1
Voglia di infinito
La malattia era stata straziante, interminabile, ma io non mi ero preparato alla fine. O forse, dentro di me, non avevo voluto farlo. E così, dopo, i primi giorni furono terribili…
Sembra ieri, e invece sono già passati quasi nove anni. Nove lunghi anni dalla scomparsa di Giovanni Paolo II. È finito il tempo dell’angoscia, della tristezza. Il tempo in cui il senso della mancanza, del vuoto, era talmente forte, insopportabile, che molta gente aveva sentito il bisogno di sfogarsi, di scriverlo. Migliaia di biglietti lasciati in piazza San Pietro o appiccicati al colonnato. Tanto poi lui avrebbe saputo come fare per leggerli. Migliaia di storie di vita quotidiana, dove dominava lo struggimento. Come quella donna, probabilmente giovane, che si firmava Ania. «Sento qualcosa di strano. Come se solo adesso mi rendessi conto che devo arrangiarmi da sola, che tu non ci sei più…»
Ma poi, una volta che l’accettai, ecco che cominciai ad avvertire la sua presenza. In un altro modo, ovviamente, rispetto a prima; ma fu subito una sensazione chiara, netta, precisa. E da allora è stato sempre così. In modo diverso, ripeto, ma lui continua a essere con noi, in mezzo a noi. Anzi, bisognerebbe dire, la sua presenza è diventata ancora più profonda, più efficace.
Dunque, finiva il tempo del dolore, e con il passare dei giorni, dei mesi, si apriva – lentamente, insidiosamente – il tempo della nostalgia. Ma come poteva viverlo, questo sentimento, chi per quasi quarant’anni aveva visto ogni giorno Karol Wojtyla, e con lui aveva parlato, pregato, mangiato, sofferto; e in un giorno di maggio del 1981, tenendolo fra le braccia dopo l’attentato, aveva perfino temuto che morisse; e, sempre con lui, aveva girato il mondo, conosciuto tanti Paesi, s’era trovato in mezzo a milioni di persone, e alla fine di ogni giornata, in qualunque posto si trovassero, gli dava la buonanotte?
Basta infatti osservare quelle lunghe incessanti file alla sua tomba, che prima era nelle grotte vaticane e ora nella basilica di San Pietro, accanto all’altare di San Sebastiano. La gente va lì per parlare con lui, per raccomandargli le proprie cause, affidargli i problemi irrisolti. Per tutte queste persone, il Santo Padre non è morto. Egli è presente nella loro vita spirituale, così come nei fatti di ogni giorno. Vengono anche da me, o mi scrivono, perché intervenga per loro presso di lui. Sono sicuri che il Papa intercederà presso il trono dell’Altissimo. E fanno pellegrinaggi sulle strade della sua vita, per incontrarlo di nuovo, per conoscerlo meglio, per chiedere intercessione. Desidero – ammetto di farlo anch’io – essere loro di aiuto in questo. E non resto deluso.
Tuttavia non finisce mai di stupire che, a nove anni dalla morte, Giovanni Paolo II continui a esercitare un così profondo fascino spirituale su tante persone, anche al di là del mondo cattolico, e specialmente sulle nuove generazioni, su tutti quei giovani che lo considerano il «loro» Papa.
Al tempo della sua morte, dei funerali, c’era chi sosteneva che quella massa enorme di gente fosse venuta lì, a San Pietro, per qualcosa di emotivo, di sentimentale, o anche soltanto per quella mania oggi dilagante di essere presenti ai grandi eventi per poi poterlo raccontare. Insomma, si era convinti che tutto sarebbe finito, sarebbe tornato come prima. E invece, in quella folla, molti ritrovarono la gioia di essere cristiani, o almeno cominciarono a guardare la vita con occhi nuovi, a scoprire le ragioni dell’agire morale. Ma un po’ tutti – e anche non credenti – furono contagiati dalla fede, salda come una roccia, di quell’uomo, perché non poteva che esserci una fede straordinaria dietro la serenità con cui era andato incontro alla sofferenza, alla morte.
E quindi, il fatto che ancora oggi, dalla sua memoria ma anche – vorrei dire – dalla sua tomba, si sprigioni una così abbondante messe di frutti spirituali, non si può spiegare se non alla luce di quella che io chiamo «eredità del cuore». I cuori hanno continuato a parlarsi. Perché i cuori possono attraversare anche le barriere del tempo. Anche le barriere frapposte dalla morte.
