Europa o no
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Europa o no

Sogno da realizzare o incubo da cui uscire

  1. 216 pagine
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Europa o no

Sogno da realizzare o incubo da cui uscire

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Tanto l'euro quanto l'unificazione europea sono stati celebrati - come già fu per l'unificazione italiana - come ideali romantici, che non lasciavano spazio per un'analisi economica dei costi e dei benefici. Oggi, però, il "meraviglioso esperimento" di cui parlava Robert Schuman, il sogno di una "pace perenne" dopo secoli di guerre, si è trasformato in un incubo: quella stessa Unione creata per favorire lo spirito europeo sta diventando una prigione, che istiga all'odio etnico e alimenta i peggiori stereotipi. Tenendosi a distanza dall'europeismo fanatico e dall'antieuropeismo irrazionale, Luigi Zingales analizza i fondamenti economici e le scelte politiche dell'attuale Unione Europea, vista non come fine ma come mezzo per garantire la libertà, la pace e la prosperità del nostro continente, e mette a fuoco alcune verità necessarie. Prima fra tutte che questa Europa è un patto faustiano tra Francia e Germania, che riserva al Sud del continente, e quindi all'Italia, un ruolo di comprimario e spesso di vittima. Dobbiamo ammettere che, così com'è, l'Europa non è sostenibile, ma il progetto europeo è ancora salvabile, a patto di riforme radicali in tempi brevi. Allo stesso modo dobbiamo ammettere che la crisi strutturale in cui l'Italia è precipitata negli ultimi vent'anni non è colpa dell'euro né può essere risolta con la nostra uscita dall'euro. Il vero problema è che abbiamo smesso di crescere, e in particolare ha smesso di crescere la nostra produttività. Se non invertiamo questa tendenza, non possiamo competere in Europa e nel mondo, non possiamo sostenere il debito pubblico, non possiamo offrire ai nostri figli un futuro nel nostro Paese, Europa o no.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2014
ISBN
9788858671313
Argomento
Business

1

La realizzazione di un sogno

Nel 2001, l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi celebrò l’introduzione dell’euro definendola «la realizzazione di un sogno». Non da meno fu Romano Prodi, all’epoca presidente della Commissione europea, che proclamò con orgoglio: «L’euro apre una nuova era». E anche il Primo ministro spagnolo José María Aznar, non certo famoso per le sue posizioni europeiste, si lanciava in metafore che oggi possono apparire piene di significati freudiani: «L’euro è il simbolo della forza della nostra unione. È il seme della leadership alla quale aspiriamo per l’Unione Europea nel mondo».1
Le celebrazioni delle «magnifiche sorti e progressive» dell’euro continuarono fino al decimo anniversario della nascita della moneta comune, celebrato nel giugno 2008. In quell’occasione Jean-Claude Trichet proclamava con sicumera che «l’euro è stato un successo straordinario». E, riecheggiando le frasi di Aznar, aggiungeva: «La moneta comune è la caratteristica più avanzata dell’Unione Europea e, per molti aspetti, il suo emblema».2
Come queste dichiarazioni illustrano, fin dall’inizio l’euro non è stato presentato come un’oculata scelta economica, bensì come un passo fondamentale nel cammino inesorabile verso un’Unione Europea vista come il «sommo tentativo di salvare il nostro continente e preservare il mondo dal suicidio».3
Quando una decisione prettamente economica viene presentata in termini prevalentemente ideologici, i rischi sono elevati. Più che la precondizione per una maggiore integrazione politica, l’euro ne era una conseguenza. Ma per comprendere le origini della retorica sull’euro è necessario fare alcuni passi indietro. Dobbiamo capire come dalle ceneri della Seconda guerra mondiale nacque l’idea di Europa e come questa idea mutò nel tempo. Partorita per motivi contingenti – rassicurare la Francia dal pericolo tedesco –, l’Europa diventa l’ideologia dominante di una ristretta élite che – invece di convincere il resto della popolazione della bontà della sua causa – si arroga il diritto di imporla, se non con la forza, almeno con l’astuzia.

