Viaggio alla fine del millennio
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Viaggio alla fine del millennio

  1. 384 pagine
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Viaggio alla fine del millennio

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Una vela lascia la luminosa Tangeri per risalire la costa atlantica d'Europa e inoltrarsi sulla Senna verso Parigi, gelido borgo sperduto fra oscure contrade. Siamo nell'estate del 999, nel cuore di un continente selvaggio e in fermento per l'approssimarsi del fatidico Anno Mille. Il ricco mercante ebreo Ben-Atar, in compagnia delle due mogli, è in viaggio per raggiungere il nipote Raphael Abulafia, ex socio d'affari, e la sua nuova moglie, una askhenazita che disapprova la bigamia del mercante maghrebino.
Un duplice processo dovrà giudicare Ben-Atar, ma una parziale soluzione, inaspettata e drammatica, avverrà solo nel dolore e nella morte. Due realtà inconciliabili - la solare sensualità del Sud e l'austero rigore europeo - vengono a conflitto, incarnandosi in due modi differenti di vivere, in due diversi codici di comportamento all'interno di una fede comune.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2014
ISBN
9788858416761
Argomento
Literature
Categoria
Drama

Parte terza

Il viaggio di ritorno
o
L’Unica Moglie

Capitolo primo

Al principio dell’inverno di quello stesso anno, a metà del mese di Shevat, pochi giorni dopo che l’Anno Mille inizierà ad avvolgere nelle sue spire l’Europa cristiana, Rabbi Yossef Ben-Klonimus cadrà malato e nel giro di breve tempo morirà. La moglie, vedova per la seconda volta, ripeterà a tutti coloro che manifesteranno il loro cordoglio, con un’ostinazione che rasenterà quasi la mancanza di rispetto nei confronti del morto, che la maledizione si è abbattuta sulla sua casa il giorno in cui, in un momento di debolezza, il marito ha acconsentito alla richiesta di quello strano rabbino straniero di fare da giudice unico nella maledetta questione della bigamia giunta dal meridione. Da quel giorno Rabbi Yossef ha perso la propria serenità, il suo spirito è rimasto scosso e ancora parecchie settimane dopo la partenza dei contendenti da Wermaizah e dalla terra di Ashkenaz si aggirava come in preda a un terribile incubo, finché il Cielo ha avuto pietà della sua anima.
Si è forse pentito del verdetto pronunciato? Oppure dentro di sé era convinto di aver esagerato nel compiacere la donna che un tempo gli era stata negata, come se la sua presenza in veste d’imputata rimessa alla sua clemenza avesse risvegliato in lui sentimenti contrastanti e incontrollabili? A questo la disperata vedova non potrà dare risposta perché il marito non ha mai raccontato, né a lei né a chiunque altro, cosa sia veramente avvenuto nel corso dell’interrogatorio a porte chiuse condotto con le due donne nordafricane. Forse perché lui stesso non saprà, fino al giorno della sua morte, se ciò che ha udito è veramente ciò che è stato detto e se ciò che è stato detto è stato ben compreso.
Infatti, dopo il tentativo del rabbino Elbaz, attorniato dai virili ismaeliti e dallo schiavo nero, di scoraggiare Rabbi Ben-Klonimus con la fosca visione di donne ismaelite afflitte e abbandonate, il giudice spaventato ha cercato la vicinanza della comunità, accostandosi al paravento per percepire la reazione del pubblico e capire cosí cosa fare e cosa dire. Ma quando il piccolo Samuele è apparso, vestito dei nuovi abiti, con il cappello appuntito che gli conferiva, malgrado il colore bruno della pelle, l’aspetto di un vero bambino di Wermaizah, residente lí da generazioni, Rabbi Yossef Ben-Klonimus ha improvvisamente capito di non aver alcun bisogno del sostegno della comunità al di là del paravento, e di poter attingere autorità e saggezza dalle profondità del proprio animo. Da quel momento ha cominciato a riacquistare sicurezza al punto che la curiosità di vedere con i propri occhi le due donne si è trasformata in obbligo impellente.
