Le anime morte
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Le anime morte

  1. 416 pagine
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La storia di Chichikov, geniale artista del raggiro, antieroe plebeo che insegue il pallido miraggio degli ideali borghesi: il suo viaggio alla ricerca di anime morte per ottenere aiuti finanziari dallo Stato è un'avventura in cui tutti i valori sono capovolti in un paradossale realismo negativo: il benessere, la famiglia, la rispettabilità, ciò di cui Chichikov, aspira di piú si tingono di grottesco, e la sua storia e quella dei personaggi da lui incontrati si rivelano come tappe di un epos mancato, di una gigantesca parodia omerica che anticipa le avventure di altri illustri antieroi del romanzo moderno, dal Leopold Bloom di Joyce al Josef K. di Kafka.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858415481
Argomento
Letteratura
Categoria
Teatro

Parte prima

CAPITOLO PRIMO

Nell’androne d’una locanda della città di N., capoluogo di governatorato, entrò una graziosa, piccola vettura a molle, di quelle in cui viaggiano gli scapoli: tenenti colonnelli a riposo, capitani in seconda, proprietari di campagna che possiedono un centinaio d’anime di contadini: in una parola, tutti quelli che si dicono signori di mezza taglia. Nella carrozza sedeva un signore, che non era proprio un bell’uomo, ma non era neppure di brutto aspetto, né troppo grosso né troppo esile; non si poteva dire che fosse anziano, ma neppure, d’altronde, che fosse troppo giovane. Il suo arrivo non sollevò in città il minimo scalpore, e non fu accompagnato da alcunché di singolare: solo due mužík russi, piantati sulla porta d’un’osteria di faccia alla locanda, fecero qualche osservazioncella, che si riferiva del resto piuttosto alla carrozza, che non a colui che vi sedeva dentro. – Non vedi? – disse uno dei due. – Guarda che ruota! Che dici, tu: ci arriverebbe quella ruota lí, mettiamo caso, fino a Mosca, o non ci arriverebbe? – Ci arriverebbe, – rispose l’altro. – Ma fino a Kazàn′, dico io, mica ci arriverebbe? – Fino a Kazàn′ non ci arriverebbe, – rispose l’altro; e con questo la conversazione ebbe termine. C’è ancora da aggiungere che nel momento in cui la carrozza s’accostava alla locanda, un giovanotto s’era trovato a passare, in bianchi calzoni di bambagino assai stretti e corti, con un frac che aveva grandi pretese di moda, e lasciava risaltare la pettina della camicia, chiusa da una spilla di Tula con pistola di bronzo. Il giovanotto s’era voltato indietro, aveva guardato la carrozza, s’era acchiappato con la mano il berretto, lí lí per volar via con una ventata, e se n’era andato per la sua strada.
Quando la carrozza fu entrata nel cortile, venne a ricevere il signore il servo della locanda – o polovòj che dir si voglia, com’è d’uso nelle locande russe – vivace e precipitoso al punto, che non si riusciva nemmeno a distinguere che faccia avesse. Lestamente costui corse fuori con una salvietta in mano, lungo lungo nella lunghissima palandrana di cotonina, che col dosso quasi quasi gli arrivava sopra la nuca, diede una scrollata ai capelli, e lestamente condusse il signore su per tutta la galleria di legno, a mostrargli l’alloggio che Dio gli concedeva. Questo alloggio era d’un tipo ben noto, allo stesso modo che d’un tipo ben noto era la locanda, e cioè tale per l’appunto, quali sono le locande delle città capoluogo di governatorato, dove per due rubli al giorno i forestieri di passaggio possono avere una camera tranquilla, con scarafaggi che spuntano come prugne secche da tutti i cantoni, e una porta comunicante con la camera vicina – infallibilmente barricata dal comò – dietro la quale s’annida il vicino, uomo silenzioso e tranquillo, ma straordinariamente curioso, che ha la passione di conoscere tutte le particolarità del nuovo arrivato. All’interno della locanda corrispondeva la facciata esterna: era assai lunga, a due piani: il piano inferiore non era stato intonacato, e stava lí nei suoi miseri mattoni d’un rosso cupo, infoschiti dai capricci del tempo oltre che sudici già per conto loro; il piano superiore era stato rivestito dell’eterna tinta gialla; giú a strada, bottegucce di finimenti, di cordami, di biscotti secchi. Nel bugigattolo alla cantonata – o per dir meglio nella finestra – s’era piazzato un venditore di bibite calde, col suo rosso samovàr di rame e il viso rosso quanto il samovàr, tanto che da lontano si sarebbe potuto credere che sulla finestra ci stessero due samovàr – se un samovàr non avesse avuto, nera come pece, la barba.
