Identikit di un ribelle
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Identikit di un ribelle

  1. 341 pagine
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Identikit di un ribelle

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"Non avrei scommesso un centesimo sui miei cinquant'anni. Sui trenta forse, ma cinquanta neanche a pensarci." Se si guarda alle spalle, Piero Pelù non riesce a spiegarsi come faccia a essere ancora vivo. Ha dedicato ogni ora dei suoi giorni alla divinità più esigente che il suo cuore pagano potesse venerare: la Dea Musica. Per lei ha trascorso notti insonni a limare versi, ha girovagato per il mondo esibendosi con la stessa passione nei club più intimi e sui palchi dei principali festival internazionali. Al fianco dei Litfiba e in solitaria, Piero ha attraversato da protagonista oltre trent'anni di storia della musica italiana, contribuendo in modo significativo alla nascita della scena rock contemporanea. I suoi live adrenalinici lo hanno messo più volte a rischio, i suoi attacchi frontali ai potenti di turno e le sue grida di rabbia contro le organizzazioni mafiose gli sono costati cari: minacce, gogne mediatiche e addirittura il divieto di esibirsi in Sicilia. In queste pagine Piero si racconta a ruota libera, esorcizzando le sue paure e confidando i suoi timori. Primo fra tutti l'incubo delle droghe pesanti, che sono un grande mezzo di potere delle mafie, che ciclicamente minacciano l'esistenza delle generazioni più a rischio e che hanno coinvolto persone a lui care. Questo libro raccoglie la storia di un'evoluzione, la confessione di un ragazzo di strada divenuto uomo in rivolta, di un musicista che scava nella sua anima gitana per ricordarci che la disobbedienza non è un gioco da ragazzi né l'ultima spiaggia di chi non ha più nulla da perdere. Opporsi alle ingiustizie è un preciso dovere morale, una necessità. Perché come ci ricorda Piero: "Ribellarsi non è eroico. È vitale".