Prima di tutto obbligo nei confronti di donna Esther-Mina, raggiante di angosciata bellezza. È vero, Rabbi Yossef non sa se il rifiuto a sposarlo sia stato solo dei suoi genitori o anche della donna, tuttavia ora non può ignorarne l’angoscia, accresciuta dal prolungato silenzio del giovane e riccioluto marito di cui teme il tradimento. Quindi, in qualità di giudice imparziale, si sente in dovere di concedere una possibilità alla donna che ha espresso la disapprovazione, tornata nella sua città a chiedere giustizia. Non che intenda favorirla in nome di memorie di gioventú, ma nemmeno vuole mostrarsi indifferente a quel viso bello e delicato, che con il suo limpido pallore gli scioglie il cuore. Pretende dunque che Messer Levitas faccia uscire lei e tutti gli altri dal piccolo tribunale, illuminato dalla fiamma dei grossi ceri, e introduca le due mogli del mercante, per un interrogatorio a porte chiuse.
E pare proprio che le donne della comunità di Wermaizah, tenendo isolate, con una strana segretezza, le due magrebine già dalla prima sera, quando sono scese dal carro quasi prive di sensi, attendessero questo momento. Rapidamente le due donne vengono condotte, ognuna per strade diverse, alla sinagoga, e il cuore di Ben-Atar prova una stretta alla vista delle mogli avvolte in neri e ruvidi mantelli, i visi scoperti, senza ombra di cipria o ombretto, senza anelli o monili, quasi che le ospiti avessero deciso di proposito di privarle del fascino di quei particolari che distinguono una donna dall’altra, mostrandole quanto piú uguali nella nuda ed essenziale femminilità e sottolineando cosí l’ironia della loro duplicità. Ma mentre Ben-Atar si precipita con un gemito verso le mogli, spogliate del loro splendore, le donne di Wermaizah lo respingono con fermezza, impedendogli di avvicinarsi, come se la sua intenzione fosse di dissuadere le testimoni e non solo di consolarle.
Cosí, senza nemmeno una parola di spiegazione, le due vengono condotte nel piccolo vano del tribunale, svuotato dei contendenti, e fatte sedere l’una di fianco all’altra, di fronte al giudice, che alla vista di quella svelata duplicità è colto dall’emozione e a malapena si trattiene dall’alzarsi dal seggio e fuggire in seno alla saggia comunità che continua a seguire ogni sua mossa anche al di là dell’ermetico paravento. E poiché non sa se il divieto di appartarsi con una donna valga anche nel caso ve ne siano due, permette al piccolo ospite, il figlio di Elbaz, di rimanere con lui e fare da interprete.
Infatti, benché non sia facile condurre un interrogatorio a porte chiuse senza una lingua comune, Rabbi Yossef Ben-Klonimus appare ben deciso a rinunciare alla fluente traduzione del rabbino per timore che quell’uomo scaltro possa travisare e manipolare le risposte delle donne e la verità ne esca alterata. Preferisce quindi accontentarsi di un interprete piccolo, gracile e inesperto, che però riporterà con fedeltà, anche se in maniera imprecisa e frammentaria, quelle semplici domande e risposte, barcamenandosi tra l’ebraico delle preghiere e l’ismaelita del quotidiano. Tanto piú che dopo il lungo viaggio in comune le donne e il bambino devono aver imparato a conoscersi e sarà quindi possibile, grazie ai gesti delle piccole mani e all’espressione del viso, strappare alle donne impaurite che gli siedono di fronte una testimonianza di condanna che supplirà facilmente all’ostinato silenzio dell’imputato Abulafia.
Malgrado mai in vita sua il cantore della sinagoga di Wermaizah abbia interrogato dei testimoni, gli scritti del Sinedrio gli hanno insegnato che occorre innanzi tutto mettere a proprio agio l’interrogato e rassicurarlo, per poi penetrarne piú facilmente la scorza e giungere al candido nocciolo. Cosí, con tono calmo e cordiale, domanda dapprima alle donne i loro nomi, ma non si accontenta di questo e chiede anche i nomi dei loro padri, delle madri, di fratelli e sorelle, di figli e figlie, di zii e zie senza distinguere tra nomi di vivi e di morti, di parenti vicini e lontani. Ben presto, dunque, lo spazio della sinagoga di Wermaizah si riempie di una piccola comunità mediterranea che fluttua gemella e antagonista a quella ashkenazita, brulicante al di là del paravento.