Qualcuno storcerà il naso. Ma, pur con tutti i limiti che può avere un fenomeno del genere, questa eredità del cuore spunta fuori singolarmente in una miriade di locali pubblici, specie nei bar, e soprattutto nelle periferie, di città grandi e piccole, in Europa come in America Latina. Entri e trovi un’immagine di Giovanni Paolo II, spesso con un cero acceso davanti. Ce ne erano addirittura tre nel baretto accanto alla chiesa di un paesino siciliano sotto Taormina. Al mio sguardo interrogativo, il proprietario ha smesso di farmi il caffè, si è tolto la coppola, e mi ha detto: «Signore, si ricordi che questo Papa ha lasciato un pezzetto di sé nel cuore di ciascuno di noi…». Era un uomo semplice, e serio, convinto.
C’è però un rischio oggettivo. Vuoi per il trascorrere del tempo, per la memoria corta dell’uomo d’oggi, vuoi per l’atteggiamento così schizzinoso della società e della cultura verso le grandi figure, e quindi per la tendenza a metterle presto in «archivio», c’è il rischio che il ricordo collettivo di Giovanni Paolo II si stemperi in qualcosa di puramente sentimentale, nostalgico, emozionale. E che questo ricordo, perciò, finisca per essere affidato soltanto alle foto nei bar, alle tante statue che gli sono state dedicate, o alle migliaia di asili, di strade, di piazze, di ospedali e di oratori che portano il suo nome.
Per dirla tutta, molti dei doni lasciati in eredità da Giovanni Paolo II alla Chiesa del terzo millennio non sempre sono stati compresi né tanto meno fatti maturare. Penso in particolare a quel grido profetico all’inizio del pontificato: «Non abbiate paura!». Anche Benedetto XVI l’ha ripreso e rilanciato nell’omelia per la beatificazione di Karol Wojtyla. Ma qual è stato l’ascolto, la ricezione, nel mondo cattolico? Spesso, invece che la speranza, avvertivi un senso di sfiducia, se non addirittura di rassegnazione…
E comunque, voglio ribadirlo, è importante rileggere, approfondire la figura, la persona, l’opera di Karol Wojtyla, il suo insegnamento, le prospettive che ha dischiuso sul futuro del cattolicesimo. In questo modo, si potranno anche comprendere meglio il senso e il contenuto delle due sfide che ha lanciato. Ai credenti: perché ritrovino l’audacia della fede, e il coraggio di viverla nella società di oggi, senza paure, senza complessi. E a tutti gli uomini: perché possano riconoscersi in un Dio Creatore, e quindi riuscire a guardare la storia con gli occhi stessi di Dio, gli occhi della pace, della giustizia, della solidarietà, insomma della fratellanza universale. Sfide che, a mio giudizio, ho sentito riecheggiare ripetutamente nei discorsi del nuovo Papa.
In conclusione, si potrebbe dire che Karol Wojtyla abbia interpretato, e in maniera radicale, il senso profondo delle Beatitudini. Anzi, che la sua stessa esistenza abbia rappresentato un modello ideale di come si possano vivere le Beatitudini in questo terzo millennio, pur nella difficile quotidianità che ogni uomo deve affrontare.
Dunque, le Beatitudini non sono una cosa del passato, bensì, come ha appunto testimoniato Giovanni Paolo II, una proposta di vita anche per oggi, e per tutti, nel segno dell’esperienza di Dio, di una moralità positiva e di una chiamata a vivere concretamente il Vangelo, a essere degli uomini giusti. Nel Catechismo della Chiesa cattolica c’è un’immagine bellissima, c’è scritto che le Beatitudini «dipingono il volto di Gesù Cristo e ne descrivono la carità». E Karol Wojtyla ha fatto appunto questo, ha mostrato il volto umano di Dio.
Sta qui il segreto della sua santità, sulla quale papa Francesco metterà il sigillo dell’autenticità nel giorno della canonizzazione. È una santità che è aperta a tutti, e avvicina gli uomini a Dio. Così, anche loro diventano santi, amici di Dio. Perché, in definitiva, di questo si tratta: entrare nell’amicizia con il Padre celeste.
