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Se me lo dicevi prima
Antonio
Nella mia prima vita io mi chiamavo Antonio. Il giorno in cui sono morto è stato quello in cui la mia ex moglie mi ha portato via per sempre i miei figli. O, forse, quello in cui ho scoperto che si vergognavano di me. Dopo la separazione ho vissuto tre anni in auto e poi, per altri sette, ho galleggiato in strada, senza vederli.
Non ho niente di originale, a parte il fatto che sono un senzatetto. Tutti, qui, in questa nuova dimensione, mi chiamano Antò. Ho cinquant’anni anche se ne dimostro molti in più, e ho avuto un passato. Felice perfino, da raccontare. Più o meno come tutti.
Mio padre faceva l’artigiano, riparava ogni oggetto (con gli orologi era abilissimo) e creava soprammobili in legno: dai carrelli per la frutta intarsiati agli sgabelli. Si era inventato perfino un “nascondi sigarette” per signore. Una minuscola scatolina in legno, più elegante di un normale pacchetto, che ne poteva contenere due o tre al massimo, con un vano per l’accendino.
Inevitabilmente, sono diventato anch’io qualcosa di molto simile a lui. Da bambino mi infilavo nella sua bottega e gli guardavo le mani come se fossero l’ottava meraviglia del mondo. Come se fossero arti montati separatamente da tutto il resto del corpo.
Perché non è che fosse particolarmente sensibile o geniale. Curioso, brillante. No. Aveva talento iniettato, direttamente ed esclusivamente, nella dita.
Era in grado di plasmare ogni cosa e di modellare perfino l’aria che respiravamo io e mia madre. Tutto era a misura di quel sant’uomo la cui fama, secondo me, ancora oggi non abbandona il quartiere in cui abbiamo abitato. Fino a qualche tempo fa, infatti, anche i ragazzini, se indicavi il civico 4 della via dove oggi c’è un bar ricevitoria del Lotto, ti dicevano: lì dentro c’è stato Houdini.
Riparava ogni cosa.
Non posso definire in altri modi il suo mestiere che poi diventò, con qualche diversità e anche con qualche carenza, il mio. E con molta meno poesia.
La mia non era arte e nemmeno magia. Più che altro applicavo le regole che mi aveva insegnato mio padre; anzi, che gli avevo rubato con gli occhi.
Ogni oggetto aveva un ingranaggio da sbloccare, riparare, incollare. Se avevi familiarità con gli incastri, eri a metà dell’opera.
Mia madre, Olga, non lo disturbava mai. Se ne stava rintanata in casa tutto il giorno.
La sua vita era come quella di un pesce in una boccia. Confinata, silenziosa e ripetitiva. Detto così, può apparire un destino senza via di scampo. Ma lei, un’altra dimensione, non l’avrebbe mai voluta. Un po’ come quando si allestisce una vasca autosufficiente per il pesce, così mio padre le aveva organizzato in ottantacinque metri quadrati tutto ciò di cui potesse avere bisogno.
Proprio il nostro caso era quel che si dice: casa-e-bottega.
Quando la mamma preparava il pranzo nella sua cucina di color del burro, lui semplicemente si alzava dal suo sgabello nel laboratorio, scostava la tendina che lo separava da casa, calpestava il pavimento in graniglia bianco e nero, mangiava e tornava in bottega. Senza nemmeno chiudere la saracinesca all’entrata del negozio. Lui non temeva i ladri, in quella pausa. I clienti capivano che non era in negozio ed era entrato in casa perché non sentivano la musica provenire dalla radiolina o il profumo della sua acqua di colonia ai chiodi di garofano.
Un giorno, quando avevo diciannove anni e stavo finendo la quarta superiore (ero stato bocciato un anno), trovammo mio padre accasciato sul suo tavolo da lavoro. Aveva l’espressione serena di chi non si oppone alla morte, ma la accoglie arrendevole. Era riuscito ad aggiustare il carillon della figlia dei Tozzi, in tempo. Prima di morire. Ma loro, quel carillon, non sono mai venuti a riprenderselo e io l’ho tenuto per anni perché era l’ultima cosa che mio padre aveva toccato.
Mia madre balzò fuori dalla boccia come se non aspettasse altro. Ma quale acquario e acquario milanese?! Me ne vado al mare, avrà pensato. Se ne tornò in Puglia da una cugina senza pensarci troppo. Anzi, secondo me, l’aveva sempre saputo e magari aveva tenuto una valigia di cartone pressato pronta sotto il letto. Me la immagino. Tutta una vita trascorsa in silenzio, all’ombra di un brav’uomo che non usciva da quel quartiere, da quel negozio. Era il minimo per lei, fuggire via, ora che non aveva più un motivo per restare. Io l’avrei condannata allo stesso destino. Ma a un marito si deve ubbidire, a un figlio no. Questo era un principio che le avevano insegnato, fin da bambina.