Ma Rabbi Yossef Ben-Klonimus non si ferma ai nomi delle donne; desidera anche sapere l’età di ciascuna di loro, particolare piú difficile perché un esatto computo degli anni è sempre velato dall’incertezza e occorre tener conto del lungo viaggio per mare, al quale si è aggiunto un tratto non breve via terra, rendendo ancor piú vago ciò che, per propria natura, è già frammentario e pieno di dubbi. Quindi gli anni di una donna si sovrappongono a quelli dell’altra tanto che per un momento pare che la Prima Moglie sia piú giovane della Seconda. Ma il piccolo interprete è pronto a rimettere le cose a posto e il curioso giudice di Wermaizah è in grado di penetrare, seppur per mezzo del ponte traballante della dimenticata lingua sacra e dei gesti di un bambino concitato, l’intimità di due diverse dimore sulla costa africana del Mediterraneo, colme di oggetti e di utensili, di letti e di lenzuola, per scoprire, dietro il profumo dei fiori e delle spezie, e il chiasso dei bambini, l’onta celata e l’infamia di un’imposta bigamia.
Con questo proposito in mente, il giudice chiede dunque di allontanare per qualche momento la moglie giovane e di rimanere solo con l’anziana che, ingenuo e inesperto com’è, gli pare malaticcia, debole e sottomessa, nella speranza di ottenere da lei una testimonianza di dolore, di sofferenza e di vergogna al punto che il verdetto che tra poco verrà pronunciato non solo apparirà come una naturale conseguenza delle sue parole, ma anche, forse, come un vero e proprio atto di salvezza. Tuttavia Rabbi Yossef Ben-Klonimus esita a far uscire la Seconda Moglie prima di affrontare, solo, il risentimento della Prima, che, ora lo sa, ha la stessa età della sua consorte ed è alta, ora lo vede, quanto lei. Esita perché non sa se la presenza del bambino, che ancora non ha raggiunto la maggiore età per gli ebrei, basti ad annullare il divieto di appartarsi, e soprattutto per il timore che il dolore dell’anziana moglie possa prorompere davanti a lui in una velata, o forse esplicita, maledizione di morte nei confronti dell’alta, bruna e snella rivale, il cui viso pare quello di un cucciolo bello e delicato e nei cui occhi di ambra balena di tanto in tanto una scintilla smeraldina.
Pare dunque che la bigamia giunta dal meridione per rivendicare la propria legittimità abbia contagiato anche Rabbi Yossef Ben-Klonimus, se ora non trova il coraggio di far uscire dalla stanzetta la Seconda Moglie, e la fa allontanare solo di qualche passo dalla Prima. E poiché non può rinchiuderla nell’Arca Santa le ordina, con l’aiuto dei gesti del piccolo traduttore, di ritirarsi in una stretta nicchia tra l’Arca e il muro orientale e di coprirsi il capo con un velo scovato in un cassetto cosí da non poter udire ciò che dirà la rivale.
Ma con sua grande sorpresa Rabbi Yossef Ben-Klonimus non riesce a strappare alla Prima Moglie nemmeno una parola di biasimo nei confronti della Seconda, sebbene lei sappia che la compagna non la può udire. Al contrario, se fino a questo momento l’amore per lei è stato distante, giacché non avevano occasione di conoscersi da vicino, nel corso dei quaranta giorni di navigazione sul vecchio vascello di guardia costiera e dei dodici giorni di viaggio sullo stretto carro, la sua anima si è legata a quella della giovane donna al punto che è possibile affermare ora apertamente che la bigamia, giunta nel cuore dell’Europa per ribadire il proprio diritto di esistere, tornerà nella patria nordafricana piú forte e unita di prima e forse non vi sarà piú nemmeno bisogno di due case separate, ma ne basterà addirittura una. Una sola casa? si stupisce il giudice, che immediatamente pensa alla propria dimora, sghemba, di legno, con il tetto di paglia, sostenuta da una scura palafitta, nelle cui stanze potrebbe forse aggirarsi un’altra donna, bionda, venuta a pretendere ciò che le è stato negato vent’anni prima.
