È l'amore che apre gli occhi (VINTAGE)
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È l'amore che apre gli occhi (VINTAGE)

  1. 416 pagine
  2. Italian
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È l'amore che apre gli occhi (VINTAGE)

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Informazioni sul libro

Aprirsi agli altri, mettersi al servizio del prossimo: è il messaggio che fin dal giorno dell'elezione ha caratterizzato Papa Francesco. Questo volume contiene il nucleo centrale del suo apostolato, che riflette sul grande tema dell'educazione, apre il messaggio della Chiesa al confronto con il mondo della cultura e della comunicazione, medita sulle principali celebrazioni religiose e offre un modello per proclamare la rivoluzione dell'incontro con Dio.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2014
ISBN
9788858672228
Categoria
Religion

III

Celebrare la festa dell’incontro con Dio

«Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia,
che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città
di Davide, è nato per voi un Salvatore»
Lc 2,10-11

«Dio con noi»

È fonte di immensa gioia ascoltare tutti insieme, in silenzio, la pagina del Vangelo che ci racconta come Dio divenne «Dio con noi» (Mt 1,23), ovvero come fu accolto da Maria e Giuseppe. Traboccanti di giubilo, celebriamo la Santissima Trinità, che con grande umiltà si rispecchia nella Sacra Famiglia: lo Spirito Santo da un lato realizza l’incarnazione nel cuore di Maria, emblema della pura dedizione nei confronti di Dio; dall’altro, il Padre, rappresentato dall’angelo del Signore che appare in sogno, scioglie tutti i dubbi di Giuseppe, la cui reazione è prova di un’incrollabile obbedienza. E tutti insieme rivolgono il proprio cuore a Gesù Bambino, il Figlio prediletto del Padre, l’unto dallo Spirito Santo, l’atteso dalle nazioni. Colui che è venuto a salvare il proprio popolo dai peccati, che ogni giorno si offre a noi nell’Eucaristia, Colui in cui crediamo e di cui attendiamo il ritorno.
Il giubileo è il compleanno di Gesù. Con ogni probabilità i primi Natali sono stati feste semplici, in famiglia, celebrati da Giuseppe e Maria da soli, in esilio: all’epoca, apparentemente, il «Dio con noi» era tutto per loro due. Tuttavia, ascoltando con attenzione il Magnificat, comprendiamo che Maria ha sempre amato Gesù con il cuore del popolo, della Chiesa. Ed è per questo che, dopo la risurrezione del Signore, poco a poco il Natale ha cominciato a configurarsi come la festa di tutti i fedeli di Dio.
Sono trascorsi duemila Natali dal giorno della nascita di Gesù. Settecento anni prima di Cristo il profeta Isaia aveva annunciato che sarebbe nato un bambino e si sarebbe chiamato Emmanuele, «Dio con noi». Un Dio che, da sempre, vuole essere un Dio con tutti.
Nonostante siano passati duemila anni, noi, il suo popolo, non l’abbiamo mai deluso. Egli continua ad affidarsi fiducioso alle nostre mani nel gesto di abbandono dell’Eucaristia. Nel suo silenzio dal sapore di pane, è come se ripetesse senza sosta: «Io sono il Dio con voi».
«Dio con noi» è un bellissimo appellativo di Dio, una sorta di cognome. Il suo nome proprio è Gesù, o Padre, o Spirito Santo, ma il suo cognome è «Dio con noi».
Per parlare di Lui dobbiamo dire «noi». Soltanto se lo accogliamo a cuore aperto, come fecero Maria e Giuseppe, diventa possibile una cultura dell’incontro dalla quale nessuno è escluso, in cui siamo tutti fratelli. Infatti, è proprio nella vicinanza che nasce Gesù, lì ha origine l’amore, che ha le sue radici nella memoria di una grazia condivisa: «È nato per voi un Salvatore […]. Troverete un bambino avvolto in fasce» (Lc 2,11-12). L’amore si nutre della speranza comune di costruire una città santa che accoglierà tutti, il cui simbolo più profondo è il pane condiviso.
Nel ricevere l’Eucaristia, dunque, vi invito a prestare attenzione a chi ci sta accanto e ad assaporare la presenza degli altri; a lodare san Giuseppe e la Vergine Maria, a rinnovare la speranza di Isaia e dei profeti, di nostro padre Abramo e dei patriarchi; ad accogliere l’affetto dei santi, uomini e donne che sono vissuti nella sua amicizia attraverso i secoli; ad avvicinarci ai più poveri, a prendere per mano i nostri bambini, ad accarezzare i nostri anziani, mentre ripetiamo: «Dio con noi».
Uniti nel ricordo e nella speranza di Betlemme, la casa del pane di vita che duemila anni fa ci venne rivelata dal Padre, e nella memoria del pane che il Signore ci dona ogni giorno e di quello che Gesù spezzerà per noi nel banchetto celeste, tutti insieme, come fratelli, professiamo la nostra fede nel Dio con noi: «Credo in Dio Padre Onnipotente…».