Mentre il signore arrivato di fresco stava esaminando la sua camera, gli furono portati su i bagagli: anzitutto un valigione di cuoio bianco, abbastanza sciupatello, che non per la prima volta dimostrava di trovarsi in viaggio. Portavano il valigione il cocchiere Selifàn, un ometto in pelliccia corta di pecora, e il servitore Petruška, un giovane sulla trentina, in un largo soprabito di seconda mano, scartato evidentemente dal padrone: un giovane un po’ imbronciato d’aspetto, con labbra e naso assai grossolani. Dopo la valigia portarono su un cofanetto di mogano, con riporti di betulla di Carelia, un paio di forme da stivali, e, avvolta in una carta turchina, una gallina arrosto. Quando tutto fu in camera, Selifàn il cocchiere scese alla stalla a custodire i cavalli; il servitore Petruška, dal canto suo, si fece a sistemarsi in anticamera, piccolo buio canile, dove già aveva avuto modo di trascinare il suo mantello, e insieme con questo un certo odore di sua proprietà, che s’era attaccato anche a un sacco buttato là subito appresso, pieno di svariato vestiario servitoresco. In codesto canile egli accomodò contro il muro lo stretto lettuccio a tre zampe, e sopra ci stese un modesto esemplare di materasso, rifinito e appiattito come una frittella – e forse anche unto quanto una frittella – che era riuscito a raccapezzare dal padrone della locanda.
Intanto che i servitori sbrigavano le loro faccende, il padrone s’avviò alla sala comune. Come son fatte queste sale comuni, ogni viaggiatore lo sa molto bene: erano le solite pareti verniciate a olio, infoschite in alto dal fumo della stufa e lustrate in basso dalle schiene dei diversi viaggiatori, e ancor piú da quelle indigene dei mercanti, giacché i mercanti nei giorni di fiera venivano qua a frotte di sei e a frotte di sette a degustare le due sacramentali tazze di tè; era il solito soffitto affumicato; il solito affumicato lampadario, con un nuvolo di pendolini di vetro, che sussultavano e scampanellavano ogni volta che il polovòj di corsa passava sull’incerato consunto, brandendo intrepido il vassoio, sul quale le tazzine da tè s’appollaiavano innumerevoli come uccelli sulla riva del mare; erano i soliti quadri giro giro, dipinti coi colori a olio: tutto, in una parola, era identico a qualsiasi altro posto. Di diverso c’era soltanto che in uno dei quadri stava raffigurata una ninfa con seni cosí enormi, che il lettore, probabilmente, non ne avrà mai veduti gli eguali. Un tale scherzo di natura si ripete, del resto, in parecchi quadri storici, non si sa bene in che epoca, di dove e da chi importati da noi in Russia, a volte anche dai nostri piú cospicui signori, amanti delle arti, che li comprarono in Italia, su consiglio dei postiglioni che li conducevano.
