Yogasutra
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Yogasutra

  1. 108 pagine
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Yogasutra

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Informazioni sul libro

Opera fondamentale della filosofia indiana, gli aforismi sintetici e suggestivi noti con il nome di Yogasutra sono una vera e propria guida all'autocoscienza, un vademecum imprescindibile per comprendere gli stati che la mente attraversa durante la meditazione, lo Yoga e altre pratiche spirituali. Grazie alla traduzione e al commento esperto di Leonardo Vittorio Arena, il lettore viene così condotto alla scoperta dei meccanismi alla base del funzionamento della mente, percorso imprescindibile sulla via che conduce alla liberazione.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
ISBN
9788858671214

YOGASUTRA

Capitolo 1

Il sentiero dell’unione

E adesso, espongo l’insegnamento dello Yoga (1.1).
L’incipit tradizionale di molti sutra brahmanici, che denuncia la natura orale della trasmissione da maestro a discepolo. Questo metodo è detto Yoga, perché, come il termine sanscrito indica, implica una consapevolezza speciale nel praticante, una congiunzione speciale delle sue facoltà psicofisiche.
Lo Yoga è lo spegnimento dell’attività mentale, del turbinìo della coscienza (1.2).
In questo sutra si condensa tutta l’opera. La mente, come una scimmia, balza da un albero all’altro, da una liana all’altra. Occorre arrestarne il continuo avvicendarsi dei pensieri che le impediscono di prendere atto della concretezza della realtà. Uno stato di coscienza che è definito in negativo.
In tal caso, il percipiente può assumere la sua vera essenza (1.3).
La nostra natura è oscurata dal nemico interno, che è la nostra stessa mente o coscienza. Una volta rimossi gli ostacoli, comprenderemo qual è il nostro posto nel mondo, la nostra identità. Vedremo diversamente le cose, attraverso un nuovo uso dei sensi.
In caso contrario, si sarà succubi dell’attività mentale (1.4).
Non ci sono altri ostacoli. L’adozione di un’altra mentalità dischiude le porte della percezione. Ma non si può realizzare con un atto di volontà, sforzandosi di essere diversi. Credere che l’attività mentale possa sopprimere l’attività mentale è un errore. Ma la via alla liberazione non è sbarrata, malgrado queste indicazioni.
Ci sono cinque tipi di attività, nocive e benigne (1.5).
Inizia la descrizione delle attività, con i loro effetti. Nel mondo indiano si formulano analisi dettagliate della conoscenza, una vera fenomenologia della percezione. Il mistico, supposto che il termine si adatti allo Yoga, non è distaccato dal mondo, ma ne comprende ogni aspetto in profondità.
Esse riguardano gli strumenti della conoscenza, l’illusione percettiva, la rappresentazione mentale, il sonno e il ricordo (1.6).
Una lista che, come altrove, prelude alla spiegazione dei singoli elementi. Il metodo espositivo è analitico, sistematico. Un’altra indicazione del carattere orale dell’opera: il maestro anticipa di cosa parlerà.
Gli strumenti della conoscenza dipendono dalla percezione, dall’inferenza e dalla testimonianza verbale (1.7).
Come facciamo a conoscere le cose? Tre sono le vie: possiamo percepirle, come il fuoco sulla collina; o inferirle da altre: dalla percezione del fumo ricaviamo la presenza (precedente) del fuoco; o basarci sulla testimonianza di persone o scritti attendibili, come i brahmani o i Veda.
L’illusione percettiva è conoscenza erronea e non si fonda sugli strumenti della conoscenza (1.8).
Qualora manchino le prerogative del sutra precedente, e la percezione non sia possibile, per un ambiente inadeguato, e neanche l’inferenza, o ci si affidi a fonti inattendibili, ci si illude di conoscere le cose; in realtà, le scambiamo per altre, e nasce l’errore.
La rappresentazione mentale dipende dalle parole e dalla conoscenza astratta, i suoi oggetti non sono concreti (1.9).
Nella mente possiamo formarci immagini degli oggetti, ma ciò dà luogo all’immaginazione, una conoscenza che non è in contatto con le cose reali, fisiche, accessibili ai sensi o agli altri strumenti di conoscenza. È il regno dell’astrazione, che comporta gravi fraintendimenti.
Il sonno è un’attività che verte sull’inesistente (1.10).