Dall’incubo tedesco al sogno europeo

L’agiografia ufficiale vuole che l’idea di Europa nasca dal sogno di pace di due politici francesi: Robert Schuman, ministro degli Esteri dal 1948 al 1953, e Jean Monnet, banchiere ed ex segretario generale aggiunto della Società delle nazioni. Dopo due guerre mondiali, con più di ottanta milioni di morti, dopo un livello di barbarie inconcepibile per nazioni che si definivano civili, era nato il desiderio di eradicare per sempre la guerra dall’Europa. Questo sentimento è riflesso nel discorso tenuto da Robert Schuman a Strasburgo nel 1949: «Stiamo conducendo un meraviglioso esperimento, la realizzazione del sogno ricorrente che per dieci secoli si è riproposto ai popoli d’Europa: creare tra loro un’organizzazione per porre fine alla guerra e garantire una pace perenne».4
È più ragionevole pensare che l’europeismo francese nascesse innanzitutto dalla necessità di proteggere l’interesse nazionale minacciato dalla Germania. Come il generale de Gaulle, Primo ministro francese dal 1944 al 1946, spiegò al presidente americano Truman: «Considera questo: che siamo vicini della Germania, che siamo stati invasi tre volte dalla Germania nello spazio di una vita e concluderai che non ne vogliamo più sapere del Reich».5
Ispirata da questo incubo, la strategia diplomatica francese del dopoguerra si muove inizialmente su tre direttive. La prima è quella di impedire una centralizzazione del potere all’interno della Germania e il conseguente, nella visione francese, rafforzamento della nazione tedesca.6 La seconda si basa sull’equidistanza tra gli alleati anglosassoni (America e Gran Bretagna) e l’Unione Sovietica. La presenza, almeno iniziale, del Partito comunista al governo francese favoriva questo ruolo.7 Il terzo elemento fondamentale consisteva nel rafforzare economicamente e militarmente la Francia, indebolendo contemporaneamente la Germania. In particolar modo, la Francia voleva impedire alla Germania di recuperare le industrie e le risorse minerarie della Renania-Westfalia, viste come un pericoloso potenziale bellico. Nelle parole dell’allora ministro degli Esteri Georges Bidault: «La separazione finale di questa regione, Ruhr inclusa, dalla Germania è indispensabile sia per proteggere il confine francese sia come condizione essenziale per la sicurezza dell’Europa e del mondo».8
È in questo contesto che nasce il primo Piano Monnet, un programma quinquennale di ricostruzione industriale che prevede di fare della Francia il principale produttore di acciaio in Europa. Parte integrante di questo piano è il controllo economico francese delle principali zone minerarie tedesche: ovvero la Saar e la Ruhr. A questo scopo, nel 1947 la Saar è trasformata in un protettorato francese e ritornerà sotto l’amministrazione tedesca solo nel 1957.9
Questa strategia, però, si scontra con il radicalizzarsi della Guerra fredda e la necessità, sentita dagli Stati Uniti, di rafforzare la Germania in funzione antisovietica. Sotto pressione dell’alleato americano, la diplomazia francese sul finire degli anni Quaranta elabora una nuova strategia rispetto alla Germania, che può essere sintetizzata nel detto di ispirazione machiavelliana: «Se non puoi batterli, unisciti a loro». Di fronte alla totale opposizione americana ai piani francesi, Monnet stesso, che aveva ottime entrature in America, decise di trasformare il suo piano egemonico in un piano di cooperazione.
Da qui nacque la proposta, fatta il 9 maggio 1950 dal ministro degli Esteri Robert Schuman, del famoso Piano Schuman, che prevedeva la creazione di una singola autorità (aperta anche ad altri Paesi occidentali) per controllare la produzione del carbone e dell’acciaio in Francia e Germania. Secondo alcune fonti, lo stesso autore avrebbe ammesso che il suo piano non sarebbe stato altro che una continuazione del Piano Monnet, progettato allo scopo di sostenere la produzione di acciaio e carbone francese.10 La proposta di Schuman fu accettata subito dalla Germania, che la vedeva come l’unico modo per riacquistare sovranità sui propri territori. L’Italia e il Benelux (Belgio, Olanda e Lussemburgo) seguirono a ruota. Il 18 aprile 1951, con il Trattato di Parigi, fu creata la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), nucleo originario della Comunità economica europea prima e dell’Unione Europea dopo. Ma gli stessi francesi ne boicottarono ogni ulteriore sviluppo. Nel 1952 fu firmato tra i sei Paesi fondatori della Ceca il trattato istitutivo della Comunità europea di difesa (Ced), che prevedeva una difesa comune e una comunità politica europea con un budget comunitario, ma non venne mai ratificato dal Parlamento francese.11
Il fatto che l’Unione Europea non abbia quelle nobili origini che oggi tutti vogliono attribuirle nulla toglie al fatto che sia stata un’idea geniale, che contribuì allo sviluppo dell’Europa. Senza capire le origini dell’iniziativa, però, è difficile comprenderne gli ulteriori sviluppi. Nonostante il ruolo fondamentale giocato da francesi come Monnet e Schuman prima e Jacques Delors poi, la Francia rimane ancora oggi ambivalente di fronte al progetto di integrazione europea: utilissimo in funzione antitedesca, ma lesivo degli interessi nazionali quando richiede la condivisione di potere politico. Due idee del Piano Schuman si dimostrarono durature nel lungo periodo. La prima, desunta dallo Spirito delle leggi di Montesquieu, è che le relazioni commerciali possano favorire una pace duratura. La validità di quest’idea è stata confermata da un recente studio empirico: l’aumento dell’interscambio tra due Paesi riduce il rischio di una guerra tra loro.12 La seconda idea fu quella di coinvolgere anche altre nazioni nell’accordo. In cambio del ruolo di garanti del patto d’amore franco-tedesco, l’Italia e il Benelux ricevevano benefici economici e un posto al tavolo delle trattative. Come vedremo tra poco, la natura multilaterale di questo accordo rese più facile promuovere il libero scambio in Europa.

