Difendere l'Italia
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Difendere l'Italia

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Difendere l'Italia

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"Gli ideatori e costruttori dell'Ue - economisti, banchieri, politici - sono stati attentissimi a non lasciare aperto neanche uno spiraglio in cui potesse prendere piede il pensiero critico, la riflessione, o anche soltanto un dubbio. Dobbiamo ricominciare a credere e a combattere per capovolgere la situazione di angosciosa agonia nella quale ci troviamo, e lavorare al ripristino della forza e dell'identità del popolo e della nazione italiana." Mentre gli scandali quotidiani e la frattura tra cittadini e istituzioni rendono sempre più evidente la disgregazione del sistema politico italiano ed europeo, Ida Magli mette in luce il mutamento epocale che la nostra democrazia sta vivendo: la rappresentanza è morta, e ciò significa la fine dei vecchi partiti che con il loro deserto di idee hanno fatto sprofondare l'Italia nella corruzione e l'hanno resa schiava della spietata contabilità dei banchieri di Bruxelles. Di fronte a questo sfascio, tuttavia, non è possibile restare indifferenti: è necessario reagire a un sistema ormai esausto, e rifondare le basi culturali e sociali della nazione. In questo saggio senza sconti a nessuno, Ida Magli spinge gli italiani a ritrovare il proprio orgoglio, e lavorare per una rinascita italiana degna di questo nome: un programma politico e intellettuale per riappropriarci delle decisioni fondamentali per la nostra vita e salvare il nostro Paese.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858663295

Capitolo 1

Dobbiamo accettare la distruzione dell’Europa?