Il signore si tolse il berretto e si svoltolò dal collo la sciarpa di lana iridata, di quelle che agli ammogliati prepara di sua mano la consorte, aggiungendo appropriate istruzioni sul modo di avvilupparcisi – e in quanto agli scapoli, davvero non saprei dire chi gliele faccia, Iddio solo lo sa: io non ho mai portato di queste sciarpe. Svoltolata che ebbe la sciarpa, il signore si fece servir da mangiare. E mentre gli servivano i vari consueti piatti d’albergo, come a dire: zuppa di cavoli con pasta sfoglia, tenuta apposta in serbo per i viaggiatori da parecchie settimane, cervello con piselli, salsicce con cavoli, pollastra arrosto, cetriolini in salsa piccante e l’eterna sfogliata dolce, sempre ai comandi; mentre gli servivano tutte queste cose, parte riscaldate, parte fredde com’erano, si faceva raccontar dal cameriere (o polovòj che dir si voglia) una quantità di sciocchezze sul piú e sul meno: chi teneva, prima, la locanda, e chi la teneva adesso, e se era grossa la rendita, e se era un gran lestofante il padrone – al che il polovòj rispondeva, secondo la consuetudine: – Oh, caro signore, è un grandissimo imbroglione! – Come nella illuminata Europa, cosí anche nella illuminata Russia vi sono attualmente moltissime rispettabili persone che non possono mangiare in trattoria se non a costo di chiacchierare col cameriere, e magari anche pigliarlo piacevolmente in giro. Il nuovo avventore, tuttavia, non faceva soltanto domande insulse: con eccezionale accuratezza s’informò chi era il governatore, chi il presidente del tribunale, chi il procuratore – non dimenticò, insomma, nessuno degli alti ufficiali pubblici; ma con accuratezza ancor maggiore, se non addirittura con trasporto, prese informazioni circa tutti i grossi proprietari di campagna: quante anime possedeva ciascuno, a che distanza risiedeva dalla città, perfino di che carattere fosse e con che frequenza venisse in città; s’informò attentamente delle condizioni del paese: ci fossero state, a volte, malattie nel governatorato – infezioni epidemiche, febbri micidiali di qualche sorta, vaiolo o roba del genere – e tutto in una certa maniera, con una tale accuratezza, che denotava qualche cosa di piú che una curiosità pura e semplice. Nei modi di fare questo signore aveva un che di ben posato, e si soffiava il naso con eccezionale sonorità. Non si sa bene come facesse, ma fatto sta che il naso gli suonava come una tromba. Questo pregio, che sembrerebbe cosí modesto, venne tuttavia a rialzarlo grandemente nella stima del servo d’albergo, tanto che costui, ogni volta che sentiva quel suono, scrollava i capelli, si raddrizzava tutto per piú deferenza, e sporgendo da quell’altezza la testa, domandava: – Comanda qualche cosa? – Finito il pranzo, il signore sorbí una tazza di caffè e sedette sul divano, ponendosi dietro la schiena uno di quei cuscini, che nelle locande russe, invece che di morbida lana, imbottiscono di qualche cosa molto affine al mattone o al ciottolo. Ivi cominciò a sbadigliare, e si fece ricondurre in camera, dove, coricatosi, dormí per un paio d’ore. Riposato che si fu, scrisse su un pezzettino di carta, su preghiera del servo d’albergo, grado, nome e cognome; da comunicare, come di dovere, alla polizia. Sul fogliettino il polovòj, mettendosi giú per la scala, lesse compitando: «Consigliere di Collegio Pavel Ivànovič Číčikov, proprietario terriero, in viaggio per affari privati»1.