Anche per me era arrivato il mio momento. Finalmente solo, finalmente libero.
Ho lasciato la scuola senza diplomarmi, mi sono messo in società con il signor Tommasi che per anni aveva provato a sedurre (professionalmente), senza risultati, anche papà. In cambio del retro della bottega che utilizzavamo come casa, mi ha dato un appartamentino a due isolati da lì che fino a quel momento aveva affittato. Per un anno abbiamo fatto dei lavori di ristrutturazione in negozio e mi ha mandato a fare corsi di aggiornamento per imparare l’arte – la chiamava così – del buon venditore. Non potevo essere solo un “aggiustatutto”. E io gli oggetti proprio non avevo la fantasia di crearli. Ma nemmeno potevo essere solo un commerciante.
A dire il vero io avrei voluto “costruire”, non aggiustare o vendere. Ma questa è un’altra storia...
Ho dunque ampliato il negozio grazie al signor Tommasi che di fatto era diventato un socio: lui investiva i soldi per ristrutturare e ingrandire, e io ci mettevo, naturalmente, il lavoro e la credibilità del negozio. Soprattutto quella.
L’appartamento con cui ho barattato la mia casa d’infanzia era al quarto piano, senza ascensore, di un palazzo grigio con le inferriate alle finestre. Visto da lontano, l’edificio sembrava una groviera, perché le finestre erano più che altro buchi profondi. Ma quell’appartamentino era roba tutta mia. Niente profumo di legno vecchio o antico. Finalmente marmo. Niente fiori finti sul comò, niente altarini con foto di zii e parenti defunti prematuramente, posizionati qui e là negli angoli delle stanze. Mai odore di sugo, costolette, frittata. Oddio, il cibo di mamma mi mancava. Comunque ho messo un calendario al posto dei cucù, ho dato un nome al negozio (nulla di originale anche qui: Da Antonio) e insieme con il signor Tommasi abbiamo deciso che la bottega, oltre ad aggiustare gli oggetti, li avrebbe messi in vendita. Ma il nome scelto fu, naturalmente, un altro. Quello di mio padre: Da Giorgio.
«Per non interrompere il rapporto con la clientela affezionata» mi convinse il signor Tommasi.
Per una decina di anni le cose ci sono andate più che bene.
Sono anche riuscito a fare le vacanze tutte le estati. Andavo in Puglia da mia mamma. Mi sono comprato l’auto, una Fiat Bravo, e mi sono spinto fino in Sardegna, con un ex compagno dell’istituto tecnico.
Poi, un giorno, anzi, “il giorno”, è entrata la figlia dei Tommasi a chiedere se le potevo aggiustare la radio. Ho aperto la porta senza fare attenzione alla persona che la accompagnava.
Era entrata con la babysitter.
È così che ho conosciuto Tania. Solo lei poteva placare quella bambina, tarantolata. Anzi posseduta. Con tutti tranne che con Tania.
Prima di lei non avevo mai avuto delle ragazze fisse. Mi annoiavo. Si annoiavano.
Ma Tania è entrata in punta di piedi nelle mie giornate.
Spesso partiva per lunghi viaggi con i Tommasi, mi mandava delle cartoline buffe.
Per esempio, da Agadir, in Marocco, si fece dettare in arabo che le mancavo. Solo anni dopo mi ha tradotto il contenuto.
Oppure da Ibiza, scelse una cartolina con donne seminude sui pattini. Scrivendomi: «Ormai puoi averle solo in cartolina, donne così».
Le ho chiesto di sposarmi dopo la nascita del secondo figlio dei Tommasi. Perché in quel caso avrei rischiato davvero di perderla, sarebbe stata troppo impegnata per dedicarmi attenzioni. E io, trascurato, fuggo.
Ha accettato.
Era sicuramente più felice e decisa di me.
«Sei sicura?» le ho chiesto.
«Sono sicura» ha risposto dandomi un bacio a stampo. «Cosa ne sarebbe di te, solo soletto tutta la vita?»
Ci siamo sposati in un trullo dove mia madre aveva allestito con le sue mani un rinfresco. Non ricordo molto del banchetto. Ma solo di aver commentato, quando ho visto le orecchiette che mia madre aveva preparato personalmente per tutti, sottolineando quanto miopi possiamo essere noi uomini quando non ci accorgiamo delle potenzialità delle donne.
