Guerra del lavoro
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Guerra del lavoro

Precariato, disoccupazione, licenziamenti, perché nessuno è al sicuro: come trovare un posto dignitoso in un conflitto ormai globale.

  1. 402 pagine
  2. Italian
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Guerra del lavoro

Precariato, disoccupazione, licenziamenti, perché nessuno è al sicuro: come trovare un posto dignitoso in un conflitto ormai globale.

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Precari contro pensionati, uomini contro donne, autonomi contro statali, dipendenti contro professionisti: negli ultimi anni il mondo del lavoro italiano si è trasformato in un vero e proprio campo di battaglia, in cui - tra giovani in fuga, cinquantenni licenziati e imprese al collasso - la scarsità di posti disponibili e l'assenza di riforme efficaci hanno causato una pericolosa spirale di tensioni e reciproche accuse. Dopo aver indagato per anni le realtà dell'universo occupazionale, Passerini e Marino denunciano contraddizioni e assurdità del sistema attuale e spiegano come districarsi nella giungla lavorativa italiana: dal ruolo cardine della formazione alle molteplici possibilità per reinventare il proprio mestiere, dai profili più richiesti alle migliori occasioni di impresa e investimento, fino alle potenzialità connesse alla rivoluzione delle nuove professioni, gli autori spiegano come uscire dalla guerra assurda in cui siamo imprigionati e, soprattutto, mostrano quali sono le idee e i progetti già oggi esistenti in Italia e in Europa per creare lavoro e costruire così un futuro dignitoso per noi stessi e il Paese.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
ISBN
9788858667422

PARTE SECONDA

Come se la passano…

1

Il pianeta lavoro: privati, pubblici, autonomi e imprenditori

Cinque anni che hanno cambiato il mondo

Il quinquennio di crisi, dal 2008 al 2012, che ha coinvolto tutti, nessuno escluso, esige un’analisi accurata per essere compreso e affrontato.
Facendo tesoro della miniera di dati Istat (in particolare il Rapporto annuale 2013), non sempre utilizzati e valorizzati, se non nella stretta cerchia degli addetti ai lavori, scopriamo che dal 2008 al 2012 in Europa hanno perso il posto di lavoro 5 milioni di persone, prevalentemente uomini. La crisi ha colpito tutti i Paesi ma in modo diverso. La Germania, per esempio, che aveva subìto una battuta d’arresto nel 2009, nel 2010 ha visto crescere la sua occupazione, così come, sebbene più debolmente Regno Unito, Austria e Belgio. L’Italia appartiene invece al gruppo di Paesi che registrano un saldo negativo di posti di lavoro. I tassi di occupazione italiani, lontani dalla media dei Paesi Ue, si sono abbassati, e i tassi di disoccupazione dalla primavera del 2012 hanno superato la media europea.
Più della metà della crescita è dovuta ai 30-49enni, il cui gap con i giovani di 15-29 anni è aumentato e ha raggiunto nel 2012 un differenziale di 16 punti a svantaggio dei più giovani. Nello stesso periodo si sono acuite anche le differenze territoriali tra Nord e Sud: il tasso di disoccupazione si è fermato al 7,4% al Nord e ha raggiunto il 17,2% al Sud. Sono aumentati i disoccupati di lunga durata, ormai sopra la metà del totale, e si è allungata la durata media della disoccupazione, arrivata a 21 mesi nel 2012 (15 mesi al Nord e 27 mesi al Sud); le persone in cerca di prima occupazione, inoltre, impiegano oggi oltre 30 mesi per trovare un lavoro. È diminuita l’area dell’inattività, riflesso del fatto che ci sono più giovani e più donne che vogliono lavorare, mentre meno adulti vanno in pensione. L’Istat calcola che ci sono in Italia 6 milioni di persone potenzialmente impiegabili. Si tratta di oltre 3 milioni di disoccupati a cui bisogna aggiungere 3 milioni di persone disponibili a lavorare anche se non cercano un lavoro oppure che sono alla ricerca di un lavoro ma non sono immediatamente disponibili. Tra coloro che non cercano più un lavoro c’è un esercito di scoraggiati, che pensano di non poterlo trovare, che sono soprattutto donne, principalmente del Sud.