Ma il brusio levatosi al di là del paravento rivela all’apprendista inquirente l’impazienza del pubblico nei confronti del suo zelo. Perché ogni membro della comunità, pur se elevato a strana e dubbia gloria, è tenuto, in forza della propria natura ed educazione, a non eccedere nel proprio ufficio e dunque la comunità, separata dall’Arca Santa, spera ora che questo cantore e suonatore di corno non dimentichi che la sua limpida voce e la conoscenza dell’ordine delle preghiere non concedono alla sua mediocrità di pensiero il diritto di venir meno agli obblighi.
Ma Rabbi Yossef Ben-Klonimus non dimentica i propri obblighi e quindi ora chiede alla Seconda Moglie di prendere il posto della Prima per completarne la testimonianza. È tuttavia sorpreso di scoprire che a questo obbligo si aggiunge anche un certo piacere, come se alle due donne ebree straniere, rimesse questa sera nelle sue mani, se ne unissero altre che sono state parte della sua vita. Come la bella imputata, che attende fuori in compagnia del marito, o la sua sposa, che attende a casa il suo ritorno; e in cuor suo non dimentica nemmeno la prima, defunta consorte, sepolta molti anni prima nella terra melmosa del piccolo cimitero in riva al Reno. Per un attimo pare che nelle membra di Rabbi Yossef Ben-Klonimus non formicoli solo una lontana bigamia, ma una vera e propria poligamia, e questo è un momento delicato. A gesti ordina al bambino di togliere il vecchio e lacero velo dalla testa della Seconda Moglie e, malgrado il timore di rimanere solo con lei, vince l’imbarazzo e manda la Prima dietro il paravento. Chiede poi alla giovane donna di avvicinarsi cosí da cercare di ottenere da lei una testimonianza che contenga anche solo un pizzico di intimo biasimo, rendendogli piú facile la pronunzia di un verdetto nello spirito dei Saggi di Ashkenaz.
E apparentemente questa speranza è ben riposta perché, contrariamente alla Prima Moglie, parca di parole e cauta nell’esprimersi per timore di macchiare o di infamare quella bigamia tanto cara al marito, sgorga ora dalla bocca della Seconda un sussurrato fiotto di parole arabe, impetuoso e veloce, tanto che il piccolo traduttore ne è completamente disorientato e si aggrappa con la sua piccola mano all’Arca Santa, quasi a chiedervi rifugio. Lentamente Rabbi Yossef Ben-Klonimus comprende che sul fondo della nave, oltre al feto germogliato nel ventre della giovane donna, ha preso segretamente forma non una supplica o una semplice lagnanza, ma una vera e propria chimera, completa e ricca, che già alla prima e breve domanda dell’uomo di Wermaizah erompe con foga fino a colmare l’angusto vano che per un momento, agli occhi della donna, appare come l’intero universo.
Da quando le è stato levato il velo, la Seconda Moglie ha capito, dagli sguardi di coloro che osservavano il suo corpo e il suo viso, di non essere la sola a coltivare quel sogno, ma che sono in molte a condividerlo. E malgrado non le sia stato chiesto di parlare di questa sua chimera, lei non esita a esporla a Rabbi Yossef Ben-Klonimus, fino a fargli perdere il controllo di sé.
E come le donne di Wermaizah le hanno levato la sera di Rosh Hashanah il sottile velo di seta, cosí ora lei si permette, la sera di questo Sabato Santo, di togliersi il mantello nero nel quale quelle pie donne l’hanno avvolta e di rimanere dinanzi al giudice spaventato snella e arrossita, ricoperta solo da una tunica sottile e sgargiante, un poco stinta dall’acqua di mare. Nel miscuglio di ebraico-arabo che sgorga ora dalla piccola bocca, la donna rivela a poco a poco un’incredibile verità: non solo lei è disposta a essere duplicata, ma vorrebbe anche essere duplicatrice. Quindi, mentre non ha alcuna lagnanza nei confronti della Prima Moglie, la rivale, di cui ha imparato a conoscere la pazienza e la bontà d’animo nel corso del viaggio comune per mare e per terra, prova piuttosto una cocente invidia nei confronti del marito, sposato a due donne costrette a condividere un unico uomo.
