Se Venezia muore
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Se Venezia muore

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Se Venezia muore

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In tre modi muoiono le città: quando le distrugge un nemico spietato, quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, o quando perdono la memoria di sé. Venezia può morire se perde la memoria, se non sapremo intenderne lo spirito e ricostruirne il destino. Fragile, antica, unica per il suo rapporto con l'ambiente, Venezia si svuota di abitanti, e intanto è bersaglio di innumerevoli progetti, che per «salvarla dall'isolamento» ne uccidono la diversità e la appiattiscono sulla monocultura di una «modernità» standardizzata, riducendola a merce, a una funzione turistico-alberghiera. Il caso di Venezia, emblematico, permette a Salvatore Settis un ragionamento universale: dall'Aquila a Chongqing - città della Cina che è passata dai 600 000 abitanti del 1930 ai 32 milioni di oggi - mutamenti frenetici imposti da ragioni produttive e di mercato violano il contesto naturale e lo spazio sociale, mortificano il diritto alla città e la democrazia.

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Informazioni

Se Venezia muore

1. Smemorata Atene.
In tre modi muoiono le città: quando le distrugge un nemico spietato (come Cartagine, che fu rasa al suolo da Roma nel 146 a. C.); quando un popolo straniero vi si insedia con la forza, scacciando gli autoctoni e i loro dèi (come Tenochtitlán, la capitale degli Aztechi che i conquistadores spagnoli annientarono nel 1521 per poi costruire sulle sue rovine Città del Messico); o, infine, quando gli abitanti perdono la memoria di sé, e senza nemmeno accorgersene diventano stranieri a se stessi, nemici di se stessi. Questo fu il caso di Atene, che dopo la gloria della polis classica, dopo i marmi del Partenone, le sculture di Fidia e le vicende della cultura e della storia segnate da nomi come Eschilo, Sofocle, Euripide, Pericle, Demostene, Prassitele, perse prima l’indipendenza politica (sotto i Macedoni e poi sotto i Romani) e piú tardi l’iniziativa culturale, ma finí col perdere anche ogni memoria di se stessa.
Noi spesso, travolti da un facile classicismo di scuola, pensiamo a un’Atene immobile per secoli nel biancore dei suoi marmi e rifiorita a nuovo splendore, quasi si fosse destata dal sonno, con l’indipendenza politica della Grecia nel 1827. Ma non è cosí: quando verso la fine del XII secolo il dottissimo Michele Coniate, che veniva da Costantinopoli, divenne vescovo di Atene, restò sbalordito davanti alla terribile ignoranza degli Ateniesi, che non sapevano piú nulla delle glorie della propria città, non sapevano dire ai forestieri che cosa mai fossero i templi ancora intatti, né sapevano indicare dove avessero insegnato Socrate, Platone, Aristotele.
In quella smemorata Atene di un lunghissimo Medio Evo, il Partenone era diventato una chiesa, con le pareti coperte da icone e altri dipinti sacri, e vi aleggiavano canti liturgici e profumo d’incenso. Fu piú tardi cattedrale latina (dopo la crociata del 1204), ripetutamente spogliata da veneziani e fiorentini, senza che gli abitanti alzassero mai un dito a difenderla, senza che si levasse una voce a ricordarne la storia e la gloria. Quando Atene fu occupata dai Turchi nel 1456 (e il Partenone-chiesa fu trasformato in moschea), della città si era perso perfino il nome. Quel che restava era un villaggio miserevole con qualche capanna qua e là sparsa tra le rovine, e gli abitanti, ridotti a poche migliaia, lo chiamavano Satiné, Satines, con una storpiatura che (per esempio) il nome di Roma non subí mai. Ma l’oblio di se stessi degli Ateniesi era cominciato molto prima: già verso il 430 dopo Cristo il filosofo neoplatonico Proclo, che abitava vicino all’Acropoli, racconta di aver visto in sogno Atena, la dea del Partenone, che, scacciata dal tempio, gli chiedeva ospitalità nella sua casa. Questo sogno nostalgico esprime molto bene non solo la fine di una religione e dei suoi monumenti, ma il tramonto di una cultura e della sua autoconsapevolezza.