Temporanei e dirigenti

Al calo del numero degli occupati in Italia si è accompagnato l’aumento di contratti a orario ridotto: mentre nel primo periodo della crisi sono stati subito espulsi i lavoratori a termine, successivamente il lavoro temporaneo ha ripreso a crescere. Così in Italia, nei Paesi scandinavi, in Francia e nel Regno Unito; Germania e Polonia invece hanno mantenuto o accresciuto i loro tassi di occupazione senza un aumento del lavoro temporaneo.
Nello stesso tempo, si sono diffusi i mestieri più esecutivi nel commercio e nei servizi e le professioni meno qualificate, a discapito di artigiani e operai specializzati, ma anche di professionisti qualificati: tra questi colpisce la vera e propria mattanza dei dirigenti e degli imprenditori, che alla fine del periodo perdono 450 mila unità, poco meno della metà del totale (−42,6%), di cui quasi 100 mila solo nell’ultimo anno, in maggioranza piccoli imprenditori e dirigenti d’azienda.
Anche i giovani si confermano come vittime designate: hanno meno probabilità di trovare un lavoro e, quando lo trovano, rischiano più di altri di perderlo. Tra le forme del lavoro, diminuiscono i contratti standard a tempo indeterminato e aumentano quelli a tempo parziale e atipici.

Dipendenti e atipici

L’occupazione a tempo indeterminato e a orario pieno perde peso soprattutto per i giovani e per gli adulti tra i 30 e i 49 anni. È aumentato il numero di occupati part time a tempo indeterminato, soprattutto per i giovani tra i 15 e i 29 anni e quasi esclusivamente nel terziario. Si tratta però di un part time involontario, che riguarda il 54,4% tra i dipendenti a tempo indeterminato e oltre un terzo di autonomi.
OCCUPATI PER TIPOLOGIA LAVORATIVA, valori assoluti e incidenza percentuale



Valori assoluti Incidenza %
Standard 17.075 74,6
Dipendenti a tempo pieno 12.407 54,2
Autonomi a tempo pieno 4669 20,4
Parzialmente standard 3016 13,2
Dipendenti permanenti a tempo parziale 2432 10,6
Autonomi a tempo parziale 584 2,5
Atipici 2808 12,3
Dipendenti a tempo determinato 2375 10,4
Collaboratori 433 1,9
TOTALE 22.899 100,0
Fonte: Istat, Rapporto annuale 2013
La riduzione tendenziale del lavoro standard e la crescita del lavoro non standard sono la testimonianza anche dei costi che in termini di dispersione del capitale umano si sono verificati in questi anni. Il lavoro non standard viene pagato di meno, mentre dovrebbe avere un premio per la precarietà, e quindi costare di più.
Oltre all’aumento degli occupati con contratti a tempo parziale e degli atipici, diminuiscono le probabilità che l’occupazione non standard si trasformi in lavoro standard. Nel 2012 su 100 neo occupati, 53 hanno trovato un lavoro atipico, 16 un lavoro parzialmente standard (part time) e solo 31 un lavoro standard. Si dimezza tra i dipendenti a tempo indeterminato il passaggio da part time a tempo pieno; resta invariata la quota di chi rimane ancora atipico a un anno di distanza (58%); si riducono i passaggi verso il lavoro standard, mentre diventano più frequenti quelli verso la disoccupazione. La probabilità che un lavoro temporaneo si trasformi in un lavoro standard è più bassa per le donne e per chi è residente al Sud.