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Informazioni

SECONDA PARTE
Colpi di coda

57

La Trilogia dei Sopravvissuti

Nel 1999 mi ero appena lasciato alle spalle l’esperienza quasi ventennale nei Litfiba. Alla base di quella scelta, oltre a spiacevoli ragioni manageriali, c’era anche un personale bisogno di lavorare su me stesso, di lanciarmi in altre direzioni. Purtroppo quello che doveva essere un periodo di scoperta fu funestato dall’ingerenza e dalle ambizioni commerciali di chi avrebbe invece dovuto assecondare il mio percorso artistico. Il mondo intorno cambiava con la velocità della luce e anche la mia città si stava ripiegando su se stessa.
Firenze, per quanto piccola e limitata – soprattutto nei primi anni del Duemila – restava comunque la mia placenta. A tenermi sveglio ci pensava la programmazione della Flog (Fondazione lavoratori officine Galileo), uno dei più antichi e popolari centri di promozione culturale in città, che ancora oggi è sempre al passo con la musica del tempo. Ospita concerti di band rock alternative mondiali, il reggae con la dance hall di Jaka Dj, un bar e uno staff generosissimi e lo storico festival Musica dei popoli che, dal 1979, accoglie gruppi e cantanti etnici di grande livello da ogni parte del mondo. Nel resto della città, tutti i fermenti e le bellezze che avevamo respirato negli anni Ottanta e Novanta si erano come afflosciati con l’arrivo del nuovo millennio. I centri sociali lottavano con le unghie e con i denti e spesso erano costretti a soccombere, oltre che a subire qualche infiltrazione di schegge impazzite della nuova lotta armata. Nel 2000 il Centro popolare autogestito Firenze Sud, che dal 1989 era il punto di riferimento per la cultura alternativa, venne sgomberato per permettere alla Coop di edificare un ipermercato del cazzo (sfrattati dai compagni della Coop!). Adesso è relegato in una scuolina nel parco dell’Anconella, un piccolo agguerrito spazio dove, nell’ottobre 2009, ho fatto il mio ultimo concerto da solista in un’atmosfera da club punk londinese indimenticabile. Ma anche se è stato dirottato su una struttura decisamente più piccola, il Firenze Sud non trova ancora pace. Renzi vorrebbe chiuderlo una volta per tutte per fare spazio a chissà quale altra cieca speculazione edilizia.
Alla tristezza di veder morire il cuore della socialità fiorentina, si aggiunse la mezza delusione di dover lavorare per una casa discografica con la quale non era facile stabilire un rapporto artistico di fiducia.
Non si trattò di una scelta sbagliata, ma di un vecchio contratto firmato dieci anni prima che si rivelò una vera trappola. Nel settembre del 1989, infatti, dopo aver lavorato per nove anni da indipendenti con la Ira Records, ci ritrovammo a trattare il contratto con la Cgd. I discografici erano molto interessati a noi da tempo, ma erano anche preoccupati dalle tensioni interne che laceravano l’armonia del gruppo. In poche parole, avevano paura che ci sciogliessimo, così fecero un piccolo ricatto: ci proposero due contratti, uno a nome Litfiba e l’altro a nome Piero Pelù. In questo modo, in caso di scioglimento della band, si garantivano la possibilità di pubblicare dischi con il front man dei Litfiba. Questa loro proposta la dice lunga su quanto tesi fossero i rapporti tra di noi sul finire degli anni Ottanta.
Io chiesi al nostro manager di allora (nonché mio socio nella etichetta Ira, che aveva pubblicato la Trilogia del Potere) che cosa significasse quel mio impegno da solista, anche perché allora non avevo la minima intenzione di imboccare quella strada, anche se un discografico della Cgd mi aveva detto che i vertici dell’azienda credevano più a me da solo che a me con i Litfiba.
Il nostro manager mi disse di stare tranquillo. Mi assicurò che un contratto escludeva l’altro e che, se fosse stato rispettato l’accordo come Litfiba, automaticamente si sarebbe invalidato quello come solista. Io lo ascoltai, perché non avevo ragione di dubitare della sua parola, così misi la mia firma su quel dannato contratto.
Quando, dopo il concerto al Monza rock festival del 1999, decisi di andarmene dai Litfiba, non pensavo che sarei tornato sulle scene tanto presto. Pensavo a un lungo periodo di riposo, a qualche viaggio, a non prendere decisioni affrettate, come capita spesso a chi si sente ferito. Parlai con mio fratello Andrea della possibilità concreta di smettere. Lui mi disse: «Ora stai tranquillo, prenditela con calma. Se decidi di tornare, ci metteremo alla ricerca di una casa discografica pronta a seguire il tuo nuovo progetto».
