Quale crescita per l’Europa? Il credito, la finanza come leva positiva
di Alfredo Mariotti
Le crisi sono una costante della storia economica; sia che si tratti di storia dei Paesi sia che si tratti di quella delle imprese. Anzi, possiamo dire che l’andamento della storia è scandito dai periodi di crisi, siano essi temporanei, e quindi risolvibili in nuovi periodi di sviluppo, o irreversibili.
Quello che stiamo vivendo è un nuovo periodo di crisi, come è accaduto già nel passato. Dunque nulla di nuovo sotto il sole, in senso assoluto. Vedremo poi se le caratteristiche di questa crisi sono profondamente differenti rispetto a quelle che si sono presentate tempo addietro.
La crisi attuale è intensa e diffusa: intensa, perché persiste nel tempo e pare autoalimentarsi, e diffusa perché interessa le imprese e le famiglie, l’Italia e l’Europa intera.
Ma cosa significa precisamente essere in crisi?
Da quando il presidente John Fitzgerald Kennedy, nel lontano 1959, lo raccontò per la prima volta, è diventato un luogo comune definire la crisi come «quel concetto» che, in cinese, è rappresentato da due ideogrammi: il primo indica pericolo, il secondo opportunità.
Ora, io metterei da parte questo aneddoto, la cui veridicità è tutta da dimostrare, perché la gravità della crisi che tutti noi stiamo vivendo è tale da imporre un approccio che eviti facili ottimismi.
La crisi è sotto gli occhi di tutti: la verifichiamo ogni giorno leggendo i giornali, ascoltando la radio e guardando la televisione, ma anche discutendo con gli amici. Le storie di imprese che chiudono sono ormai all’ordine del giorno, tra queste anche aziende ritenute vere e proprie «istituzioni» del tessuto industriale del Paese, aziende che hanno fatto la storia del nostro Paese dal dopoguerra a oggi e che lasciano sul campo, insieme alla loro storia, centinaia di migliaia di disoccupati.
D’altra parte, i dati macroeconomici che permettono di misurare in modo scientifico lo stato di salute del Paese, non sono confortanti e le previsioni elaborate sono continuamente riviste al ribasso.
Ma come siamo finiti in questa situazione? Per pensare a come uscirne, è necessario prima capire bene come siamo arrivati a questo punto.
L’origine della crisi, l’evento scatenante che è rimasto nella memoria di tutti, è il fallimento di una delle istituzioni più ricche e potenti dell’economia occidentale: era il 15 settembre del 2008 quando il «fornitore globale di servizi finanziari» Lehman Brothers dichiarò bancarotta.
Per capire come è possibile che quella bancarotta abbia inceppato tutti i mercati finanziari mondiali e portato in recessione una parte rilevante del mondo – causando invece solo un rallentamento della crescita dell’altra parte, quella più popolosa –, dobbiamo fare un passo indietro.
Come sempre, fatti eclatanti come quello del crack di Lehman Brothers sono il frutto di una serie di problemi che si sono accumulati e ingigantiti nel tempo. Fu così anche nel 1929.
Dopo il disastro causato da quella crisi, economisti, esperti di mercati finanziari e autorità di governo definirono un piano articolato che avrebbe dovuto mettere al riparo il sistema economico mondiale da nuovi eventi di tale entità. E, in effetti, anche grazie a quel piano, la situazione di oggi appare meno drammatica. In cosa consisteva? Gli esperti misero a punto un piano poggiato su tre sistemi di sicurezza.
In primo luogo, lo Stato si fece carico di poveri e disoccupati, garantendo che non sarebbero stati abbandonati al loro destino, come era fino a quel momento previsto dai modelli economici liberali «classici».
In secondo luogo, lo Stato si assunse il compito di intervenire direttamente nell’economia per scongiurare il ripresentarsi di fasi recessive troppo intense, predisponendo interventi di stimolo della domanda che sono diventati «senso comune», di solito incentrati su importanti investimenti in infrastrutture.
Infine, scottati dall’esperienza, tutti gli Stati occidentali misero in atto delle regolamentazioni dei mercati finanziari, puntando in particolare a separare le attività del credito commerciale da quelle di tipo speculativo.
Alla base di quella crisi era la diffusione, tra strati crescenti della popolazione americana, dell’idea che fosse possibile arricchirsi facilmente speculando in Borsa. Con investimenti (anche per piccole somme di denaro), con quella che oggi si chiama leva finanziaria, i privati cominciarono a indebitarsi sempre di più, nella convinzione che il valore delle azioni sarebbe sempre salito e avrebbe permesso di pagare i debiti e ottenere cospicui guadagni.