Ora il giudice curioso si rende conto di essersi spinto forse troppo oltre in questo interrogatorio, al quale tuttavia ancora non riesce a porre freno. È vero che Rabbi Yossef Ben-Klonimus non è affatto certo che il giovane traduttore, che si affanna nella lingua sacra con gesti vigorosi e con parole smozzicate emerse da ricordi di libri di preghiera, interpreti a dovere le parole della donna seduta davanti a lui con sfrontatezza. Nondimeno percepisce la rabbia e l’amarezza che colmano l’angusto vano e capisce che non dalla bigamia si sente minacciata la Seconda Moglie bensí dall’unicità del marito. Incapace di frenare la curiosità e leggermente risentito, Rabbi Yossef Ben-Klonimus è spinto a porre una singolare domanda: Un secondo marito? Come chi, per esempio? E mentre già si pente dell’inutile domanda il giovane traduttore gli fornisce la risposta, forse inventata o forse veramente attinta dal concitato miscuglio di parole arabe che sgorgano davanti a lui: Come voi, o mio Signore. Come voi, per esempio...
È questa una vera e propria freccia scagliata contro il suo animo, che lo ferisce di uno sconosciuto piacere, ma lo avvelena anche di un nuovo timore. Come se solo ora Rabbi Yossef riuscisse veramente a capire l’origine profonda e la motivazione fondata della nuova proibizione che si sprigiona dall’intera comunità nella sala al di là del paravento: Non vi è bigamia senza poligamia e a questa non vi sono limiti. Il corpo di Rabbi Yossef Ben-Klonimus è scosso da un tremito e il suo volto impallidisce per timore che la donna possa tentare di porre in atto la pretesa audace, seppur logicamente ineccepibile, continuando a spogliarsi anche della tunica mediterranea. Quindi, senza ulteriore riflessione, si affretta a raccogliere dal pavimento il mantello nero e abbandonato e con grande misericordia, ma con determinazione, lo avvolge intorno alle scarne spalle della giovane donna, come se avvolgesse il corpo di un malato infetto. Poi, con forza, abbatte il paravento che lo separa dalla comunità.
E quasi fosse giunto il momento della preghiera tutto il pubblico raccolto nella sinagoga si alza in piedi. Il rabbino Elbaz si precipita verso Rabbi Yossef Ben-Klonimus e a lui si uniscono, titubanti, anche Ben-Atar e Messer Levitas. Solo Abulafia rimane fermo al suo posto con volto inespressivo, sebbene anche lui non abbia dubbi che sia giunto il momento della sentenza. Il giudice dai capelli rossi, con il viso in fiamme, chiede al rabbino di Siviglia di cedergli il piccolo corno nero, prima di pronunciare il verdetto. E malgrado Elbaz esiti per un momento, quasi presentendo l’incombente sventura, non lo può rifiutare a colui che ha personalmente nominato giudice non piú di un’ora prima. Con grande frenesia ora il cantore afferra il bruno corno di montone andaluso, spuntato dalla tasca celata tra le pieghe del logoro mantello, chiude gli occhi e vi avvicina le labbra, forse per rafforzare anticipatamente l’imminente verdetto con quel suono celeste. Si odono tre suoni meridionali, prolungati, fiochi e tristi, seguiti da un breve silenzio che precede il verdetto, pronunziato sempre a occhi chiusi, con timore e trepidazione, verdetto non solo di disapprovazione nei confronti del socio giunto dal meridione, ma anche di anatema e scomunica.
Rabbi Yossef Ben-Klonimus si esprime in due lingue, cosí da farsi intendere da tutti. Dapprima si rivolge ai compagni, rassicurandoli nell’idioma locale, limaccioso e marziale, frammisto a parole ebraiche querule e spezzate. Poi parla nella lingua sacra con un’eloquenza che non lascia adito a dubbi e infine suggella il tutto con un breve suono di corno prima di riconsegnarlo all’allibito proprietario. Solo allora il pesante silenzio si sgretola in mormorii di approvazione misti a un pizzico di ammirazione per il modesto cantore che non ha temuto di condurre la comunità verso un orizzonte lontano ma chiaro. E mentre l’adirato rabbino sussurra velocemente in arabo la spiegazione della sentenza di scomunica al mercante scorato, Abulafia viene colto da capogiro e si accascia, svenuto. E quando donna Esther-Mina si precipita a chiedere l’aiuto di Messer Levitas questi, in ottemperanza al nuovo ordine, bada bene a frapporsi tra lei e lo zio scomunicato senza ancora sapere se la scomunica, testé pronunciata con tanta fermezza, includa anche le due mogli, di nuovo riunite.