Parte prima

Il quadro della situazione

Le speranze della scienza

La crisi attuale in realtà non è una «crisi». Si tratta, invece, del crollo di tutti i presupposti, quelli espliciti e consapevoli, ma soprattutto quelli impliciti, inespressi, sconosciuti alla maggior parte della popolazione, sui quali il sistema sociale e politico è stato fondato fino ad oggi. Un brevissimo sguardo su questi presupposti permetterà di rendersi conto facilmente di che cosa stiamo parlando e del fatto che nulla è recuperabile in Italia e in Europa di ciò su cui si reggeva il potere «democratico». Lo scrivo fra virgolette per segnalare ai lettori, come ha spiegato Gaston Bachelard nella sua Epistemologia,1 che è cambiato il livello di comprensione di un concetto, ossia che il concetto di «democrazia», apparentemente tanto ovvio nella sua positività, lo dobbiamo assumere invece in forma critica per riuscire a individuare quale ruolo svolga nella decomposizione sociale in cui stiamo vivendo.
Ma a quale scopo questo sforzo di analisi e di approfondimento? Ebbene, anche se io sono convinta, come molti altri pensatori, che per la civiltà dell’Occidente sia giunta l’ora della fine, tanto da aver cercato di dimostrarlo nel libro pubblicato soltanto un anno fa e intitolato appositamente Dopo l’Occidente,2 tuttavia è stata forse l’angoscia, l’eccesso di disperazione nel quale mi ha fatto sprofondare questa convinzione, a suscitare dentro di me tumulti di ribellione. Mi sono apparse così, all’improvviso, possibili vie di salvezza, complicati ma entusiasmanti progetti di resurrezione, folli sogni ad occhi aperti che però avrebbero potuto diventare realtà.
È stato in uno di questi momenti di abbandono alla speranza che mi è tornata vivissima alla memoria un’angosciosa domanda di Husserl: «Dobbiamo accettare il tramonto dell’Occidente come se si trattasse di una fatalità, di un destino che ci sovrasta?». È una frase che si trova nel saggio L’idea di Europa,3 uno degli innumerevoli libri che ho letto in questi lunghi anni di battaglia contro l’unificazione europea e che non mi sono serviti a nulla perché gli ideatori e costruttori dell’Ue – economisti, banchieri, politici – sono stati attentissimi a non lasciare aperto neanche uno spiraglio in cui potesse prendere piede il pensiero critico, la riflessione filosofica, o anche soltanto un dubbio. Eppure lo sconsolato interrogativo di Husserl mi è servito più di quanto non potessi immaginare perché mi è sembrato subito falso, sbagliato. La sua ricostruzione della storia filosofica d’Europa mi è apparsa vecchia, inutile perché ignorava le scienze umane, la ricchezza del sapere sviluppatosi dall’Illuminismo e che ne ha trasformato le certezze in un tipo di certezza del tutto diverso e questa volta davvero determinante: la scoperta che la strada del sapere non è mai «certa» perché la scienza cresce su se stessa mettendo continuamente in dubbio ciò che già sa, e la scoperta che l’Uomo come «universale», cui si riferiscono i filosofi, non esiste. È questo il dato fondamentale dell’antropologia che ha spiazzato il sapere aristotelico e quello teologico. L’uomo è «uomo», appartiene alla specie umana in quanto parla (è la parola il carattere distintivo della specie umana) e parla soltanto se sente parlare. Un certo numero di cosiddetti «sordomuti» è stato sempre presente in ogni società (l’incidenza statistica di questo gravissimo difetto genetico è quasi uguale ovunque) ma non si pensava che fossero muti perché non sentivano e anzi si associava di solito anche un certo deficit intellettuale a questo handicap. La situazione è cambiata da quando, intorno agli anni 1970-80, ingegneri e chirurghi otorinolaringoiatri hanno messo a punto la tecnica dell’impianto cocleare con la quale si fanno giungere all’area acustica cerebrale di chi nasce sordo (dall’1 al 2 per mille in tutto il mondo) attraverso stimoli elettrici dei suoni significativi permettendogli così anche di acquisire la parola. L’impianto però deve essere eseguito il più presto possibile dalla nascita per ottenere l’attivazione della parola perché, passato il primo anno e mezzo di vita, il bambino sente ma ha difficoltà ad imparare a parlare. Questo dato ha comprovato in modo quasi sconvolgente (almeno per coloro che non vogliono arrendersi all’idea della caratterizzazione bioculturale della specie) che la natura ha affidato il linguaggio alla cultura.4
È un’affermazione ovvia, ma proprio perché ovvio, il linguaggio e le lingue non erano mai state studiate sotto questo aspetto fino alla nascita dell’Illuminismo e delle scienze umane. Alla straordinaria ricchezza che la conoscenza dei sistemi linguistici ha apportato al sapere sull’uomo, si sono aggiunti gli studi particolari che tutti gli antropologi hanno fatto con un amore straordinario, sia perché convinti che non si può capire nessun modello culturale se non se ne conosce la lingua, sia per il timore che sparissero, insieme ai piccoli gruppi in estinzione cui si erano avvicinati, anche le loro lingue. Franz Boas e Alfred Kroeber (solo per citare i più importanti) hanno dedicato quasi tutto il loro tempo a raccogliere frammenti di lingue, racconti mitici, ricordi di leggende, da