari con una furia demenziale e lussuriosa.

Domande frequenti

È semplicissimo: basta accedere alla sezione Account nelle Impostazioni e cliccare su "Annulla abbonamento". Dopo la cancellazione, l'abbonamento rimarrà attivo per il periodo rimanente già pagato. Per maggiori informazioni, clicca qui
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui
Entrambi i piani ti danno accesso illimitato alla libreria e a tutte le funzionalità di Perlego. Le uniche differenze sono il prezzo e il periodo di abbonamento: con il piano annuale risparmierai circa il 30% rispetto a 12 rate con quello mensile.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì, puoi accedere a Aracoeli di Elsa Morante in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Letteratura e Letteratura generale. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858415634

Elsa Morante

Aracoeli

Romanzo

Einaudi

Aracoeli è l’ultimo, e piú misterioso, romanzo di Elsa Morante. Lo cominciò nel 1976, dopo aver abbandonato il progetto di un altro romanzo dal titolo Superman, concepito l'anno precedente.
Aracoeli è una delle figure femminili che animano il manoscritto incompiuto Senza i conforti della religione: «e in quanto alla prima donna, essa era una spagnola di nome Aracoeli Sanchez; ma per lo schermo aveva già deciso di cambiare il proprio nome di Aracoeli in quello di Lara; mentre che Alfio, da parte sua, nei momenti affettuosi la chiama Celona, nei momenti ironici Celina...» Aracoeli nel romanzo Aracoeli conserva, oltre il nome, qualche tratto di quel personaggio e pure una bellezza andalusa. Il narratore della vicenda, Manuele, quarantenne fallito e omosessuale infelice, non sa smettere di rimpiangere l’infanzia paradisiaca vissuta in simbiosi con la madre Aracoeli, una selvaggia ragazza andalusa sposata a un ufficiale della marina italiana. Il rapporto tra madre e figlio, tema favorito nell’opera di Elsa Morante da L’isola di Arturo e Lo scialle andaluso a La Storia, è qui ripreso con maggiore strazio. Per Manuele la fine dell’infanzia si configura come una cacciata senza colpa dall’Eden e il suo ricordo è prigione e sventura, poiché la madre, colpita da morbo misterioso, è morta oltraggiando gli affetti famigliari con una furia demenziale e lussuriosa.
A distanza di anni, Manuele parte per l’Andalusia, alla scoperta del luogo natale di Aracoeli e del «mistero» della propria nascita. Il tema archetipo della fusione tra madre e figlio si sviluppa attraverso la struttura del viaggio di iniziazione, viaggio in un’epoca e in uno spazio storicamente connotati e al tempo stesso immersione nel buio dell’inconscio alla ricerca di una verità.
Durante i cinque anni di stesura di Aracoeli e le more della pubblicazione avvenuta nel novembre 1982, tutta la resistenza fisica di Elsa Morante fu consumata da una successione maligna di infortuni e di mali.
All’uscita di Aracoeli, impossibilitata a muoversi e a uscire di casa, costretta a letto tentò di uccidersi, aprendo tutti i rubinetti del gas. Sopravvisse in clinica fino al novembre 1985. Aveva 72 anni.

Mia madre era andalusa. Per caso, i suoi genitori portavano, di nascita, l’uno e l’altra, il medesimo cognome MUÑOZ: cosí che lei, secondo l’uso spagnolo, portava il doppio cognome Muñoz Muñoz. Di suo nome di battesimo, si chiamava Aracoeli.
Io somigliavo a lei nella carnagione e nei tratti, mentre la tinta degli occhi mi veniva da mio padre (italiano del Piemonte). Dal tempo che ero bello, mi torna all’orecchio una canzoncina speciale delle sere di plenilunio, della quale io non volevo mai saziarmi. E lei me la replicava allegrissima, sbalzandomi su verso la luna, come per fare sfoggio di me verso una mia gemellina in cielo:
Luna lunera
cascabelera
los ojos azules
la cara morena.
Questa, e altre simili canzoncine del medesimo repertorio, compagne della mia piccola età felice, sono fra le poche testimonianze a me rimaste della sua cultura originaria. Del suo territorio natale, essa in casa nostra a Roma parlava poco o niente, richiudendosi rapida, dopo i primi accenni, in una scontrosità difensiva. Difatti, come può accadere a certi straccioni muniti di doppio orgoglio quando vengano promossi alle «alte sfere», lei per prima andava assumendo verso il proprio passato, in talune circostanze, un duro sprezzo mondano addirittura snobistico, e inquinato pure, senza rimedio, da una rozza vergogna; ma sempre mischiato, fin dentro i visceri, di una gelosia feroce, che interdiceva agli estranei il suo piccolo territorio, come una proprietà consacrata dei Muñoz Muñoz.