Mia madre, che di solito riempiva il suo frigo Smeg, sempre lucidato, di cibi noiosi, con cui proponeva menu altrettanto ripetitivi, in realtà era in grado di preparare un pranzo di nozze. Di sostituirsi addirittura a un catering. E pure superiore a tanti altri che avevamo, negli anni, assaggiato.
Io non sarei mai stato come mio padre. Ecco cosa pensai il giorno del mio matrimonio, grazie alle orecchiette di mamma. Di certo, anche perché, pur volendo, non avrei potuto dedicarmi in modo ossessivo a nulla di creativo. A tal punto da rischiare di trascurare Tania.
Io no. Sarei stato sempre al suo fianco.
Appena rientrati a Milano, siamo andati ad abitare nella casa al quarto piano senza ascensore. E, quando mi ha comunicato che avrebbe voluto continuare a lavorare come babysitter, ho acconsentito. Almeno fino a quando abbiamo avuto i nostri figli: Niccolò e, due anni e mezzo dopo, Leonardo. E lei ha smesso di lavorare. Anche perché le piccole pesti dei Tommasi nel frattempo erano diventate grandi.
Tania faceva sempre la cosa giusta con una fiducia nel prossimo che dissolveva anche la mia diffidenza. Non era prudente. Perché la fiducia è un azzardo.
Era così bella Tania. Ma proprio bella come una ragazza delle riviste. Parlava con tono remissivo e suadente. Come chi non disturba, ma ti viene in soccorso.
Dopo le due gravidanze era ingrassata, si era intristita, e quando i bimbi erano andati alle elementari aveva iniziato a lavorare in un bar. Ma sempre bella era rimasta. Aveva gli occhi azzurri, i capelli biondi e la pelle bianca come un cigno di porcellana.
Mi faceva diventare pazzo l’idea che lavorasse in un posto dove tutti i giorni qualche uomo avrebbe potuto portarmela via.
Ma più mi piaceva, più diventavo folle d’amore e di passione, e più la allontanavo e mi facevo andare bene la prima cretina che si fermava in bottega.
A casa tornavo sempre più tardi. Ora per il bar, ora per il signor Tommasi che diceva che i conti iniziavano a non quadrare, ora per una di quelle cretine con cui due parole dovevo pure scambiarle dopo averle scopate. Non potevo alzarmi in fretta la cerniera e liquidarle. Non potevo rischiare che per ripicca Tania sapesse che suo marito, che l’amava non con i fatti e nemmeno con le parole, ma tanto con qualcosa di simile al cuore, non si dedicava a una come lei per quelle come loro.
Un giorno ho visto da lontano quattro camion avvicinarsi alla via del negozio.
Il giorno dopo ho visto mettere le transenne. Poi alzarsi tanta polvere. Poi ho visto il negozio vuoto. La strada bloccata dai lavori per la costruzione di nuovi palazzi che avrebbero dovuto portarci lavoro in più.
Ma, quando ho iniziato a vedere il mio conto in rosso e il signor Tommasi ha insistito per vendere, ho ceduto il negozio a quelli che avrebbero costruito il megapalazzo, il paradiso del quartiere. Quelli che avevano fatto irruzione con camion e transenne.
«Vedrai che con i soldi che faremo ci compreremo qualcosa di diverso. Ho già varie idee. Magari ci spostiamo di zona, che questa diventa troppo industriale e l’artigianato non capiscono nemmeno cosa sia. Intanto vatti a fare una vacanza con la tua famiglia. Quando torni è tutto a posto.»
«Tutto a posto, signor Tommasi?»
«Tutto a posto, Antonio. Ti ho mai deluso, io?»
Allora ho portato i figli e Tania, preoccupata per quell’azzardo, da mia madre in Puglia. Abbiamo visitato i trulli di Alberobello. Tania aveva le espadrillas con la corda di iuta spelacchiata. Faceva qualche metro e si fermava ad aggiustarsele, perché aveva iniziato a camminare sbilanciata. Io non le offrivo un appoggio. Assorto com’ero in un pensiero fisso: “Tutto a posto per chi?”.
Li ho lasciati lì da soli il 12 agosto. Tania, le espadrillas rotte che avrei dovuto ricomprarle senza metterla così a disagio, e i miei bambini, abbandonati da mia mamma che aveva già previsto tutto e scuoteva la testa, impastando sempre qualcosa.
Sono tornato a Milano. Ho cercato il signor Tommasi. Sua moglie.
Non c’era più nessuno. Saranno in vacanza. Macché. Non sono più tornati.
E io non ho mai più avuto un lavoro. Ho macinato sensi di colpa per poche ore. Poi è passata.
Per un anno mi ha mantenuto Tania. Faceva il doppio turno in nero. I bambini si autogest...