Successi e fallimenti

Dopo la mancata ratifica del progetto di unione politica da parte del Parlamento francese, a rilanciare il progetto europeista fu Konrad Adenauer, ovvero il cancelliere di quello stesso Paese che le istituzioni europee avrebbero dovuto imbrigliare. Questo scambio delle parti si ripeterà con la nascita dell’euro: la moneta unica promossa dalla Francia per ridurre lo strapotere della Germania si trasformerà in uno strumento del dominio tedesco.
Adenauer, però, diede un indirizzo nuovo al progetto europeo. Il modello di Monnet era rappresentato dalla Ceca, un’entità sovranazionale che controllava un’industria considerata strategica. Era il modello colbertiano portato a livello paneuropeo. Il governo tedesco, invece, era più favorevole al libero scambio, anche perché – data l’efficienza dell’industria tedesca – dal libero scambio aveva tutto da guadagnare. Ciò nonostante, Adenauer non scelse di creare un’area di libero scambio, bensì un’unione doganale. La differenza sta nelle tariffe verso i Paesi terzi, che sono presenti nell’unione doganale ma non in una zona di libero scambio. Sembra un dettaglio, ma la Francia non avrebbe mai accettato di entrare in una zona di libero scambio con la Germania e il resto d’Europa, dato il suo enorme interesse a proteggere il settore agricolo nazionale, mentre l’Inghilterra sì. Adenauer scelse l’unione doganale proprio per coinvolgere la Francia, riducendo il rischio di future tensioni tra i due Paesi.13 Il risultato di questa scelta fu il Mercato europeo comune, ma anche una politica agricola terribilmente protezionista.
Dal punto di vista dello scambio commerciale, l’unione doganale può essere considerata un successo. Tra il 1960 e il 2000 il commercio tra Paesi dell’Ue crebbe del 7% l’anno, di gran lunga più della crescita del Pil.14 L’effetto di un’unione doganale, però, non è solo quello di creare maggiore scambio, ma anche di distorcere lo scambio esistente a favore dei Paesi dell’unione, spesso con inefficienze economiche.15 Prima di entrare nel mercato comune, l’Inghilterra importava la carne di agnello dalla Nuova Zelanda. Dopo l’entrata nel mercato comune, le tariffe sui prodotti agricoli extracomunitari la costrinsero a importare carne d’agnello dalla Francia. Nel breve periodo questa distorsione è costosa per l’Inghilterra (che deve pagare di più per la sua carne d’agnello) e vantaggiosa per la Francia (che esporta più carne d’agnello). Ma nel lungo periodo rischia di avere effetti negativi su entrambe. In un’economia di mercato, i prezzi servono a indirizzare le risorse disponibili verso gli usi più efficienti. Dal punto di vista dell’economia globale, non è efficiente per la Francia produrre carne d’agnello quando questa può essere prodotta a prezzi più bassi in Nuova Zelanda. L’unione doganale non fa altro che ritardare il momento in cui i produttori di carne d’agnello francesi sono costretti a riorganizzarsi o a chiudere.
Questo fenomeno, conosciuto nella letteratura economica come trade diversion, è analogo a ciò che accade nelle famiglie numerose. Crescendo, i figli tendono a specializzarsi sulla base del vantaggio che hanno rispetto ai propri fratelli. Questa scelta, però, non è necessariamente la migliore per il loro futuro, perché si basa sul confronto all’interno della famiglia, senza considerare il vantaggio relativo rispetto al resto del mondo. Per esempio, la figlia di un mio collega ha scoperto solo a venticinque anni di essere estremamente dotata per la matematica. In famiglia il fratello maggiore, ancora più dotato, la eclissava sempre e quindi lei si era specializzata in materie letterarie! L’Italia è un po’ come la figlia del mio collega. Tra i Paesi dell’Europa a sei o a nove aveva, e ha, un vantaggio comparato nei settori a bassa tecnologia (tessile, calzaturiero ecc.). Nel mondo, però, questo vantaggio sparisce. Fino all’entrata dei Paesi dell’Europa dell’Est, il Mercato comune europeo prima e l’Unione Europea dopo hanno indotto l’Italia a specializzarsi nei settori «sbagliati» (a bassa tecnologia), invece che favorire la transizione verso i settori più avanzati, tipici di un Paese sviluppato.16