Come accade a chi perde la memoria, anche le città, quando sono colte da amnesia collettiva, tendono a dimenticare la propria dignità. Se qualcosa resta del loro spirito antico, deve cercar rifugio altrove (per esempio, nel caso di Atene, a Costantinopoli, e di qui a Mosca, o nell’umanesimo italiano). Noi, oggi, abbiamo a nostra volta dimenticato che perfino Atene giunse a dimenticare se stessa; ma è bene richiamare alla nostra mente il buio di quella smemoratezza, se non vogliamo che lo stesso morbo colpisca anche noi. Le tenebre dell’oblio non piombano all'improvviso sulle comunità, ma vi calano sopra, lente e malferme, come un esitante sipario. Perché il sipario scenda fino in fondo, perché avvolga ogni cosa in una notte indistinta, non c’è bisogno di complicità: basta l’indifferenza. Per questo è importante, come lo è per la salute mentale e fisica di ognuno di noi, cogliere il piú presto possibile ogni sintomo di smemoratezza, correre rapidamente ai ripari.
È diventato di moda, in questi anni rovinosi e guasti, ripetere come una giaculatoria che «la bellezza salverà il mondo». Sono parole che Dostoevskij mette in bocca al principe Myškin, il protagonista dell’Idiota, e che in Italia si citano ormai spessissimo come un mantra consolatorio (e autoassolutorio), ma sempre fuori contesto. «Ma quale bellezza salverà il mondo?» chiede a Myškin il giovane Ippolit, e soggiunge che «idee cosí frivole sono dovute al fatto che il principe è innamorato». Perché «la bellezza è un enigma», anche se quella di Aglaja Ivanovna «può mettere il mondo sottosopra». Per Myškin la bellezza è uno stato di grazia, «uno straordinario rafforzamento dell’autocoscienza», fatto di «bellezza e preghiera», uno stato di alterazione che egli sperimenta subito prima di ogni attacco epilettico («Sí, per questo momento si può dare tutta la vita»). La bellezza di cui parla Myškin è dunque sopra di noi, qualcosa a cui ci si abbandona, innamoramento o preghiera, «acquietamento e trepida fusione con la suprema sintesi della vita».
Altra cosa è la bellezza delle città e dei paesaggi: tangibile orizzonte e non vagheggiamento visionario; patrimonio non dell’individuo ma delle comunità; fatto non di subitanee illuminazioni, ma di una trama continua di progetti, di sguardi, di gesti, di saperi, di memorie. Non sta al di sopra di noi perché – anzi – noi stessi ne siamo parte essenziale, perché una stessa aria e uno stesso sangue accomunano i monumenti dell’arte, della natura e della storia a chi li ha creati e a chi li custodisce e li abita: viva esperienza di uomini e donne del nostro tempo, che sono – che siamo – tramite e cerniera fra le generazioni passate e quelle che verranno. La suprema bellezza di Atene non la salvò dall’oblio di se stessa, né dalle spoliazioni e distruzioni che ne seguirono. Non impedí ai fiorentini Acciaiuoli, duchi di Atene, di trasformare i Propilei in una residenza fortificata (intorno al 1403), non impedí ai Turchi di usare il Partenone come un deposito di polveri da sparo, non impedí al veneziano Francesco Morosini di cannoneggiarlo facendone saltare per aria una gran parte (26 settembre 1687: piú di 700 tracce di palle di cannone sono ancora visibili sui marmi di Pericle e di Fidia). Se appena ci guardiamo intorno, nei nostri paesaggi, nelle nostre città, abbandonarsi alla bellezza non basta (non è bastato mai), non basta chiedere a essa una miracolosa salvazione in automatico, assolvendo noi stessi da ogni responsabilità. Al contrario, la bellezza va coltivata dai vivi ogni giorno se vogliamo che qualcosa ne resti, per noi stessi e dopo la nostra morte. La bellezza non salverà nulla e nessuno, se noi non sapremo salvare la bellezza. E con la bellezza la cultura, la storia, la memoria, l’economia. Insomma, la vita.