2
Essere prete oggi
Se ripenso a quel giorno in cattedrale, al Wawel…
Ero lì, steso per terra. La fronte sul pavimento del tempio, ma non sentivo il freddo del marmo. E accanto a me, come me, gli altri diaconi. Cercavo di seguire il canto del Veni, Creator Spiritus, e poi delle Litanie, ma facevo fatica a concentrarmi. Ero tutto preso dal pensiero che da un momento all’altro lo Spirito Santo sarebbe disceso su di me. E io, perciò, dovevo essere pronto, pienamente pronto, a corrispondere alla sua azione, a mostrare la mia totale sottomissione a Dio, alla sua parola…
La vocazione, in Stanislao, era sbocciata presto, già ai tempi della scuola elementare. E in maniera molto naturale, molto spontanea. Anche se, in quella scelta, erano via via confluite un po’ tutte le drammatiche esperienze che lui aveva vissuto: la Seconda guerra mondiale, cominciata proprio con l’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche; la morte del padre, che lavorava nelle ferrovie ed era stato investito da un treno. E poi – Stanislao era il quinto di sette figli – la vita piena di ristrettezze, di difficoltà, ma che era andata avanti ugualmente grazie ai sacrifici di mamma Zofia, una donna eccezionale. Infine, la sua povera Patria tornata in schiavitù, stavolta sotto i comunisti, sotto Mosca. Una dittatura di colore diverso da quella nazista, ma sempre una dittatura.
Era il 23 giugno 1963. Cinquant’anni fa.
Due giorni prima, in Vaticano, era stato eletto il successore di Giovanni XXIII. E il nuovo Papa, Paolo VI, aveva subito annunciato la ripresa dei lavori del Concilio Vaticano II. Una decisione coraggiosa, a conferma di una Chiesa che, pur con le divisioni emerse dal dibattito nella prima sessione conciliare, intendeva affrontare apertamente la sfida del rinnovamento al suo interno e del confronto con la modernità.
Due anni prima, a Berlino, era stato costruito il Muro per impedire il continuo esodo dei tedeschi dell’Est. Un Muro che aveva spaccato in due non solo la città, non solo la Germania, non solo l’Europa, ma il mondo intero. C’era stato immediatamente un inasprimento della Guerra fredda, e dello scontro ideologico tra i due imperi, Urss e Usa. Il Cremlino, di conseguenza, aveva richiamato all’ordine i Paesi satellite, e in Polonia era ripresa la campagna ateistica, più dura che mai.
Stanislao aveva conosciuto Karol Wojtyla quando a diciott’anni era entrato in seminario. Era il suo professore di etica, e lo aveva colpito già la prima volta che l’aveva visto. Da qualche seminarista più grande aveva saputo qualcosa del suo passato: aveva perduto la mamma e un fratello quand’era ancora bambino, e poi, a vent’anni, il padre; aveva fatto l’attore, era anche poeta, e, dopo l’invasione delle armate hitleriane, per evitare di finire in un campo di concentramento aveva lavorato in una cava di marmo. Don Wojtyla però non ne parlava mai. Ma se per caso doveva fare qualche riferimento alla guerra, allora vedevi dai suoi occhi che si portava ancora dentro il ricordo di quel periodo terribile, e dei tanti amici e compagni di scuola, tra i quali molti ebrei, perduti in battaglia o scomparsi nei lager nazisti.
Don Wojtyla aveva cominciato a saltare qualche lezione, fino a smettere del tutto, a non venire più. Aveva troppi impegni. Già insegnava etica nell’Università Cattolica di Lublino. Poi, inaspettatamente, era stato scelto proprio lui, un prete giovane, un intellettuale, come vescovo ausiliare di Cracovia. E di lì a poco, scomparso l’arcivescovo, monsignor Eugeniusz Baziak, era stato designato vicario capitolare e amministratore provvisorio dell’arcidiocesi.
Si arrivò così al 1963, all’ordinazione sacerdotale di Dziwisz. Ma le loro strade si separarono di nuovo. Don Stanislao, dopo due anni come vicario nella parrocchia di Makow Podhalanski, riprese gli studi dedicandosi alla liturgia. Intanto, monsignor Wojtyla alternava la missione episcopale alla partecipazione ai lavori del Concilio Vaticano II.