Una luce che è la speranza del popolo di Dio

«Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce» (Is 9,1). La profezia di Isaia annuncia l’arrivo di un’immensa luce che squarcia il buio: è quella della speranza del popolo di Dio, che dà fondamento alla sua fede e alla sua dedizione nei confronti del Signore. Essa nasce a Betlemme e viene accolta dalle mani amorevoli di Maria, dall’affetto di Giuseppe, dallo stupore dei pastori. E i genitori del Bambino assumono su di sé la speranza di un intero popolo. Maria lo fece quando l’angelo le disse: «Nulla è impossibile a Dio» (Lc 1,37), e lei, sola e confusa, credette. Allo stesso modo reagì Giuseppe nel momento in cui, pur avendo scorto i segni della maternità e avendo deciso di mantenerla segreta, udì la voce dell’angelo e decise di credere, sebbene il suo cuore non comprendesse. Entrambi se ne fecero carico quella triste notte in cui tutte le porte si chiudevano davanti a loro: la speranza era rappresentata dal bambino e loro se ne presero cura in condizioni estremamente avverse. Lo stesso avvenne quando presentarono Gesù al tempio e riconobbero negli anziani la saggezza di un intero popolo, o quando obbedirono all’ordine dell’angelo del Signore che apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: «Àlzati, prendi con te il bambino e sua madre, fuggi in Egitto […]: Erode infatti vuole cercare il bambino per ucciderlo» (Mt 2,13). O, ancora, nei tre giorni di angoscia durante i quali il figlio, appena dodicenne, rimase nel tempio a loro insaputa, e, molti anni dopo, Maria lo fece di nuovo nell’ora buia del calvario.
Oggi ci viene chiesto, davanti al Bambino che è la luce capace di rischiarare le tenebre, di farci carico, come Maria e Giuseppe, della speranza, forti della certezza che per Dio niente è impossibile, anche di fronte alla desolazione, alla distruzione, al rifiuto. Dobbiamo prenderci cura dei nostri anziani, che sono la speranza di un popolo perché possiedono la saggezza, nonché dei nostri bambini, ai quali la civiltà del consenso e del livellamento verso il basso non consente di sviluppare una fede autentica. Farci carico della speranza significa camminare al fianco di Gesù sulla via della croce, quando la vita appare più complicata e confusa. Il futuro di noi argentini è molto incerto, perciò è confortante, guardando il Bambino, Maria e Giuseppe, sentire una voce che ci invita ad alzarci, prendere il Bambino e sua madre e percorrere la strada della speranza. Gesù stesso è la speranza: dobbiamo averne cura. Facciamolo lavorando, pregando, lottando, non incrociando mai le braccia, accostandoci alle persone di fronte alle quali vengono chiuse le porte per aprirne loro delle altre, sostenendo i nostri anziani sofferenti e assimilando la loro saggezza, crescendo i nostri bambini.
Nella fitta oscurità che opprime i nostri animi, sorge una luce. E non è una luce qualsiasi: è Gesù Cristo. Egli è l’unico a donarci la speranza che non delude mai. Ora, insieme a voi, desidero rivolgergli la preghiera che uno dei grandi poeti argentini, José María Castiñeira de Dios, scrisse in una triste notte di Natale:
Signore, che non mi hai mai negato niente,
non ti chiedo nulla per me; solo ti prego
per ciascun fratello addolorato,
per ciascun povero della mia terra amata.
Ti prego per il suo pane e il suo salario,
per il suo dolore di uccello vinto,
per la sua risata, il suo canto e la sua allegria,
oggi che la casa è rimasta silenziosa.
Ti chiedo, prostrato in preghiera,
una briciola delle tue meraviglie,
un tozzo di amore per le sue mani,
una gioia, solo una porta aperta;
oggi che la tavola è rimasta deserta
e piangono, di notte, i miei fratelli.
Così sia.

«Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce»

«Il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce» (Is 9,1): l’annuncio profetico determina un nuovo inizio, un’inedita direzione per la nostra vita e per la storia intera che ci mantiene saldi «nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (Tt 2,13). Buio e luce, cammino e speranza, segno e manifestazione. È la profezia della scelta, della promessa e dell’alleanza. È il cammino che dalle tenebre del crepuscolo del paradiso terrestre conduce alla notte in cui «la gloria del Signore avvolse [i pastori] di luce» (Lc 2,9).
Anche noi, pellegrini in cammino, ci avviciniamo all’altare di Dio avvolti dalle tenebre, ma animati dalla profonda speranza di trovare la luce. Ci dirigiamo là dove la gloria si nasconde in una mangiatoia e si manifesta ai semplici di cuore che ascoltano attoniti il canto celestiale: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama» (ivi, 14), e che credono, con la fede salda di chi non svende la propria coscienza, che sia nato «un Salvatore, […] un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (ivi, 11). In questa notte santa, aprendo il nostro cuore, abbiamo anche noi la possibilità di contemplare il miracolo della luce che squarcia le tenebre dell’uomo, il miracolo della forza di Dio nella fragilità, della somma grandezza nella piccolezza.
Camminiamo «di fede in fede» alla ricerca della pienezza e del senso della nostra vita, e questo percorso diventa autentico soltanto quando non rimane intrappolato nel chiacchiericcio alienante di chi ci propone soluzioni fittizie o momentanee. Siamo parte del popolo di Dio che, giorno dopo giorno, vuole compiere un passo per uscire dalle tenebre. Tutti aneliamo a incontrare la luce, la gloria nascosta, in quanto lo stesso Dio che ci ha creati ha instillato questo desiderio nel nostro cuore. Tuttavia esso a volte si indurisce, diventa capriccioso o, peggio ancora, si gonfia di sorda superbia, e a quel punto la brama di vedere la gloria della luce rimane soffocata e la vita rischia di trascorrere senza senso, di prosciugarsi nelle tenebre. Si ripete così l’amara circostanza in cui Dio viene rifiutato, come successe la notte di Natale, quando Maria «lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,7).
Questo è il dramma dell’anima che diventa impaziente nell’attesa e si lascia tentare dalle false promesse di luce del demonio, che Gesù chiama «padre della menzogna» (Gv 8,44) e «principe delle tenebre». A quel punto viene meno la speranza nella promessa, la fermezza nell’alleanza con un Dio che non mente mai «perché non può rinnegare se stesso» (2Tm 2,13). Si perde la gioia di sentirsi persuasi dalla tenerezza del Padre e, oggi come un tempo, nel mondo, nelle nostre città e nei nostri cuori, chiudiamo le porte a Gesù. È più facile divertirsi con le luci di un alberello che abbandonarsi alla contemplazione della gloria del presepe. Questa sorta di anticammino si esplicita in diversi modi, dalla completa indifferenza fino all’assassinio degli innocenti: non c’è grande distinzione, infatti, tra coloro che rifiutarono alloggio a Giuseppe e Maria perché erano poveri forestieri ed Erode, che uccide il corpo dei bambini perché la paura ha ucciso il suo cuore, come spiega san Quodvultdeus nel suo Sermone n. 2 sul Simbolo. Non esistono mezzi termini: luce o tenebre, superbia o umiltà, verità o menzogna. Aprire la porta a Gesù che viene a salvarci oppure trincerarci nell’orgoglio dell’autoassoluzione.
Cari fratelli, in questa notte santa vi esorto a contemplare il presepe: lì «il popolo che camminava nelle tenebre ha visto una grande luce» (Is 9,1). La vide la gente semplice, disposta ad accogliere il dono di Dio. Al contrario, non la videro gli arroganti, i superbi, coloro che stabiliscono le leggi secondo i propri criteri personali, quelli che assumono atteggiamenti di chiusura. Osserviamo il presepe e preghiamo per noi, per il nostro popolo sofferente, chiedendo a nostra Madre: «Maria, mostraci Gesù».