2. Venezia senza popolo.
L’eclissi della memoria incombe su noi tutti, minaccia la convivenza civile, insidia il futuro, toglie respiro al presente. Se la città è la forma ideale e tipica delle comunità umane, Venezia è oggi, e non solo in Italia, il simbolo supremo di questa densità di significati, ma anche del suo declino. Se mai Venezia dovesse morire, non sarà per la crudeltà di un nemico né per l’irruzione di un conquistatore. Sarà soprattutto per oblio di se stessa. Oblio di sé, per una comunità del nostro tempo, non vuol dire solo dimenticanza della propria storia né morbida assuefazione alla bellezza, che dandola per scontata la viva come esangue ornamento cercandovi consolazione. Vuol dire soprattutto la mancata consapevolezza di qualcosa che è sempre piú necessario: il ruolo specifico di ogni città rispetto alle altre, la sua unicità e diversità, virtú che nessuna città al mondo possiede quanto Venezia. Come ogni essere umano si caratterizza per quel che ha di irripetibile, ma può metterlo pienamente in luce, e a frutto, solo in un serrato confronto con i talenti e le esperienze degli altri, cosí è per le città: nell’infinita varietà delle loro vicende storiche, della forma urbana, dei linguaggi architettonici, dei materiali di cui sono costruite, dei paesaggi in cui s’innestano, ogni città è unica, e come tale vissuta e amata dai suoi abitanti. E su questo patrimonio dovrebbe costruire il proprio futuro. Ma ogni città è, anche, rappresentativa di uno sviluppo particolare, che dal gioco di somiglianze e differenze con altre città trae senso, forza e destino. Ogni città è il frutto di un enorme numero di scelte nel corso del tempo; scelte che a ogni bivio della sua storia avrebbero potuto essere diverse. Perciò ogni città ne contiene altre: le città che essa è stata, e che vi hanno lasciato impronte piú o meno marcate, ma anche le città potenziali che essa avrebbe potuto essere, e non fu, e che talvolta si vedono incarnate, per somiglianza o affinità, in altre città. La trama fisica della città e la morfologia del suo sito fanno tutt’uno con l’ordito delle sue istituzioni, degli eventi di cui fu ed è teatro, dei progetti e delle speranze che ospitò e che potrebbe ancora innescare. E il succedersi delle generazioni che hanno tessuto quella trama e quell’ordito è consustanziale a essi, li genera e ne è generato.
Nell’Italia delle cento città, la forma urbana è nata e rinata molte volte: nelle città greche ed etrusche, a Roma e nei suoi territori, in un lungo e fecondo Medio Evo, e in spettacolare sequenza e continuità dal Rinascimento a ieri. Si è rinnovata profondamente, spesso tuttavia conservando e riutilizzando mura, percorsi, templi, ponti vecchi di secoli, forti tracce di un passato troppo ricco per essere ignorato. Perciò vediamo ancora abbastanza, delle città italiane, da potervi riconoscere o immaginare strade simili o identiche a quelle in cui camminarono Virgilio, Dante, Ariosto. Riconosciamo, nel viaggio della mente dalle Alpi alla Sicilia, una incomparabile varietà di forme locali del vivere in città, ciascuna delle quali si incarnò poi non solo in palazzi e chiese e piazze, ma in istituzioni e pratiche di governo, dai re di Napoli alle repubbliche di Genova e di Venezia. E in quel variato scenario di città si svolse per generazioni un assiduo pensare e ripensare la natura della cittadinanza, leggendo il presente in controluce sul passato. Sappiamo riconoscere al primo sguardo uno scorcio di Palermo o di Napoli da uno di Genova o di Venezia, eppure in tanta sensazionale varietà cogliamo anche un filo unitario, italiano, per quello stesso gioco di rimandi e di fratellanze che nei versi del toscano Dante riscontra gli echi dei poeti siciliani, e nelle pagine del lombardo Manzoni addita il ricomporsi di una lingua letteraria su base toscana. Continuità nel tempo e varietà nello spazio sono i due poli fra i quali si muove la storia della città (cioè della civiltà) degli italiani: una storia che include l’industria e le arti, la musica e la poesia, la coltivazione dei campi e la miniatura dei manoscritti, il mestiere dell’architetto e quello del medico. In questo gioco di costanti e di varianti, quello che è riconoscibile della forma urbana “italiana”, e che ne ha fatto uno dei massimi modelli per gran parte del mondo, è specialmente la polarità città - campagna, che ripropone in modo sempre diverso il contrasto originario fra spazio naturale e spazio urbano, fra ordine della natura e ordine della cultura.