Partite Iva penalizzate

Un punto di osservazione eloquente delle trasformazioni in corso nel mondo del lavoro è quello delle condizioni delle partite Iva. Sono oltre 5 milioni. L’Osservatorio dei lavori, che ha presentato qualche tempo fa alla Camera il Rapporto Lavoro a perdere: meno reddito, meno occupati, ha contato e radiografato quasi 2 milioni di professionisti e collaboratori e parasubordinati, che versano i loro contributi previdenziali alla gestione separata dell’Inps (Inps2). Sono davvero tanti, ma dentro questo esercito, metafora del lavoro indipendente e professionale, in realtà si nascondono molti abusivi, in grigio o finti autonomi: quelli che sotto i vestiti del lavoratore-consulente del terziario avanzato sono sostanzialmente dei dipendenti camuffati.
Le partite Iva sono negli anni cresciute molto, anche se oggi sono in calo per cause diverse da imputare alla crisi generale che colpisce anche loro; alla stretta imposta dalla legge Fornero che aveva l’obiettivo di ridurne gli abusi; all’aumento ormai insostenibile dei costi. Loro ce la stanno mettendo tutta per fermare quella che considerano un’ingiustizia e un accanimento, anche se, dal momento che la coperta è corta, è probabile che saranno le vittime designate della scarsità di risorse e della mancanza di santi protettori. Per questo, il cosiddetto Quinto Stato, il popolo delle partite Iva, professionisti, lavoratori della conoscenza e collaboratori vari hanno lanciato un appello contro il progressivo aumento dei contributi previdenziali a loro carico.
Inseriti nella gestione separata dell’Inps, questi professionisti e collaboratori hanno visto crescere nel tempo l’aliquota contributiva dal 10% al 27,72% del 2013. Quest’anno hanno bloccato l’aumento dei contributi di un punto, che avrebbe dovuto arrivare oltre il 28%. Ciò che li terrorizza è che nei prossimi anni l’escalation dell’aliquota arriverà sino al 33% nel 2018, esattamente la stessa quota che si paga per un lavoratore dipendente, a cui va aggiunto lo 0,72% per maternità e malattia. Una crescita insostenibile, denunciano da tempo le associazioni che rappresentano soprattutto i 260 mila professionisti esclusivi, che versano i loro contributi unicamente alla gestione separata dell’Inps, dal momento che i fatturati scendono e i pagamenti, spesso bassi, ritardano.
I professionisti a partita Iva sono anche indispettiti per le disparità di trattamento rispetto ad altre categorie. Artigiani e commercianti, per esempio, pagano meno del 22%, mentre collaboratori a progetto e lavoratori dipendenti intorno al 9% (a carico del lavoratore), quote che vengono integrate dai rispettivi datori di lavoro, che versano dal 18% al 24%, fino ad arrivare al 33% complessivo per un lavoratore dipendente.
A sostenere le buone ragioni delle partite Iva alcune associazioni che le rappresentano (tra le altre Acta-Associazione consulenti terziario avanzato, Consulta lavoro professionale della Cgil, il Colap, Confassociazioni, Agenquadri, il Dipartimento democrazia economica della Uil) hanno lanciato una campagna, invitando a una raccolta delle firme avviata sulla piattaforma delle petizioni Change.org. Finora gli appelli hanno incassato una certa solidarietà a parole, ma la paura delle partite Iva è quella di restare stritolate da altri soggetti che hanno un maggior potere di lobby e di condizionamento nel cammino dei processi legislativi.
Al danno dell’aumento dei costi, si aggiunge poi anche la beffa: l’incremento del carico contributivo, che assottiglia i magri margini, avviene proprio a ridosso di una nuova legge (4/2013), che ha appena riconosciuto i professionisti non regolamentati, che sono al di fuori di albi e ordini; ma questo riconoscimento, secondo il parere emblematico di una traduttrice dal francese e dall’inglese di testi finanziari, che lo ha inserito nel blog di Acta, «porterà solo a inserire una frasetta in ogni fattura e nella carta intestata, indicando che sono una professionista di cui alla nuova legge 4 del 2013». I lavoratori autonomi iscritti alla gestione separata dell’Inps (che vanno dai grafici ai designer, ai traduttori, consulenti, formatori, informatici e altri) chiedono di avere la stessa attenzione che hanno i lavoratori dipendenti per i quali si prospetta la riduzione del cosiddetto cuneo fiscale e denunciano, inoltre, la presenza di un elevato numero di partite Iva fasulle (circa 400 mila), nonostante la legge Fornero (92/2012) che, sino a questo momento, non ha ottenuto grandi risultati visto che sotto le spoglie di un lavoratore a partita Iva si nascondono in verità lavoratori di fatto dipendenti travestiti da autonomi.