Però, da quei suoi accenni diffidenti e avari, pareva incredibilmente d’intravvedere il suo paese come una sorta di sassaia desertica, succhiata da un vento africano, dove spuntavano arbusti che davano solo spine, e la poca erba appena nata si moriva di sete. All’udirla mia zia Raimonda detta Monda (sorella di mio padre) slargava gli occhi intontita, giacché nel suo giudizio la Spagna (e piú che mai l’Andalusia) doveva essere tutta un giardino – d’aranci – e gelsomini d’Arabia – e roseti – e ferie pasquali – gonne a volanti – chitarre e nacchere. Tuttavia, nella sua discrezione abituale, la zia Monda non insisteva con troppe domande. Sulle origini familiari di mia madre, e sulla sua esistenza prenuziale di vergine paesana, vigeva difatti, in casa nostra, una sorta di onorabile segreto di stato, di cui mio padre era l’unico depositario legittimo e la zia Monda nient’altro che una semplice fiduciaria, con uffici riservatissimi e limitati alle strette necessità. Si trattava, invero, di un segreto obbligato e per nulla tenebroso in se stesso; ma la fantasia infantile non può figurarsi un segreto se non ammantato di tenebra o circonfuso di splendori; i quali rischiano di scadere non appena l’arcano affronti la luce. E cosí, naturalmente da parte mia il nostro segreto si lasciava inviolato: simile a un tesoro esotico del quale io rinunciavo a ricercare la chiave nascosta. Lungo il breve corso della mia vita in famiglia (conchiusa per me con la prima fanciullezza) me ne trapelarono solo notizie casuali e fuggevoli, su cui (specie da parte della zia Monda) si sorvolava in fretta. Certo, s’io fossi stato di mente piú empirica, simili reticenze mi avrebbero stimolato a una – anche minima – istruttoria personale; ma esse si alleavano, piuttosto, alla mia già chiara disposizione nativa, incline alle visioni piú che alle indagini. E dunque, io lasciavo che i vari indizi sulla preistoria di mia madre mi si scancellassero davanti non appena comparsi, al modo di quei fili luminosi che balenano sotto le palpebre al buio. Da certe allusioni pettegole della nostra servitú o dei curiosi, mi stornavo con una disattenzione istintiva, quasi aristocratica, e spesso incupita da un’aria truce di minaccia. Ero lí, infatti a difendere non solo la gelosa proprietà di mia madre contro ogni indiscrezione volgare; ma anche le distese aperte infinite dell’ignoranza contro ogni e qualsiasi frontiera.
Da parte sua, poi, mia madre stessa, fino dai tempi della nostra intimità esclusiva, mi aveva lasciato alla mia ignoranza. Forse, del resto, essa sentiva che anch’io, come lei di me, inconsapevolmente di lei sapevo tutto. La sua storia mi era stata trasmessa, fino da quando io le crescevo nell’utero, attraverso lo stesso messaggio cifrato che aveva trasmesso dalla sua pelle alla mia il colore moreno. E sarebbe stato, dunque, vano tentare una traduzione terrestre di quanto io portavo, congenito, dentro di me, già stampato nel proprio codice favoloso.