Perciò ogni città è viva narrazione della propria storia, ma anche volto e traduzione in pietra del popolo che la abita, la conserva e la trasforma. La città e il suo popolo sono una cosa sola, un solo nodo lega l’esperienza dei viventi e la memoria delle cose. Ma quale è il popolo di Venezia? Custodito dalle glorie di quella città Nobilissima, et singolare, come intitolava il suo libro il fiorentino Francesco Sansovino (1581), il popolo di Venezia sa a sua volta custodirne il cuore e l’essenza?
Il territorio del Comune di Venezia secondo l’attuale divisione amministrativa include anche una vasta area di terraferma, di cui fanno parte Marghera, Mestre e altre zone, fra cui l’aeroporto di Tessera. È qui che si è diretta negli ultimi decenni la popolazione, specialmente le generazioni piú giovani. Nonostante il movimento interno, in quest’area presa nel suo complesso la popolazione è calata di ben 10o 000 abitanti dal 1971 al 2011 (da 363 062 a 263 996). Ma se guardiamo (come è necessario) solo la popolazione residente del centro storico, i dati sono molto piú drammatici:
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Come si vede, una sola volta negli ultimi sei secoli Venezia conobbe un calo di popolazione comparabile a quello di oggi: e fu per la peste del 1630, dopo la quale ci volle piú di un secolo per tornare al livello di prima. Ugualmente devastante, anche se i dati demografici sono meno attendibili, era stata la peste del 1348, dopo la quale si calcola che la popolazione calò da circa 120 000 abitanti a 58 000: un po’ piú di oggi. Ma una nuova peste si è insediata a Venezia, dagli anni Settanta del Novecento in qua. Nel 1950, vi furono a Venezia 1924 nuovi nati, a fronte di 1932 morti (piú o meno altrettanti). Nel 2000, le proporzioni mutano completamente, passando a un forte saldo negativo: 404 nati, 1058 morti. Invecchiamento ed esodo dei residenti, disfacimento delle famiglie, bassa natalità, continua contrazione della popolazione disegnano il quadro di una città in fuga da se stessa. Si capisce cosí che, nella farmacia Morelli a campo San Bartolomeo, sia stato esposto un contatore che segna giorno per giorno il numero di abitanti di Venezia, in costante diminuzione. Chi ha inscenato questo drammatico count down non è un’istituzione pubblica, ma un gruppo di cittadini. Uno di loro, Matteo Secchi, ha dichiarato: «Presto celebreremo il funerale di Venezia e porteremo una bara in corteo fino al Municipio». Per giunta, i veneziani che abitano il centro storico «non eleggono loro il sindaco perché i cittadini di Mestre (la terraferma del Comune) sono tre volte piú numerosi» (Giavazzi).