L’oggetto del dormire non è del tutto astratto, ma riguarda oggetti che vengono scambiati per esistenti, e che, al risveglio, non sono più tali. Un demone ci minaccia in sogno, ma poi, dopo il risveglio, perde a poco a poco il suo potere. L’autore fa una distinzione tra l’astratto e il non esistente, due gradi di realtà diversi.
Il ricordo non permette agli oggetti dell’esperienza di essere cancellati (1.11).
Può la mente o la coscienza conservare ogni dato dell’esperienza? C’è un’attività che lo permette, distinta da quella immaginativa od onirica. La mente è come un block notes, cui non sfugge nulla, e le esperienze possono essere recuperate, in speciali condizioni.
Per far cessare l’attività mentale occorrono il distacco e la pratica, il passivo e l’attivo, non attaccamento e metodo (1.12).
È difficile, per una mente occidentale, recepire il messaggio: sono necessarie due attitudini, il fare e il lasciar fare. Adottarne soltanto una sarebbe un pericolo, una parzialità. Ognuna delle due dà spazio all’altra, incorporandola. Come ogni dottrina indiana, lo Yoga fonde teoria e pratica, l’attenzione alla mente e al corpo, senza separare le sfere.
La pratica consiste nell’intenzione di perdurare in una certa attitudine (1.13).
E questa pratica è ben consolidata, se esercitata ininterrottamente, a lungo (1.14).
L’atteggiamento mentale del sutra precedente va coltivato in pianta stabile, senza cedimenti. Si passa dall’uno all’altro polo, senza accorgersene o volerlo. Si allude a un’intenzionalità inconscia. O esercitata in modo continuativo, al punto di divenire abituale e automatica.
Il distacco viene capito allorché lo si padroneggi, e nessun tipo di attaccamento si riscontri riguardo agli oggetti sensoriali, che siano percepiti o appresi (1.15).
Distacco non è una parola vuota: riguarda ogni aspetto della realtà, sperimentato direttamente o conosciuto attraverso lo studio. Solo a queste condizioni si è privi di attaccamento. Comporta una sorta di indifferenza nei confronti delle cose, che possono sfilarci davanti come immagini di un sogno o di un film, senza suscitare desideri. Il mondo come scena teatrale, e il suo testimone, l’io, che assiste allo spettacolo senza catapultarsi sulla scena.
Senza attaccamento, le qualità delle cose saranno accessibili con chiarezza a uno spirito supremo (param purusha) (1.16).
Esiste una forza interiore, lo spirito, che può incaricarsi di fungere da testimone spassionato dello spettacolo del mondo, da cui non è toccato. Alberga in ciascuno di noi, ed è transpersonale, al di là di ogni descrizione verbale.
Dapprima, si realizzano quattro modalità del processo cognitivo: supposizione, riflessione, stato di beatitudine e senso dell’io (1.17).
Prima del non attaccamento, la mente si perde in quattro stadi. Nel primo, si fanno congetture sulle cose, tutte inadeguate. Nel secondo, si riflette su di esse, e lo spazio delle ipotesi viene meno. Nel terzo si prova uno stato di gioia, non aliena al piacere sensuale. Alcuni pensano che dipenda dalle esperienze gradevoli dei due stati precedenti. Nel quarto, si è formata un’individualità: ciascuno dice io, ritenendosi una realtà separata. Tutto ciò è frutto di un’attività pensante, senza la quale non saremmo vittime dell’illusione.
Infine, resta solo un residuo di questi stadi, in forma di reminiscenze vaghe o impressioni (samskara), appena si divenga consapevoli della loro cessazione (1.18).
Difficile descrivere questa fase, in cui l’attività pensante viene sospesa, però ha depositato qualcosa. Questi ricordi si rianimano grazie alla trasmigrazione o rinascita. Derivano dall’altrove, una vita precedente, non vengono mai cancellati del tutto. Il pianto del neonato viene associato a questi flebili ricordi del dolore di altre esistenze.
Appena si reimmerge nella natura materiale, l’elemento incorporeo si persuade di divenire un altro essere (1.19).
È il contatto con le cose a stimolare la volontà o la convinzione della rinascita. Essa potrebbe essere solo un fenomeno mentale, non per questo meno condizionante. Siamo qualcos’altro, ma c’è continuità con la vita precedente.
In altri casi, se ciò non avvenga, si realizzano la saggezza intuitiva, la consapevolezza dell’unità, quella del qui e ora, il vigore e la fede (1.20).