Autonomi, ma senza dipendenti

Tra i 5 milioni di lavoratori autonomi, l’Istat ha realizzato un particolare focus su quelli che non hanno dipendenti. In pratica, come li definiscono alcuni, si tratta di imprenditori di se stessi, chi per forza, chi per scelta, o di capitalisti personali, come sostengono altri.
L’Istituto nazionale di statistica ne ha calcolati 3.369.000. Quelli tra costoro che hanno un solo cliente sono 797 mila (il 23,6%); quelli che hanno invece più clienti sono 2.572.000 (il 76,4%). Questa categoria professionale, relativamente nuova, figlia dei cambiamenti economici e normativi che hanno sconvolto il cosiddetto lavoro indipendente, è in trasformazione. In questi cinque anni si sono ridotti di numero, sia i monocommittenti sia quelli con oltre un committente, ma la tendenza più recente è quella di un nuovo aumento dei primi.
Gli autonomi senza dipendenti complessivamente rappresentano la maggioranza degli indipendenti (59%) e sembrano esprimere di fatto un grado di maggiore indipendenza economica nello svolgimento del lavoro. La ricerca Istat rivela che nel 2012 circa due su tre (65%) lavorano in piena autonomia per quanto riguarda il luogo e l’orario di lavoro, mentre gli altri sottostanno ad alcuni vincoli. Gli autonomi monocommittenti soggetti ad alcuni vincoli sono composti prevalentemente da donne, da residenti al Nord, da giovani under 29 anni, da occupati part time, da lavoratori con anzianità lavorative basse e da persone che dichiarano o di essere alla ricerca di un lavoro o che desiderano aggiungerne uno alla loro attività. Tra i settori in cui operano vi sono soprattutto i servizi collettivi e personali, la sanità e l’assistenza, i trasporti, il magazzinaggio e le attività finanziarie. Sono agenti di commercio, camionisti, rappresentanti, agenti di assicurazioni, infermieri e specialisti in terapie mediche.
Nel 2012 sono aumentati gli autonomi monocommittenti dotati di forte autonomia. Si tratta spesso di lavoratori con 50 anni e oltre, diplomati, occupati, sposati senza figli, più uomini che donne, spesso residenti al Sud. I settori in cui operano sono l’agricoltura, il commercio e i servizi alle imprese. Tra le professioni, la più praticata è quella degli agricoltori specializzati; seguono poi gli esercenti di vendita al dettaglio, anche in franchising.
Tra gli autonomi con più di un committente, diminuiscono quelli che hanno meno autonomia. Sono più spesso uomini, tra i 30 e i 49 anni, con al massimo la licenza media, un numero significativo di stranieri. Operano soprattutto nelle costruzioni (il 32%), nel commercio, nei servizi collettivi e personali. Tra le professioni, nelle più diffuse ci sono muratori, idraulici, pittori, posatori di pavimenti, elettricisti, venditori ambulanti e agenti di commercio. Infine, tra gli autonomi pluricommittenti senza particolari vincoli ci sono coloro che si identificano con il profilo dei liberi professionisti e dei piccoli esercenti. Si tratta di un vero esercito di 1.685.000 occupati, metà dei quali autonomi senza dipendenti, molti residenti nel Mezzogiorno, spesso laureati e occupati a tempo pieno nel commercio e nei servizi alle imprese. Sono esercenti di vendite al dettaglio, avvocati, architetti, ingegneri, tecnici di costruzioni civili, fiscalisti e parrucchieri.

Lavoratori pubblici: capro espiatorio o risorsa?

I dipendenti pubblici in Italia sono troppi o sono il facile bersaglio di polemiche a volte ingenerose? Secondo alcune ricerche, questa categoria di lavoratori, spesso bistrattati e accusati di essere dei fannulloni, va analizzata con maggiore attenzione.
Un’analisi comparata, svolta da Forum PA sul pubblico impiego in Italia, Francia e Regno Unito (I dipendenti pubblici in Italia sono troppi?, Forum edizioni, maggio 2013) presenta alcune sorprese e sfata anche alcuni luoghi comuni. Smentisce per esempio che gli impiegati pubblici in Italia siano troppi o che costino troppo, ma conferma alcune storture che nessuna riforma è mai riuscita a raddrizzare. I pubblici dipendenti, semmai, sono troppo vecchi, non molto qualificati, mal distribuiti, retribuiti in modo disordinato, sottoposti a troppi dirigenti, che non sempre svolgono responsabilmente il loro ruolo.
Nonostante le differenze tra i sistemi del settore pubblico esaminati per i tre diversi Paesi, originate dalle diverse normative e organizzazioni dello Stato, la comparazione sui principali temi di discussione sul pubblico impiego si presta a interessanti ricorrenze e discontinuità.
I dipendenti pubblici in Italia (14,8% rispetto al totale degli occupati) non sono troppi; paragonati al numero dei dipendenti pubblici rispetto agli occupati negli altri Paesi risulta che sono di meno: in Francia sono il 20%, nel Regno Unito il 19,2%. Anche in termini assoluti sono di meno: in Italia circa 3,4 milioni (il 5,6% sull’intera popolazione), contro 5,5 milioni in Francia (l’8,3%) e 5,7 milioni nel Regno Unito (il 10,9%). La ricerca Forum PA spiega che i pubblici dipendenti sono soprattutto mal distribuiti e immobili: in Calabria abbiamo il 13% di impiegati pubblici sul totale degli occupati, contro il 6% della Lombardia. Inoltre sembrano inamovibili, impossibili da spostare secondo processi di mobilità: nel 2011 solo un dipendente su mille ha cambiato amministrazione, uno su cento ha cambiato ufficio, tutti su propria volontaria domanda.
Altro neo è l’età, in Italia molto avanzata. In Francia il 28% dei dipendenti pubblici è costituito da under 35, nel Regno Unito sono il 25%, in Italia solo il ...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione
  5. PARTE PRIMA – IL CAMPO DI BATTAGLIA
  6. PARTE SECONDA – COME SE LA PASSANO…
  7. PARTE TERZA – I PROFESSIONISTI, LIBERI DI CHE?
  8. PARTE QUARTA – CREARSI UN FUTURO DIGNITOSO
  9. PARTE QUINTA – I SETTE RIMEDI POSSIBILI
  10. Appendice