Ma finché i veri discepoli dei Saggi della comunità avranno modo di chiarire ogni aspetto di questo verdetto, contro il quale, secondo la tradizione, non è dato appellarsi, gli israeliti di Wermaizah preferiscono separare, ancora per questa notte che diviene sempre piú fonda, l’ospite scomunicato dal resto del mondo. E pare che tra loro vi sia chi abbia dato prova di lungimiranza, perché all’imbocco di uno dei vicoli, non lontano dal campanile della chiesa, è stata affittata per l’accusatore sconfitto una stanzetta nella casa di una vedova gentile. Cosí, circondato dalle tenebre notturne, alla luce di una fiaccola da cui si leva un fumo nerastro e con il sottofondo di un coro di ranocchie del fiume, Ben-Atar viene condotto lí, scortato dallo schiavo nero, il giovane adoratore di divinità pagane, che agli occhi della comunità appare il piú adatto a fargli da accompagnatore. Ma il rabbino Elbaz, incollerito, disperato difensore, non è assolutamente disposto ad abbandonare il Signore della nave che dovrebbe ricondurlo nelle terre iberiche e lo segue, salendo dietro a lui le traballanti scale di legno non solo per consolarlo e consultarsi sul da fare, ma anche per dimostrare a tutti il proprio totale disdegno nei confronti di quella scomunica, tanto da considerare una propria vendicativa scomunica contraria nei confronti di tutta la comunità.
Nella stanzetta della vecchia gentile dai capelli grigi e dagli occhi azzurri, che altro non offre all’ebreo scomunicato che un giaciglio e un boccone di morbido pane, il rabbino sente il dovere di dare subito al Signore di Tangeri una consolazione piú consistente di un semplice scoppio di rabbia e di folli visioni di vendetta. Dopotutto Ben-Atar ha riposto in lui completa fiducia conducendolo appositamente dall’Andalusia per rinsaldare la disciolta società. E malgrado non sappia esattamente, ma possa solo immaginare, cosa sia avvenuto laggiú, accanto all’Arca Santa, dietro il paravento, nel corso dell’interrogatorio segreto della Seconda Moglie, Elbaz ritiene di avere una soluzione accettabile per il mercante interdetto, rimasto solo, con una nave colma di merci, nel cuore dell’Europa desolata e selvaggia. Una soluzione forse temporanea, ma che potrà, nonostante tutto, permettere il rinsaldarsi della società con l’amato nipote che la notizia della scomunica ha fatto crollare a terra come una giovane donna.
Ma come può il piccolo rabbino andaluso, che ora brancola nella fitta oscurità della sghemba stanza renana, alle cui pareti, non è da escludere, pende anche la figura di un crocefisso, osare esporre quell’espediente, escogitato come estrema possibilità di salvezza prima ancora che Ben-Atar si convincesse ad avventurarsi in un secondo processo sul Reno? Lacrime di dolore e di pietà, ma anche di segreta passione, pungono ora gli occhi di Elbaz commosso al pensiero sconcertante ma generoso di liberare lo scomunicato da quella bigamia rovinosa, non solo revocando il matrimonio con la Seconda Moglie, ma prendendola lui stesso in sposa per condurla a Siviglia e salvarla dall’infamia.
E mentre il rabbino Elbaz indugia, crogiolandosi al pensiero di quella nuova proposta, Ben-Atar esige che lui si rechi subito al cospetto della comunità per...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Viaggio alla fine del millennio
  3. Parte prima - Il viaggio verso Parigi o La Nuova Moglie
  4. Parte seconda - Il viaggio verso il Reno o La Seconda Moglie
  5. Parte terza - Il viaggio di ritorno o L’Unica Moglie
  6. Il libro
  7. L’autore
  8. Dello stesso autore
  9. Copyright