Ancora il polovòj seguitava compitando a decifrare la scritta, e Pavel Ivànovič Číčikov in persona s’era già avviato fuori, a dare una guardata alla città; della quale restò, a quanto sembra, soddisfatto, giacché trovò che la città non la cedeva in nulla all’altre città capoluogo di governatorato: viva saltava agli occhi la tinta gialla delle case di pietra, e modesta restava in ombra quella grigia delle case di legno. Le case erano a un piano, a due piani e a un piano e mezzo, con quegli eterni piccoli attici tanto graziosi, a sentir gli architetti di governatorato. A tratti queste case sembravano sperdute in mezzo a una strada larga come un campo, fra palizzate senza fine; a tratti si ammucchiavano insieme, e qui si notava maggior movimento di gente, piú animazione. Si paravano incontro, mezzo cancellate dalla pioggia, insegne di croccanti o di stivali, o dipinti in azzurro un paio di calzoni, colla leggenda d’un qualche «sarto di Valsavia»2; altrove era un fondaco di cappelli e berretti, colla scritta: «Magazzino estero di Vasilij Fëdorov»; piú in là era figurato un biliardo con due giocatori in frac, di quel taglio che da noi a teatro portano gl’invitati quando all’ultimo atto vengono in scena. I giocatori erano rappresentati colle stecche puntate, le braccia alquanto stravolte all’indietro, e le gambe sbieche, come se or ora avessero fatto a mezz’aria uno sgambetto. A tutto questo seguiva la scritta: «Il locale è qui». In qualche punto addirittura sulla strada c’erano bancarelle di noci, di sapone, e di pan pepato che rassomigliava a sapone; o c’era una taverna all’insegna d’un grosso pesce, con infilzata sopra una forchetta. Ma piú frequenti di tutte l’altre attrazioni erano le annerite aquile imperiali a due teste, che ormai sono state sostituite dal laconico: «Spaccio di liquori». Quanto al selciato, dappertutto era cattivo anzichenò. Il viaggiatore diede un’occhiata anche al giardino pubblico, costituito da alberi gracilucci, attecchiti a stento, con certi sostegni a foggia di triangolo assai bellamente verniciati in verde. Del resto, seppure questi alberelli non erano piú alti d’un bambú, i giornali, nel resoconto d’una luminaria, avevano detto a proposito di essi che «la nostra città, grazie alle cure dell’amministrazione urbana, s’è abbellita d’un giardino costituito da alberi ombrosi, ben chiomati, capaci di dar refrigerio nelle giornate canicolari», e che in tale occasione «era stato veramente toccante vedere come i cuori dei cittadini palpitassero e traboccassero di gratitudine, e scorressero torrenti di lacrime, in segno di riconoscenza al signor sindaco». Chieste a una guardia informazioni dettagliate circa la via piú diretta per recarsi, in caso di bisogno, alla cattedrale, agli uffici pubblici, al palazzo del governatore, il viaggiatore andò ancora a dare un’occhiata al fiume, che scorreva nel mezzo della città; strada facendo strappò da un palo, dov’era stato appuntato, un manifestino, coll’intenzione di leggerselo con comodo quando tornava a casa, guardò fissamente una signora che passava sul marciapiede di legno, mica brutta, seguita da un ragazzo in livrea militare con un pacchetto in mano; e quand’ebbe un’ultima volta girato tutt’intorno lo sguardo, come per rammentarsi bene la disposizione dei luoghi, se ne tornò dritto dritto alla volta della sua camera, lievemente sostenuto su per la scala dal servo d’albergo. Preso il tè, si sedette al tavolo, si fece portare una candela, cavò di tasca il manifesto, lo accostò alla candela, e cominciò a leggere, strizzando un pochino l’occhio destro. D’interessante, veramente, non c’era gran che, in quel manifestino: si dava un dramma di Kotzebue, in cui nella parte di Rolla recitava il signor Poplëvin, in quella di Cora la signorina Zjàblova, e gli altri personaggi erano ancor meno degni di nota3; tuttavia se li lesse tutti quanti, arrivò fino ai prezzi di platea, e venne a sapere che il manifestino era stato stampato dalla tipografia governativa; poi lo rigirò dall’altra parte, alle volte ci fosse qualche cosa anche di là: ma, giacché non c’era niente, si stropicciò gli occhi, fece un bel rotolino, e lo collocò nel cofanetto, dove aveva l’abitudine di riporre tutto quello che gli capitava. La giornata, a quanto si sa, fu conclusa da una porzione di vitella fredda, da una bottiglia di frizzantino e da un sonno gagliardo, «a tutto stantuffo», come si esprimono in alcuni luoghi del vasto impero russo.