Dacci un segno

A volte, nelle Sacre Scritture, Gesù appare stanco e affaticato, in pieno contrasto con le élite illuminate del suo tempo (i farisei, i sadducei), le quali spesso gli chiedevano: «Da te vogliamo vedere un segno» (Mt 12,38). Gesù predicava e la gente lo seguiva come non aveva mai fatto con nessun altro; curava gli ammalati, risuscitava i morti, eppure quelle persone continuavano a chiedergli un segno. Ciò che vedevano con i loro occhi non era sufficiente. Forse questo atteggiamento era esclusivamente dovuto al fatto che le loro coscienze erano offuscate da un elitismo illuminato. Tuttavia, c’era dell’altro: nemmeno l’uomo più sordo alla voce di Dio, infatti, perde la volontà di cercarlo, di desiderare la sua presenza. Quegli uomini intuivano che donare la vita ai morti e guarire gli ammalati non fosse «il segno», dal momento che era stato Gesù stesso ad annunciare che avrebbe dato loro il segno di Giona, ovvero la risurrezione. Essi dunque esigevano la prova trascendente e inconfondibile attraverso la quale Dio si manifesta in tutta la sua pienezza, e lo stesso chiedevano anche i suoi nemici, persino Erode. L’istinto del cuore che spinge l’uomo a cercare Dio li spaventava e allo stesso tempo li spronava.
Anche i santi avevano bisogno di un segno. In carcere, san Giovanni Battista, sofferente, aveva sentito parlare della predicazione di Cristo, tuttavia era confuso. Nella solitudine della cella cadde preda dei dubbi e mandò i discepoli a domandare a Gesù: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). Egli chiedeva il «grande segno», quello della manifestazione di Dio, che era stato proclamato dai profeti e che il popolo di Israele attendeva da centinaia di anni.
Quando gli angeli annunciarono ai pastori la nascita del Redentore, lo fecero con queste parole: «Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (Lc 2,12). Il segnale, dunque, è l’umiltà di Dio portata all’estremo, l’amore con cui, quella notte, Egli ha guardato la nostra fragilità, la nostra sofferenza, le nostre angosce, i nostri desideri e i nostri limiti. Il messaggio che aspettavano tutte le persone disorientate, e persino i suoi nemici, quello che tutti cercavano nel profondo della propria anima, non era altro che la tenerezza di Dio. Dio che ci osserva con occhi colmi di affetto, che accarezza la nostra miseria, Dio innamorato della nostra piccolezza.
Oggi ci viene annunciata la dolcezza del Signore. Il mondo va avanti, noi uomini continuiamo a cercarlo, ma il segno rimane sempre lo stesso. Contemplando il Bambino nato in una mangiatoia, vi invito a una riflessione. Come accogliete la tenerezza di Dio? Vi lasciate avvolgere oppure gli impedite di avvicinarsi? Non è vero, io cerco Dio, potreste ribattere. Tuttavia, la cosa più importante non è cercarlo, bensì lasciare che sia Lui a trovarvi e ad accarezzarvi con amorevolezza. Questa è la prima domanda che il Bambino ci pone con la sua sola presenza: permettiamo a Dio di volerci bene?
E ancora: abbiamo il coraggio di accogliere con tenerezza le situazioni difficili e i problemi di chi ci sta accanto, oppure preferiamo le soluzioni impersonali, efficienti e tutt’altro che evangelizzatrici? Non dobbiamo avere paura della dolcezza che Dio dimostra nei nostri confronti.
Infine: attraverso il nostro comportamento siamo in grado di esprimere l’amore che deve accompagnarci nel corso della vita, sia nei momenti di gioia sia in quelli di tristezza e difficoltà?
La risposta del cristiano non può essere diversa da quella che Dio dà alla nostra piccolezza. La vita va affrontata con dolcezza, con mansuetudine. Torniamo con la mente all’episodio raccontato nel Vangelo di Luca in cui Gesù e i suoi apostoli non furono accolti in un villaggio della Samaria e Giacomo e Giovanni proposero a Gesù: «Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?» (Lc 9,54). Alle parole bellicose dei suoi discepoli, Gesù «si voltò e li rimproverò» (ivi, 55). Insomma li sgrida; oggi farebbe notare loro che non è una reazione degna di un buon cristiano. Ripensiamo inoltre alla notte in cui arrestarono Gesù e Pietro sfoderò la spada, ergendosi a difensore della Chiesa nascente (un difensore inopportuno, peraltro, dal momento che poche ore dopo lo avrebbe rinnegato), e Gesù gli intimò: «Rimetti la tua spada al suo posto […]. O credi che io non possa pregare il Padre mio, che metterebbe subito a mia disposizione più di dodici legioni di angeli?» (Mt 26,52-53). Con queste parole, Gesù intendeva far capire a Pietro che l’atteggiamento giusto non è la violenza, bensì la tenerezza, che deve essere conservata anche nei momenti più difficili: se qualcuno vi dà uno schiaffo, porgete l’altra guancia. Questo è il messaggio implicito della notte di Natale. Quando ci rendiamo conto che Dio si innamora della nostra piccolezza, che si fa Egli stesso dolcezza per accarezzarci meglio, che è l’emblema della mansuetudine, della vicinanza, non possiamo fare a meno di aprirgli il nostro cuore e supplicarlo: «Signore, aiutaci a essere come te, donaci la grazia della tenerezza nelle circostanze più dure della vita, della “prossimità” di fronte a ogni necessità umana, della mitezza in qualsiasi conflitto». Chiediamoglielo: questa è la notte giusta per farlo. Desidero affidarvi un compito da svolgere a casa, questa sera o domani mattina: non lasciate che il giorno di Natale si concluda senza prendervi un momento di pausa e, in silenzio, fate un breve esame di coscienza: Dio è tenero nei miei confronti? Io lo sono nei confronti degli altri? Come mi comporto nelle situazioni difficili? Mantengo un atteggiamento mite sul luogo di lavoro e quando vengo coinvolto nelle dispute? Pregate affinché Gesù vi risponda, ed Egli lo farà.
Che la Vergine vi conceda questa grazia.