Ero pronto ad ascoltare il suo consiglio, ma pochi giorni dopo, con la velocità di un fulmine, arrivarono alcuni rappresentanti dalla Wea a bussare alla porta. Anni prima avevano rilevato la Cgd e con essa tutti i suoi contratti pendenti, incluso il mio.
Mi presentarono la questione senza mezzi termini: «Caro Piero, ti ricordiamo che nel 1989 hai firmato un contratto con noi ancora valido. Cosa pensi di fare per onorarlo?».
Senza saperlo mi ritrovai imprigionato da una vecchia tagliola contrattuale.
Rimasi come paralizzato. Ero ancora sotto quel famigerato pezzo di carta, e del resto già un giudice lo aveva sentenziato: dovevo pubblicare con la Wea.
Sono uno che rispetta i patti, pertanto lavorai con loro al massimo dell’impegno e fino alla scadenza naturale del contratto. Ma purtroppo i vertici artistici della casa discografica non mi capivano e io non capivo loro. La mia nuova etichetta aveva un approccio troppo diverso dal mio. Loro volevano vendere vendere vendere, io volevo fare la mia musica, quella che mi rappresentava, il rock declinato a modo mio.
I miei primi tre album da solista – Né buoni né cattivi del 2000, U.D.S. del 2002 e Soggetti smarriti del 2004 – andarono a comporre la Trilogia dei Sopravvissuti. Per la prima volta avevo uno studio di registrazione professionale tutto mio, l’O-Zone, avevo il controllo totale sulle canzoni, sugli arrangiamenti, sulle registrazioni, sulla produzione e suonavo con una band fantastica, il Supercombo, composta in parte da vecchi elementi degli ultimi Litfiba e da qualche ottima nuova entrata come Cris Maramotti alla chitarra.
Si trattò di un momento stimolante ed estremamente impegnativo. Posso affermare senza ombra di dubbio che è stato il più stressante della mia vita. La difficoltà più grande era quella di iniziare una carriera solista proprio nel periodo peggiore nella storia della discografia italiana dai suoi albori. Gli anni tra il 2000 e il 2005 sono stati infatti terribili, caratterizzati da un rapido crollo verticale delle vendite. Oggi si vende talmente poco che ogni flessione è quasi ininfluente, ma in quegli anni un cambiamento così drastico significava doversi adattare rapidamente a una nuova realtà.
Le case discografiche, paradossalmente, si dimostrarono ancora più incapaci degli artisti a gestire la crisi. I vertici non capivano, si comportavano come se vivessimo ancora negli anni Novanta o addirittura prima. Basti dire che Né buoni né cattivi, che pure vendette più di mezzo milione di copie (una signora cifra per il 2000 e purtroppo inimmaginabile per chiunque oggi), fu liquidato dalla Wea come un risultato discutibile. A me sembrava semplicemente fantastico.
La Wea continuava a ripetere che le vendite erano basse, troppo basse, imperdonabilmente basse, e che il motivo era da ricercare nella scarsa commercialità del disco. Li guardavo con gli occhi fuori dalle orbite. Io volevo fare rock’n’roll, non pop. Con un cazzo di disco rock’n’roll pieno di influenze mediterranee (Med-rock, lo chiamavo io) avevo venduto oltre cinquecentomila dischi! E loro non erano contenti?
Né buoni né cattivi conteneva almeno tre canzoni che nell’ambito del rock italiano possono significare qualcosa: Io ci sarò, Toro Loco e Bomba boomerang. Ma alla Wea non sembrava importare più di tanto. Ero passato da un problema all’altro: da una band in crisi totale che però aveva venduto due milioni di copie con gli ultimi due album (Mondi sommersi e Infinito) a una casa discografica che sembrava avere la propria sede nel caveau di una banca.
Quelle discussioni mi indebolirono e spiazzarono non poco. Alla fine, stupidamente e forse inconsapevolmente, mi lasciai coinvolgere dai loro discorsi perché feci uscire un secondo lavoro che alcuni giudicarono troppo eterogeneo: U.D.S. Sicuramente cascai nel trabocchetto del produttore che manipola troppo la musica originale e superprodussi quel lavoro in studio, lo infarcii di troppi suoni, soprattutto elettronici, gran cazzata che andò a discapito di tutto il rock che c’era dentro.
Il produttore è come un governo, è buono solo se si impone il meno possibile.