Se dal punto di vista economico il processo di integrazione europea ha luci e ombre, dal punto di vista politico può essere considerato un enorme successo. Che esso ne sia o meno la causa ultima, dobbiamo riconoscere che tra le nazioni appartenenti all’Unione non ci sono state guerre dal 1945 a oggi: il periodo di pace più lungo che la storia d’Europa abbia conosciuto in età moderna.17
Non solo l’Ue ha evitato conflitti, ma ha anche rappresentato un faro di civiltà e democrazia a cui si rivolgevano le nazioni che aspiravano a liberarsi dalla dittatura militare o dal giogo del comunismo. È difficile quantificare il beneficio che l’Unione Europea ha apportato a Paesi come la Grecia, la Spagna e il Portogallo prima e i Paesi dell’Europa dell’Est poi.
Ricordo di essere stato in Turchia nel 2002, quando quel Paese sperava ancora di poter entrare a breve nell’Unione Europea. Per qualificarsi come un Paese democratico che rispettava i diritti civili, il governo stava allentando la repressione contro la minoranza curda, permettendole anche una rappresentanza politica. Come per la Turchia, così per molti altri Paesi la «carota» dell’accesso all’Unione è stata un forte incentivo per le riforme e la modernizzazione del Paese. Il problema maggiore è che, con l’ammissione a pieno titolo, questo impeto si esaurisce.
Sebbene la politica commerciale europea, particolarmente nel campo dell’agricoltura, sia stata tutt’altro che ideale, l’Unione ha anche rappresentato un baluardo contro le tensioni protezionistiche nei singoli Paesi. Anche se la rimozione delle barriere al commercio è nell’interesse di tutti, all’interno di ogni singolo Stato alcuni gruppi di pressione riescono a essere particolarmente forti. Se fosse stato possibile per l’Italia, per esempio, imporre le tariffe sulle importazioni di auto, i politici italiani, sotto pressione della Fiat, avrebbero probabilmente ceduto. Ma questa decisione unilaterale non era possibile senza rinnegare l’intera struttura del mercato comune. In questo senso l’Unione Europea è stata un meccanismo istituzionale utilissimo per evitare pressioni protezionistiche.18
Questo ruolo è stato particolarmente importante negli anni Settanta. Come vedremo, gli anni Settanta segnarono la fine del regime di cambi fissi e aprirono la possibilità di quelle svalutazioni competitive che avevano devastato il continente negli anni Trenta, con le conseguenti tensioni protezionistiche. Non solo in quegli anni il Mercato comune resse, ma cominciò anche ad ampliarsi ai Paesi dell’Europa del Nord (Regno Unito, Irlanda e Danimarca) e poi dell’Europa del Sud (Grecia, Spagna e Portogallo).
Esaurita la capacità di espandersi (almeno fino al crollo del Muro di Berlino), l’agenda europea poteva muoversi solo nella direzione di una maggiore integrazione. A rilanciare questo processo contribuì un altro francese, Jacques Delors (presidente della Commissione europea tra il 1985 e il 1994) e un’altra crisi franco-tedesca. Sebbene gli sforzi di Delors per creare una moneta comune fossero già iniziati nel 1983, l’evento catalizzatore fu il crollo del Muro di Berlino nel 1989 e la successiva spinta a riunificare la Germania dell’Est con quella dell’Ovest. Una riunificazione avrebbe alterato non solo la forza economica relativa di Francia e Germania, ma anche il loro peso politico dentro e fuori la Comunità Europea.
Questa possibilità allarmò enormemente il presidente francese Mitterrand, che avrebbe potuto provare a bloccare il processo di riunificazione tedesca. Ma, come nell’immediato dopoguerra, il consenso americano alla riunificazione minava la probabilità di successo di una opposizione francese. Pertanto Mitterrand decise di scambiare la sua non opposizione con una concessione del cancelliere Kohl: l’assenso tedesco a un processo di unificazione monetaria europea.19 La Germania aveva sempre rifiutato l’idea di condividere la propria moneta, per paura che le altre nazioni min...

Indice dei contenuti

  1. Europa o no
  2. Copyright
  3. Prefazione
  4. 1. La realizzazione di un sogno
  5. 2. A cosa serve una moneta unica
  6. 3. Un neonato prematuro e malaticcio
  7. 4. Costi e benefici dell’euro
  8. 5. Liberarsi della croce dell’euro?
  9. 6. A mali estremi
  10. 7. Io speriamo che me la cavo
  11. 8. Una visione alternativa d’Europa
  12. Ringraziamenti
  13. Note
  14. Indice