Nacque e fu annunciato di notte

Nacque e fu annunciato di notte ad «alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano […] facendo la guardia al loro gregge» (Lc 2,8), si mise in marcia con «il popolo che camminava nelle tenebre» (Is 9,1), con «coloro che abitavano in terra tenebrosa» (id.). E «una luce rifulse» (id.); una luce che squarciò il fitto buio e avviluppò ogni cosa: «E la gloria del Signore li avvolse di luce» (Lc 2,9). Così la liturgia di questo Santo Natale 2005 ci presenta la nascita del Salvatore come luce che penetra e annienta la più densa oscurità. La presenza del Signore in mezzo al suo popolo cancella il peso della sconfitta e la tristezza della schiavitù, e instaura la letizia. «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,10-11). «È nato per voi»: per tutto il popolo, per tutta l’umanità in cammino, e per ciascuno di noi. Non si tratta di un semplice articolo di cronaca su un quotidiano, bensì di un annuncio che tocca il nucleo stesso della storia e dà luogo a un nuovo modo di camminare, di comprendere, di esistere: farlo insieme a «Dio con noi».
Sono trascorsi molti secoli da quando il mondo è stato avvolto nelle tenebre. Ripensiamo alla notte in cui fu commesso il primo crimine dell’umanità, quando il coltello di Caino strappò la vita a suo fratello Abele (cfr. Gen 4,8). Lunghi secoli dilaniati da assassinii, guerre, schiavitù, odio. Ma Dio, che aveva riposto le proprie attese nella carne dell’uomo fatto a sua immagine e somiglianza, aspettava. Egli ha atteso talmente a lungo che forse a un certo punto avrebbe dovuto rinunciare. Invece non poteva, essendo «schiavo», per così dire, della propria fedeltà: non poteva rinnegare se stesso (cfr. 2Tm 2,13...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Nota dell’Editore
  5. I. LA SFIDA DELL’EDUCARE
  6. II. IL MESSAGGIO CRISTIANO E IL MONDO
  7. III. CELEBRARE LA FESTA DELL’INCONTRO CON DIO
  8. IV. UNA FEDE IN CAMMINO
  9. Nota al testo