Tutta la giornata seguente fu consacrata alle visite. Il nuovo arrivato si recò a far visita a tutti i funzionari della città. Andò a porgere i suoi omaggi al governatore, il quale, a somiglianza di Číčikov, non era né troppo grosso né troppo sottile; portava la Sant’Anna al collo, e girava voce, addirittura, che fosse proposto per la stella; del resto, era un’ottima pasta d’uomo, e faceva perfino, di sua mano, dei ricamini sul tulle. Quindi si recò dal vicegovernatore, quindi dal procuratore, e dal presidente del tribunale, e dal capo della polizia, e dall’appaltatore delle rivendite di liquori, e dal direttore delle fabbriche governative... Peccato che sia alquanto difficile ricordare tutti i potenti di questo mondo: ma basterà dire che in quanto a visite il nuovo arrivato esplicò un’attività eccezionale: si presentò perfino a tributare i suoi omaggi all’ispettore della sanità pubblica, e all’architetto municipale. E quindi ancora a lungo restò seduto in carrozza, pensando e ripensando a chi ancora far visita; ma ormai, in città, funzionari non ce n’erano piú. Nei colloqui che aveva avuti con quelle autorità, con molta arte egli aveva saputo lusingare ciascuno. Al governatore aveva accennato, cosí di sfuggita, che a entrare nel suo governatorato sembrava d’entrare in paradiso: le strade dappertutto erano un velluto; e quelle amministrazioni, che sanno scegliere funzionari di valore, sono degne di grande encomio. Al capo della polizia disse qualche cosa d’assai lusinghiero sul conto dei vigili urbani; e durante i colloqui col vicegovernatore e col presidente del tribunale, che erano ancora soltanto consiglieri di stato, due volte per sbaglio disse perfino «Vostra Eccellenza» – cosa che piacque loro moltissimo. La conseguenza fu che il governatore lo invitò a intervenire a casa sua quel giorno stesso, a una piccola serata famigliare; e cosí gli altri funzionari, dal canto loro, lo invitarono chi a pranzo, chi a una partitina di boston, chi a prendere una tazza di tè.
Di se stesso, il nuovo arrivato – a quanto pareva – rifuggiva dal parlare a lungo; se pure qualche cosa diceva, metteva innanzi, allora, non so che luoghi comuni, con una profonda modestia, e il suo discorso prendeva in quei casi dei giri alquanto letterari: egli era – diceva – un trascurabile vermiciattolo di questa bassa terra, indegno che ci si occupasse piú che tanto di lui; grandi prove aveva traversato nella sua esistenza, molto aveva sofferto nella sua carriera per amor della verità, molti erano stati i suoi nemici, che avevano perfino attentato alla sua vita: e ora, desideroso di trovar pace, andava in cerca d’un luogo da eleggere finalmente a sua residenza – e intanto, giungendo in questa città, aveva creduto suo dovere imprescindibile testimoniare i suoi sensi di devozione alle piú alte autorità. Ecco tutto quello che in città si riuscí a sapere sul conto di questo nuovo personaggio, che non trascurò di presentarsi subito alla piccola serata dal governatore.
I preparativi per recarsi a questa serata occuparono due ore o poco piú: e qui nel nuovo arrivato si rivelò una premura per il proprio abbigliamento, quale non è dato vedere tanto spesso. Fatto un breve chilo, si fece portare l’occorrente per lavarsi, e straordinariamente a lungo si stropicciò col sapone tutt’e due le gote, puntellandole dall’interno colla lingua; quindi, tolto di spalla al servo d’albergo l’asciugamano, ci si strofinò per bene da tutti i versi il viso pienotto, a cominciare da dietro alle orecchie – non senza aver dato prima un paio di sbruffate proprio in faccia al servo d’albergo; quindi s’infilò davanti allo specchio la camicia inamidata, estirpò due peli che gli spuntavano di dentro al naso, e un attimo dopo, eccolo col frac indosso, d’un color mirtillo picchiettato. Terminato cosí l’abbigliamento, rotolò via nella sua carrozza per quelle strade smisuratamente larghe, rischiarate dalla luce sparuta di qualche finestra che occhieggiava qua e là. La casa del governatore, però, era cosí illumina...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Le anime morte
  3. Introduzione di Vittorio Strada
  4. Cronologia e bibliografia essenziale
  5. Le anime morte
  6. Parte prima
  7. Parte seconda
  8. Annotazioni del redattore
  9. Il libro
  10. L’autore
  11. Dello stesso autore
  12. Copyright