I giornalisti scrissero che ero un barricadero rivoluzionario no-global, perché analizzavo con lucidità le porcate fatte dai politici italiani al G8 di Genova fino alla tragedia di Carlo Giuliani, ma i fan più rock (i fun, come li chiamo io) storsero il naso, perché dentro c’era Amore immaginato, una love ballad che cantai in duetto con Anggun: pazzesca, ma che deviava troppo dal mio riconosciuto stile rock. Il successo del brano fu clamoroso, tanto che decisi di preparare anche una versione del duetto in francese per il mercato transalpino. Andai a Parigi a registrare le voci ma, all’ultimo momento, decisi di non far uscire nulla per non fuorviare il mio pubblico e ora quel master sta chiuso nel mio archivio. Quel successo mi stava creando problemi di identità artistica.
Qualcuno si accaniva contro di me nonostante nel disco comparissero testi come:
È tempo di svegliarsi e di spiccare il volo.
Mille generazioni con un cuore solo.
Uscire dalle sabbie amico andare.
È meglio stare scomodi che farsi male.
Io uomo della strada a viso scoperto
sono vivo sono attivo sono un libro aperto.
E allora basta Risiko, apri quegli occhi, basta Risiko, esci dai blocchi
che siamo come il mondo e il mondo è come noi.
No, non mi nascondo io esco resto fuori e
esco da me stesso dalla gabbia colorata che c’ho addosso.
Festa nella tempesta tutto crolla e l’uomo della strada resta, resiste!
E torna anche Godzilla gonfio più di prima,
dimenticato il mostro nato a Hiroshima,
dimenticato a Delhi, dimenticato a Bonn, dimenticato a Roma, Mosca e Washington.
Il sassolino nello stivale ha fermato il generale.
Il genere del pezzo che dava il titolo all’album – per me inedito e sperimentale – fondeva il suono del rock, del new metal ed effetti tipici del rap come lo scratch. Lo definii rap’n’roll.
Le vendite andavano bene, il singolo con Anggun viaggiava che era un piacere sugli Fm, ma avrei fatto meglio a fare quello che avevo pensato in origine. L’amore immaginato l’avevo scritta per Mina. Peccai di egoismo e la tenni per me. Cazzata. Grande cazzata. Quello fu il momento più difficile.
Mi resi conto che i fan dei Litfiba non avrebbero mai digerito la separazione. Mai. Se ci pensi bene, anche dentro Infinito c’è molto pop, più che in U.D.S. Però Infinito era un album dei Litfiba e questo, di per sé, faceva una gran differenza. Era una questione di attaccamento al marchio.
La mia scelta no-logo senza i Litfiba si dimostrava impervia. Ma non impossibile.
In Stesso futuro cantavo:
Ehi tu, signore di tutto, sei solo schiavo di chi lì ti ci ha messo,
simbolo e prova vivente tu di quanti usano il mondo coi muscoli e coi guanti.
Ci sono dentro anch’io, ci sono dentro anch’io.
Voglio decidere anch’io,
io a quali condizioni, tu con quali compromessi,
noi parliamo del futuro dei nostri figli e di noi stessi.
Noi nella classe dei mondi più possibili
siamo di certo tra quelli più difficili.
In Resisti e stai dicevo:
Il mondo è in coma,
può solo vigilare.
Facciamo buona musica
per farlo risvegliare.
Di quella sessione di composizione e di registrazioni faceva parte anche Dea Musica, uno dei miei pezzi più amati dai fun, che poi avrei pubblicato su Soggetti smarriti. Ero molto soddisfatto del risultato, ma un giorno ecco che si mette di mezzo il destino. Arriva un fulmine che rovina completamente il file mentre faccio il backup all’O-Zone.
Questi segni vanno saputi leggere. Pensai che Dea Musica non dovesse finire su U.D.S. e lo misi nel cassetto. A proposito di quel brano, prima del fulmine era successa un’altra cosa strana. Nelle registrazioni di studio c’era alla batteria, accompagnato dall’amico Saverio Principini, produttore conosciuto a Los Angeles nel 1991, anche Vinnie Colaiuta, un immenso musicista che aveva già suonato in altri quattro brani di quell’album. Quando arrivò a Dea Musica disse: «Piero, questo brano mi piace un sacco ma non riesco a classificarlo».
Io lo guardavo senza capire: «Vinnie, hai suonato con Jeff Beck e Joni Mitchell, con Leonard Cohen e Quincy Jones, hai fatto pappa e ciccia con Frank Zappa, Sting e Joe Cocker e non riesci a classificare un brano mio?».
«È così, non ci posso fare nulla.»
Probabilmente il Med-rock di quel pezzo era una fusione troppo particolare e così mi toccò trascrivergli le parti di batteria. Una volta avute le parti, le interpretò in modo magistrale. La musica a volte è davvero st...

Indice dei contenuti

  1. Identikit di un ribelle
  2. Copyright
  3. Prima parte. Randagio
  4. Ringo
  5. Seconda parte. Colpi di coda
  6. Rock family
  7. Terza parte. Disobbediente e civile
  8. Crediti fotografici
  9. Indice