Essa gioiva, piuttosto, a descrivermi in confidenza certe meraviglie speciali lasciate a casa sua nel paese: tutte parenti, piú o meno, di quelle famose canzoncine a me già note; e altrettanto seducenti per me. Con la gran pompa di una regina che vanta il proprio lignaggio, mi descriveva, a esempio, la sua capra Abuelita (cosí detta perché nonna di un’altra capra piccola, un’orfana di nome Saudade) e il suo gatto Patufè («rosso come l’oro»); e una sua vicina di casa vecchiarella, miracolosa, di nome Tia Patrocinio... ecc. Ma su tutti i suoi vicini, compaesani e congiunti, anzi su tutto il popolo andaluso e spagnolo, troneggiava il suo unico fratello Manuel, detto anche Manolo e Manuelito. Questo mio zio (destinato a restarmi per sempre sconosciuto) era minore a lei di età, ma da lei riguardato come un vero, grande primogenito. A quanto si poteva indovinare, doveva essere di statura, al pari di lei, piccoletto; ma il suo genio e il suo valore lo ingrandivano, nel concetto della sorella, fino a una degna misura virile. «È piú alto di me!» essa dichiarava, alzando la mano di un palmo al di sopra della propria testa, quasi a significare, con ciò, una rara altitudine; e io dalla mia piccolezza seguivo la direzione della sua mano con lo sguardo reverenziale di chi mirasse le vette dell’Everest. Non appena parlava del fratello – anche solo a nominarlo – la sua voce vibrava di note festanti e sacrali, fra di girotondo e di alleluia. E subito la mia gola, mossa da un tremolio, riecheggiava quelle stesse note, in un riso innamorato che valeva un coro di laudi. Non esiste – io credo – in natura, un solo fanciullo o fanciulletto che non abbia, fino dalle sue prime stagioni, eletto – o meglio, riconosciuto – il proprio EROE. Venuto a lui dalle Storie, o dalle novelle, o dai miti, o dall’attualità concreta, o magari dalla pubblicità, il suo EROE potrà impersonarsi in Bonaparte, o nel Burgundo Sigfrido, o nel Cinese Mao, o in Caino, o in Ba‘al-zebúl re degli Inferi, o in Casanova, o in Amleto, o nel Mahatma Gandhi, o in un vincitore del pallone, o in un bello del Cinema, o in una sagoma dei fumetti... E potrà, s’intende, trasmutarsi variamente col variare delle sorti, dei climi e delle mode. Questo, anzi, è il caso piú comune; ma non è il mio! Il mio EROE fu e rimane, a tutt’oggi sempre uno: mio zio Manuel, fino dal giorno che per la prima volta ne ebbi notizia. Secondo i miei calcoli postumi, a quell’epoca Manuel doveva contare circa tredici anni di età, e io dieci di meno. E immagino di dovere, almeno in parte, proprio a quella mia età minima e cascabelera il favore speciale di cui mi degnò Aracoeli tenendomi per unico depositario e confidente delle sue proprie pompe private, e in primo luogo, delle gesta e bellezze del suo Manuel. Ch’io sappia, infatti, essa non estendeva un simile favore a nessun altro, fuori di me bambinello. A nessun altro, nemmeno mio padre! Però davanti a lui penso, doveva essere l’umiltà a scoraggiarla, confondendo le sue superbie infantili. È certo, invero, che, a suo giudizio, nemmeno lo splendore di Manuel reggerebbe al confronto con la luce solare di mio padre.
Il quale poi, d’altra parte, era l’unico fra noialtri tutti che presumibilmente aveva potuto incontrare di persona Manuel, come pure il Gatto Patufè, e forse l’intera schiatta andalusa dei Muñoz Muñoz.
Sono passati trentasei anni da quando mia madre fu sepolta nel cimitero di Campo Verano, a Roma (mia città natale). Io non sono mai stato là dentro a visitarla. E sono piú di trent’anni che non rivedo Roma, dove non penso di tornare mai piú.
L’ultima volta che ci andai, fu nella prima estate del 1945, alla fine della guerra. Avevo allora tredici anni circa (ma era come ne avessi ancora dieci). E in quella occasione, fra le altre notizie, venni a conoscere che durante un bombardamento aereo sulla città, anche il Campo Verano era stato devastato dalle bombe: molti sepolcri scoperchiati, i cipressi divelti. Seppi pure il giorno e l’ora del bombardamento: era stato sul mezzogiorno, il 19 luglio 1943. E da allora, nelle mie visioni, quell’ignoto campo mi si rappresentò in un’ora fissa canicolare (sapevo che in lingua spagnola verano significa estate). Una foresta di fumo e d’incendio, da cui mia madre fuggiva impaurita, sporca di sangue, nella stessa camicia da notte spiegazzata che portava quando la visitai per l’ultima volta.
Dove potrebbe essere fuggita, se non verso l’Andalusia? E oggi, dopo tanti anni di separazione smemorata, è appunto là verso l’Andalusia, ch’io parto a cercarla.
A volte – specie in certe solitudini estreme – nei vivi prende a battere una pulsione disperata, che li stimola a cercare i loro morti non solo nel tempo, ma nello spazio. C’è chi li insegue all’indietro nel passato e chi si protende al miraggio di raggiungerli in un futuro ultimo; e c’è chi, non sapendo piú dove andare senza di loro, corre i luoghi, su una qualche loro pista possibile. Un simile richiamo può sopravvenire inaspettato, e accompagnarsi alla medesima smania che assalirebbe un indigente miserabile, il quale – dopo una lunga amnesia – rammentasse di possedere un diamante nascosto. Però lui stesso ormai ne ignora il nascondiglio, ogni segno è scancellato. Né gli serve invocare un qualsiasi indizio valido a recuperarlo; né gli è dato mai piú possedere altro bene.