Al primo accenno di indebolimento della domanda e di crisi del mercato azionario, milioni di piccoli risparmiatori scoprirono di non poter pagare i debiti. Tutto questo generò il panico che innescò una serie di effetti a catena: iniziò un vertiginoso crollo della domanda e della produzione, le banche andarono anch’esse in crisi, a fronte del sommarsi di perdite sugli investimenti e di ritiro dei depositi da parte di risparmiatori terrorizzati. Ci vollero due decenni, e la Seconda guerra mondiale, perché l’economia statunitense e quella mondiale si riprendessero da quella crisi.
La prima fase della crisi
Ma il sistema non era stato vaccinato a sufficienza contro l’illusione che «i soldi possano fare soldi da soli». E se, per alcuni decenni, le regole create negli anni Trenta funzionarono a protezione delle economie occidentali, alla fine del secolo scorso, l’ottimismo e il consumismo dilagante presero il sopravvento fino a trasformarsi in imprudenza.
Possiamo individuare il periodo «fatale» negli anni Novanta. Con l’intento di rendere più efficienti le economie, i governi iniziarono a mettere in discussione i principi che regolavano il mercato finanziario considerato ingessato da sistemi troppo restrittivi.
L’eccesso di finanza e l’accumularsi di squilibri
Pareva essere a portata di mano un vero Bengodi, in cui i mercati finanziari in via di globalizzazione e in eterna espansione avrebbero portato aumento della ricchezza e della domanda, piena occupazione, entrate fiscali abbondanti.
Nel 1999, il Glass-Steagall Act, che aveva diviso le banche commerciali da quelle d’investimento riservando solo a queste ultime gli investimenti più rischiosi, fu abrogato, dando il via alla nascita di banche universali.
Dalla fusione delle vecchie banche nacquero i Nuovi Giganti (della finanza), con investimenti puramente finanziari di dimensioni oltre il limite della comprensibilità; basti pensare che, nel 2006, il valore giornaliero degli scambi sui mercati finanziari superava di 60 volte quello del commercio mondiale.1 I Nuovi Giganti della finanza si definivano, con tracotanza, «too big to fail», «troppo grandi per fallire». Un’affermazione che racchiude una minaccia non troppo sottile: queste istituzioni sono così grandi, i loro interessi così ramificati e diffusi, che il loro fallimento travolgerebbe tutta l’economia.
La finanza in quel modo divenne autonoma dall’economia reale, sembrava vivere di vita propria, in grado di creare titoli basati su altri titoli (i derivati) e generare flussi di capitali mai visti prima.
Ma un sistema di questo genere non può reggersi a lungo. Per generare i profitti che alimentano questi Leviatani e coprire d’oro i nuovi «Padroni dell’Universo» (così erano chiamati i dirigenti delle grandi banche), cominciarono ad assumersi rischi sempre crescenti e a entrare in nuovi mercati, dotati di mezzi illimitati e affamati di profitti a breve e brevissimo termine. In altre parole, il sistema finanziario cominciò ad agire come se fosse un organismo sottoposto a doping.
Nessuno lo disse apertamente, ma solo gli Stati sarebbero potuti intervenire per far fronte a problemi e defaillance di questi colossi. Gli Stati, però, non solo non vigilarono con attenzione, ma addirittura si fecero coinvolgere dall’euforia e, deregolamentando il mercato, divennero complici nella creazione di un disastro che li avrebbe poi, di fatto, travolti in misura più o meno intensa.
Non fu solo il mercato finanziario ad accumulare squilibri fino al momento della deflagrazione. Sul fronte degli scambi commerciali, la finanza drogata spinse a una crescita innaturale, mai registrata prima, dei consumi – da sempre già altissimi – del popolo americano. La disponibilità a spendere degli statunitensi si concretizzò in una corsa agli acquisti di ogni tipo di bene – dai beni di consumo a quelli di investimento –, reperiti in ogni parte del mondo.
Ma come potevano gli americani pagare ciò che acquistavano, considerato che la bilancia commerciale segnava passivo?
Sono gli stessi creditori che investono i dollari guadagnati vendendo merci negli USA sugli stessi mercati finanziari, attratti dai lauti guadagni; oppure li tesaurizzano, accumulando ingentissime riserve in dollari e impedendo che il biglietto verde si svaluti e lo squilibrio si riduca.
Un mondo «ideale»
Anno dopo anno, le economie industrializzate e quelle in via di sviluppo si attrezzarono per servire, direttamente o indirettamente, questa domanda inesauribile.
Con particolare riferimento al settore delle macchine utensili, che in Italia ha in Ucimu-Sistemi per produrre il rappresentante ufficiale, l’ultimo decennio degli anni Novanta coincise con un periodo di crescita e decisa espansione per i costruttori italiani che lavoravano a pieno regime per servire, direttamente e indirettamente, le richieste del mercato statunitense. La domanda di macchine utensili (di qualità) per produrre qualsiasi tipo di bene era talmente alta che le imprese italiane quasi non riuscivano a soddisfarla.