Sono tutte qualità di chi si è liberato dagli impacci karmici e non soggiace alla reincarnazione. La saggezza, speciale, non riguarda parole e nomi. Si è consapevoli della profonda compattezza e unità di tutte le cose. Si è sempre presenti a se stessi, come nella meditazione del ricordo di sé, ma non dell’io, è molto più di questa, una coscienza somma. Il vigore è definito virile, come energia psicofisica inesauribile. La fede si riferisce all’autoconsapevolezza che l’intero processo possa aver luogo, senza compiacimento.
Per chi si impegni allo stremo, la meta è prossima (1.21).
Non bisogna credere che si descriva un processo semplice, privo di tensioni. Si tratta di volere e non volere nel contempo, in quanto l’intrusione del pensiero, uno scopo, ci farebbe ripiombare nell’io, nella convinzione di rappresentare una realtà separata. Ci si sforzi, ma senza attaccamento.
Essa può essere più o meno prossima, a seconda dell’impegno assunto, se intenso, moderato o tiepido (1.22).
Ci si concentri sulla pratica, indipendentemente dalla meta. Lo sforzo non sarà minore. Anche l’idea che ci sia una meta da raggiungere è un modo di dire. Il maestro deve averlo precisato nella lezione orale, commentando il sutra. I non ammessi all’insegnamento o non uditori, basandosi su questo verso, trarranno conclusioni erronee.
Oppure, tutto ciò si può raggiungere attraverso il completo abbandono o la devozione al Signore (ishvara) (1.23).
Si tratta di un percorso alternativo, più diretto. Il Signore è un essere supremo, colui che può, il dominatore e padrone dell’universo. Non ha attributi creativi, ed è composto di luce, come la sua etimologia suggerisce. Asessuato, è al di là degli opposti; oppure, può essere maschile o femminile, come suggerisce il sanscrito. Riferendosi al Signore, l’opera mostra la sua natura devozionale, permettendo a un impulso popolare, connaturato nell’essere umano, di manifestarsi, con un’adorazione che ricorderà all’occidentale componenti ateistiche.
Il Signore è uno spirito straordinario, ben distinto, non toccato dai residui karmici o frutto delle azioni, dalle maculazioni (1.24).
A differenza delle creature, il Signore non si reincarna: le sue azioni non depositano effetti in questa vita, né nelle successive. Per lui non valgono le abituali descrizioni degli umani. Tutto ciò che è male non lo scalfisce.
Da questo punto di vista, nel Signore si dà il germe di una onniscienza incomparabile (1.25).
La conoscenza umana è limitata, non quella del Signore. È l’indipendenza dalla trasmigrazione, dai risultati delle azioni, a concedere al Signore questo privilegio. L’uomo ha responsabilità morale per tutto ciò che faccia o meno. Le descrizioni del Signore, nella lingua dell’uomo, sono insufficienti, e rischiano di suonare nonsensical. Occorrerebbe una nuova lingua per riferirne.
Anche perché non è legato al tempo, esso può fungere da maestro e mentore degli avi (1.26).
Tutti i grandi maestri dell’antichità, in tutti i tempi, avrebbero venerato il Signore, prendendone spunto. Solo chi permane nell’eterno può adempiere a questa funzione. Anche in Oriente l’essere supremo viene venerato in quanto eterno, o atemporale, di contro al carattere transeunte del mondo materiale.
Esso è connotato dalla sillaba sacra (1.27).
Il suono cui si allude è om, sillaba dotata del prana o energia vitale, e che fa corpo con essa. Ogni meditazione non può prescinderne, la prenda o meno come oggetto della pratica. Om è il suono dell’universo, parcellizzato nei singoli suoni che compongono l’essere umano e ogni creatura. Il legame tra il Signore e la sillaba svela i poteri del primo. Tuttavia, sarebbe improprio definire lo Yoga un sistema teistico: l’Essere trascende o non possiede le facoltà di una deità. Per i suoi devoti, tuttavia, dibattere su questo è irrilevante.
Se ne comprende il senso attraverso la ripetizione (1.28).
Si allude alla pratica della meditazione yogica, dove la sillaba diviene un mantra, il mantra per eccellenza. Scompare il senso umano, attraverso una tecnica monotona che lascia trasparire il suono puro, om. Come se il significato lasciasse spazio al significante, benché anche questa sia un’indicazione, un’approssimazione, che non scalfisce la natura di om.
Ne consegue che si ottiene pure una sorta di consapevolezza interiore, mentre gli ostacoli spariscono (1.29).
Il praticante si raccoglie in se stesso, si dissolve nell’om, mentre diviene se stesso, assumendo la sua vera ide...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione
  5. Bibliografia essenziale
  6. Yogasutra