In quest’autunno nebbioso, io da qualche giorno sono tentato a inseguire la mia ragazza Aracoeli in tutte le direzioni dello spazio e del tempo, fuorché una a cui non credo: il futuro. In realtà, nella direzione del mio futuro, io non vedo altro che un binario storto, lungo il quale il solito me stesso, sempre solo e sempre piú vecchio, séguita a portarsi su e giú, come un pendolare ubriaco. Fino a quando sopravviene un urto enorme, ogni traffico cessa. È il punto estremo del futuro. Una sorta di mezzogiorno accecante, o di mezzanotte cieca, dove non c’è piú nessuno, e nemmeno io.
Da circa due mesi, io dispongo di un impiego avventizio in una piccola azienda editoriale, dove sono adibito alla traduzione o lettura dei testi in esame, dei quali poi devo stendere una breve relazione scritta. Sono, per lo piú, opuscoli o trattatelli divulgativi, di argomento scientifico-pratico, o politico-sociale, o anche istruttivo-mondano.
L’azienda, ch’io sappia, è rappresentata in tutto da due stanzette d’ufficio, corredate di un cesso buio e senza finestre. Una delle stanzette serve, piú che altro, da magazzino; l’altra è occupata da me. Sebbene il Capo (nelle sue comparse non infrequenti ma frettolose) abbia alluso talvolta a un suo invisibile «personale d’azienda», là dentro, secondo ogni apparenza, l’unico personale sono io. La porta a vetri sulla scala, recante l’insegna Editoriale Ypsilon e piú sotto, la scritta Spingere, annuncia i visitatori con un lungo sibilo, al quale segue immediatamente la libera entrata del visitatore di turno. Si tratta, per lo piú, di aspiranti autori, in gran parte anziani – i quali, col loro aspetto allupato e quasi torvo, aumentano il gelo naturale dell’ambiente e mi precipitano súbito in una ambascia confusa.
Dentro l’ufficio, secondo gli accordi, io devo trascorrere le mie giornate, dalle 9 alle 13 e dalle 16 alle 19,30.
Io, sul momento, avevo accolto questo impiego come un colpo di fortuna (infatti la mia rendita, già misera, negli ultimi tempi non bastava piú nemmeno a pagarmi l’affitto di una cameretta) ma prestissimo mi resi conto che il mio cervello lo dannava a un rigetto senza rimedio. Alla lettura di quei trattatelli, fino dalle prime righe, avevo la sensazione di deglutire della colla. Dei loro argomenti non m’importava nulla, anzi non concepivo che altri cervelli pensanti potessero prendersene cura. Ogni poco ne perdevo il filo. E sebbene da qualche tempo avessi rinunciato a ogni droga leggera o pesante, e perfino – nei limiti del possibile – agli alcolici, ricadevo nel mio vizio morboso del sonno. Allora d’un tratto piombavo addormentato, a bocca aperta, sui miei lavori. E capitava che mi riscuotessi a fatica al sibilo dell’uscio d’ingresso, per trovarmi davanti, già pronto, uno di quei funesti visitatori, là ritto in piedi a guatare, con un certo sogghigno, i miei occhi gonfi e il filo di saliva che mi colava lungo il mento. Capitava pure che quei sopori mi portassero dei sogni, o meglio deliri passeggeri, futili e tetri. Per esempio i caratteri di stampa, là sotto il mio naso, diventavano tignole a miriadi, che sciamavano dai fogli riducendoli in una polvere bianca.
Ogni giorno, nuovi opuscoli e nuove bozze si scaricavano sul mio tavolino. E la sola vista di quei cumuli bastava fin dall’ora di entrata, a darmi la nausea. Il mio basso rendimento certo non poteva sfuggire, nemmeno agli sguardi affaccendati e sbrigativi del mio laconico Boss. E senza dubbio già da tempo l’Editoriale Ypsilon programmava la mia cacciata prossima inevitabile.