Chi è, dunque, il popolo di Venezia? Quale è mai la peste che lo va sterminando? Mentre la città si svuota, calano su di essa i ricchi e i famosi, pronti a comprare a costo altissimo una casa - status symbol da usare cinque giorni l’anno. Questo travaso di popolazione stravolge il mercato, creando un sistema di prezzi che espelle i veneziani dalla loro città e ne fa la capitale degli ectoplasmi della seconda casa, che si materializzano con gran pompa e mondanità, poi spariscono nel nulla per mesi. Sciamano intanto ogni anno per le strade e i canali di Venezia otto milioni di turisti per trentaquattro milioni di presenze, a fronte di una massima “capacità di carico” di 12 milioni (G. Tattara, Contare il crocerismo, 2014): in altri termini, per ogni persona che vive stabilmente a Venezia, ci sono piú o meno 600 visitatori volatili. Questa devastante sproporzione ha l’effetto di una bomba: altera profondamente la demografia e l’economia. Domina ormai la città una monocultura del turismo che esilia i nativi e lega la sopravvivenza di chi resta e della città stessa quasi solo alla volontà di servire: di null’altro sembra piú capace Venezia che di generare bed & breakfast, ristoranti e alberghi, agenzie immobiliari, vendere prodotti “tipici” (dai vetri alle maschere), allestire Carnevali fasulli e darsi, malinconico belletto, un’aria di perpetua festa paesana. Rimuovendo dalla coscienza la peste che affligge, decimandolo, il tessuto sociale della città, la sua coesione e la sua cultura civile.
Eppure la monocultura del turismo che svuota Venezia del suo popolo continua a imperare, tanto che nemmeno le attuali 2400 strutture di accoglienza bastano ormai a saziarne gli appetiti: se non si riuscirà a bloccare il “piano casa” lanciato dalla Regione Veneto, le strutture ricettive potrebbero arrivare fino a 50 000 nel centro storico, coprendone la piú gran parte (Stella, «Corriere della sera», 25 gennaio 2014). Solo lungo il Canal Grande, “strada” speciale di una città speciale, dal 2000 hanno chiuso il Provveditorato agli studi, il CNR, alcuni uffici giudiziari, quelli dell’azienda dei trasporti, il consolato tedesco, la sede di Mediocredito, oltre a una ventina di unità immobiliari, ambulatori, magazzini; al loro posto hanno aperto 16 nuovi alberghi (piú di uno all’anno, 11 dal 2007) per un totale di 797 posti letto; dei quattro cantieri in corso, due sono hotel di lusso la cui apertura è prevista prima di Natale; per gli altri due, che saranno pronti nel 2016, la destinazione sarà la stessa. Muore la commistione di funzioni della città storica, subentra la monocultura turistico-alberghiera.
Ma il popolo di Venezia non è quello dei turisti, nemmeno dei piú attenti che vi trascorrono qualche giorno o qualche settimana. Non è quello di chi possiede ma non abita la folla di seconde e terze e quarte case. Né gli uni né gli altri possono essere ciò che uomini e donne devono essere per una città: il sangue vivo che circola in quelle vene che sono strade e piazze; il custode e l’artefice della memoria; una comunità che identifica la forma fisica della città e la sua ragione etica, Le pietre e il popolo (come nel titolo di un libro di Tomaso Montanari). Il popolo di Venezia oggi può mai essere il drappello sempre piú sparuto dei residenti a Venezia, quasi superstiti di una deforestazione? Potranno esserlo, ma solo se non lasceremo soli quelli fra loro che sono impegnati in un «orgoglioso e disperato tentativo di sopravvivere, mentre la loro città è costantemente, quotidianamente invasa da milioni di stranieri che non possono farvi nessun vero investimento» (Polly Coles, The Politics of Washing. Real Life in Venice, 2014). Venezia rischia di restare presto senza popolo. Se vogliamo che questo non avvenga, anche noi non veneziani dobbiamo farci popolo di Venezia, custodi della sua bellezza e della sua memoria, pensosi del suo futuro. Dobbiamo esserlo nelle nostre rade visite, ma soprattutto tributandole l’omaggio che essa vuole da noi: una forte riflessione sulla forma-città che Venezia rappresenta al massimo livello, sullo stile di vita (e di cittadinanza) che vi si incarna, sulla necessità di elaborare un progetto perché il sangue – il popolo – torni ad animare le sue vene. Dobbiamo esserlo, perché pensando a Venezia possiamo capire qualcosa anche delle altre città, quelle dove viviamo. Del loro senso e de...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Se Venezia muore
  3. Nota al testo
  4. Se Venezia muore
  5. Il libro
  6. L’autore
  7. Dello stesso autore
  8. Copyright