Figura 1 – Consumo mondiale di MU
Fonte: elaborazione su dati Gardner, Associazioni nazionali, International Trade Center
I clienti dei sistemi di produzione Made in Italy non erano solo gli americani: tutto il mondo era indaffarato a produrre per quel mercato inesauribile che investiva per essere più competitivo e produttivo. Le macchine utensili italiane erano destinate a: Germania, Francia, Spagna, Cina, Russia, Brasile, tutti dovevano produrre! Una buona parte della produzione italiana di settore restava entro i confini nazionali, impiegata per la realizzazione di beni di lusso o altri macchinari, a loro volta destinati a tutto il mondo.
I nuovi ricchi, e ricchissimi, cominciarono a crescere in modo smisurato (complice la finanza, ovviamente) e così fecero i consumi di fascia alta e altissima: abiti ben fatti, borse e scarpe di qualità, auto sportive, ultimi arrivi in fatto di elettronica di consumo e tecnologia. I costruttori italiani lavoravano, inanellando un record di produzione dopo l’altro.
Nessuno volle chiedersi se una simile situazione fosse sostenibile, cosa fosse accaduto al normale succedersi dei cicli economici, di espansione e di contrazione e così via. Quando le cose vanno bene, a nessuno piace avere dei dubbi.
Lo scoppio della crisi: i mutui subprime
I problemi, in realtà, si stavano accumulando. Uno dei settori in cui la finanza statunitense aveva deciso di entrare, a caccia di nuovi profitti e disponibile a correre nuovi rischi, era quello dei mutui per l’acquisto della casa.
Una volta «esauriti» i clienti in grado di fornire garanzie, si passò ai clienti «subprime», quelli che erano sotto il merito minimo di credito, non avendo né un reddito fisso né altre proprietà. Due furono i soggetti che decisero di offrire finanziamenti a questi clienti «rischiosi»: i grandi enti pubblici preposti proprio ai mutui fondiari (Fannie Mae e Freddie Mac), spinti a questo dalle autorità di governo desiderose di conquistare consensi, e le nuove banche universali (i Nuovi Giganti), alla ricerca di nuovo business. La logica economica di queste ultime era duplice.
Da un lato, assumendo che il valore delle case continuasse a crescere, il rischio era praticamente nullo: se il debitore non avesse potuto pagare, la banca si sarebbe presa la casa e l’avrebbe venduta, con un ottimo guadagno.
Dall’altra parte, per eliminare ogni rischio, le banche ricorsero all’ingegneria finanziaria. Invece di tenere in portafoglio questi crediti, li cedettero a proprie società finanziarie, che a loro volta li aggregarono in strumenti finanziari chiamati CDO, rimettendoli poi sul mercato. L’idea di base era che, mai e poi mai, le famiglie avrebbero smesso tutte insieme nello stesso momento di pagare i debiti. In questo modo, con queste premesse, questi titoli ottennero rating di primo livello e furono acquistati da moltissimi soggetti come titoli sicuri.
Successivamente, a partire da questi titoli, furono emessi titoli derivati, sempre dotati di altissimi rating, ingigantendo a dismisura il valore degli investimenti collegati a mutui concessi a soggetti non in grado di dare garanzie.
Il sistema poteva reggersi solo finché il mercato immobiliare avesse continuato a crescere: il rischio era quindi altissimo. Pochi uomini dell’amministrazione USA e pochi analisti osarono sollevare il tema, senza ottenere però ascolto: i profitti economici e i consensi politici spingevano a non voler vedere, l’efficienza del sistema finanziario USA era un dogma che non si voleva mettere in discussione.
Nella seconda metà del 2007, l’indice dei prezzi delle case iniziò a mostrare segni di cedimento, dopo anni di crescita. Con un ritardo di circa sei mesi, anche la Borsa di New York virò in negativo. A questo punto la situazione era preoccupante e, con solo un trimestre di ritardo, anche il PIL degli Stati Uniti iniziò a diminuire.
Nell’ultimo trimestre del 2008, quello del fallimento di Lehman Brothers, la crisi esplose: i prezzi delle case crollarono del 10%, i corsi azionari del 40%, l’economia si contrasse del 3,3%.
Nel 2009 tutti gli indicatori economici degli USA segnavano profondo rosso: il PIL −3,1%, la Borsa −21,5%, i prezzi delle case −5,5%.
I canali di trasmissione della crisi e le prime reazioni dei governi
Se l’origine della crisi è localizzata negli Stati Uniti, gli effetti furono distribuiti in tutto il mondo, attraverso una molteplicità di canali di trasmissione.
I mercati finanziari globa...