A ogni modo, verso la fine di ottobre mi è stato pagato il mio secondo stipendio; il quale ha resistito quasi intatto nelle mie tasche fino a queste ferie annuali dei primi di novembre. La durata delle ferie è stata calcolata con larghezza grazie all’usanza nazionale dei ponti di fine settimana. Quattro giorni: da venerdí 31 ottobre (vigilia) al 4 novembre martedí (vecchia festività patriottica). E cosí stamattina (venerdí 31) mi sono mosso per il mio viaggio.
Da un pezzo io mi sono fatto sedentario. E inoltre la parola ferie o vacanze a me evocava sempre una squallida tribú festaiola, ebbra di sacchetti di plastica, di cocacola e di radioline frenetiche. Non sono mai stato, prima, all’estero. E su di me la decisione di questa partenza dirompeva in un sentimento estremo di rischio e di follia; ma anche di un ignoto entusiasmo (enthusiasmòs = invasione divina). All’inizio, tuttavia, rimanevo dubbioso sull’itinerario: dove potrebbe andare, infatti, un tipo come me, forastico e misantropo, e senza nessuna curiosità del mondo – di nessun luogo al mondo?! finché l’enthusiasmòs m’ha insegnato l’unico itinerario a me possibile: comandato, anzi.
Anda niño anda
que Dios te lo manda.
E cosí, adesso (l’ora è circa le undici di mattina) mi sono messo sulla strada, in partenza da Milano, per andare alla ricerca di mia madre Aracoeli nella doppia direzione del passato e dello spazio. Sulla sua preistoria in Andalusia m’ero conservato sempre ignorante, piú o meno come al tempo della mia fanciullezza. E ancora adesso, per me, cercarla non significava documentarmi, o raccogliere testimonianze; ma andarmene via di qui, dietro le tracce del suo antico passaggio, come un animale sbandato va dietro agli odori della propria tana.
Fra le poche notizie che possedevo di lei, c’erano i suoi dati anagrafici principali: ossia, oltre al suo doppio cognome di ragazza, il suo luogo di nascita, che sapevo situato nel territorio di Almeria, e si chiamava El Almendral. Però la rada corrispondenza che lei riceveva a Roma da casa sua – questo lo ricordavo con precisione – portava sulla busta il timbro di Gergal, un nome che ho cercato invano sugli atlanti comuni, ma che ho trovato, finalmente, su una grande carta dell’Istituto Geografico. Risultava un piccolo centro, isolato in mezzo alla sierra, a una notevole distanza dal mare.
Invece, El Almendral io non lo trovai su nessuna carta. Ma intanto quel minimo punto periferico, ignorato dalla geografia, da ultimo era diventato l’unica stazione terrestre che indicasse una direzione al mio corpo disorientato. Il suo era un richiamo senza nessuna promessa, né speranza. Sapevo, di là da ogni dubbio, che esso non mi proveniva dalla ragione, ma da una nostalgia dei sensi, tale che nemmeno la certezza della sua esistenza non mi era una condizione necessaria. Il mio stato era proprio quello di un animale bastardo, che appena cucciolo portarono via dal suo covo, dentro un sacco, scaricandolo, per disfarsene, sul margine di una carraia. Chi sa come lui sopravvisse; però, qua d’intorno, ha trovato solo delle tribú ostili, che lo trattano da intruso e da rabbioso. E allora, portato dai suoi sensi acuti, lui rifà tutto il cammino all’indietro, verso il punto del principio (forse a una agnizione?)
Esto niño chiquito
no tiene madre.
Lo parió una gitana
lo echó en la calle.
La tentazione del viaggio mi aveva invaso recentemente con la voce stessa di mia madre. Non è stata una trascrizione astratta della memoria a restituirmi le sue primissime canzoncine, già seppellite; ma proprio la voce fisica di lei, col suo sapore tenero di gola e di saliva. Ho riavuto sul palato la sensazione della sua pelle, che odorava di prugna fresca; e la notte, in questo freddo milanese, ho avvertito il suo fiato ancora di bambina, come un velo di tepore ingenuo sulle mie palpebre invecchiate. Non so come gli scienziati spieghino l’esistenza, dentro la nostra materia corporale, di questi altri organi di senso occulti, senza corpo visibile, e segregati dagli oggetti; ma pure capaci di udire, di vedere e di ogni sensazione della natura, e anche di altre. Si direbbero forniti di antenne e scandagli. Agiscono in una zona esclusa dallo spazio, però di movimento illimitato. E là in quella zona si avvera (almeno finc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Aracoeli
  3. Assonanze
  4. Il libro
  5. L’autore
  6. Dello stesso autore
  7. Copyright