ogni indigeno che trovavano sulla loro strada, nella speranza che dalla massa disordinata del materiale accumulato si potesse poi, analizzandolo col particolare metodo messo a punto dall’antropologia, ricostruire i sistemi sociali, le credenze, i costumi, gli affetti del particolare gruppo, degli individui che quella lingua avevano creato.5 Si può affermare che tutte le conoscenze fondamentali sulle «strutture della parentela» che gli antropologi hanno accumulato, creando con questo argomento un settore specializzato della loro disciplina, sono scaturite dall’analisi del particolare termine con il quale ogni singolo individuo si rivolge, e deve rivolgersi, ad ognuno degli appartenenti alla propria famiglia, distinto per grado di consanguineità, per sesso, per acquisizione matrimoniale. Oggi abbiamo sotto gli occhi la prova di quanto il linguaggio sia strettamente collegato alle forme della società e le rispecchi, nella distruzione che l’Occidente sta mettendo in atto dei termini di base delle «strutture della parentela»: non più mamma, papà, zio, nonna ma genitore 1, genitore 2 e probabilmente nessun altro termine di parentela, ci si chiamerà per nome e basta… Questo dato sarà sufficiente all’antropologo di domani (ammesso che l’antropologia sopravviva) per dedurne che nell’Europa del Duemila si tendeva ad eliminare la collaborazione fra natura e cultura prevista dalla natura e a ostracizzarla dando luogo esclusivamente alle tecniche culturali per costituire gruppi pseudo-parentali senza legami di «sangue». E potrà anche essere sicuro così, questo antropologo, anche se non ne trovasse nessun’altra prova, di avere a che fare con una società omosessuale, l’unica che ha bisogno di distruggere il concetto di legame di sangue per potersi rappresentare come strutturata in «famiglia».
Si è aggiunta alla consapevolezza linguistica la scoperta antropologica della «cultura». Questo termine è oggi talmente inflazionato e corrotto dall’uso non scientifico che se ne fa quotidianamente, da aver perso la forza epistemologica che invece possiede, e che ha trasformato la visione del mondo in quasi tutte le discipline. Volendo riassumerlo in poche parole possiamo intendere per cultura un «insieme complesso di costumi, di linguaggio, di tecniche, di significati, di valori, che caratterizza un gruppo umano, circoscritto nel tempo e nello spazio». Un insieme complesso implica – e questo costituisce la forza epistemologica di una definizione apparentemente banale – l’interazione fra i vari tratti del comportamento, un’interazione che non può essere valutata facendo semplicemente la somma dei singoli elementi che la costituiscono perché si integra in una «forma» particolare cui diamo il nome di «modello culturale».6
I filosofi, e Husserl ne è sotto questo aspetto uno dei rappresentanti più ottusi anche se è in buona compagnia (per esempio Nietzsche), non hanno preso atto quasi per nulla del concetto di cultura e sono rimasti «fermi» all’idea di un Uomo universale (analogamente alla teologia), così come sono rimasti fermi, forse inconsapevolmente, al dubbio sulla «trascendenza» che nei loro ragionamenti non manca mai perché o esiste ed è al di là dell’uomo, oppure non esiste e di conseguenza ogni sapere sull’uomo e dell’uomo è inutile. Insomma i filosofi, anche quando si dichiarano atei, assolutamente nemici del sacro e di una qualsiasi divinità, non riescono a «pensare», a vivere la trascendenza dell’uomo come tale, senza un al di là, quasi fossero proprio loro, i filosofi, incapaci di pensare la filosofia come pura «filosofia».
Di fronte alle disgrazie dell’Europa, i filosofi perciò non hanno saputo far altro che rinserrarsi nella filosofia, per disperarsi e al tempo stesso consolarsi perché loro, i filosofi, stavano comunque al di fuori, e non sono stati capaci di apprezzare l’ampiezza di orizzonti che le scienze umane aprivano sull’Uomo. Fenomenologia religiosa, antropologia culturale, sociologia, etnologia, storia, psicologia, psicoanalisi, psichiatria: tutti strumenti per comprendere l’Io, il singolo uomo insieme al gruppo e attraverso il gruppo, e per comprendere i popoli altri come «altri», non rifiutando di soffrire con loro pur sapendo che in realtà ci è impossibile «comprenderli».7 Tutte le discipline dovevano quindi essere ripensate e ricostruite con al centro la «cultura», questo modo nuovo di concettualizzare l’ambiente in cui l’uomo vive e che è già manipolato dall’uomo fin dal primo momento in cui il neonato riesce a percepirlo intorno a sé perché possiede un nome, il nome che gli uomini gli hanno dato, culturalizzandolo, umanizzandolo. La stella, infatti, non è la stella, ma ciò cui ho dato il nome di «stella». Si può dire, tanto per fare un solo esempio del nuovo quadro delle scienze nato dal concetto di cultura, che tutto quanto l’archeoastronomia ha scoperto sull’«orientamento» degli antichi edifici è la prova più sicura di questo assunto, anche se si tratta di conoscenze che possediamo soltanto da pochi anni.8 Senza l’antropologia, senza il concetto di «cultura» come totalità dell’ambiente pensato e creato dall’uomo, probabilmente gli astrofisici non sarebbero stati spinti a «curiosare» sul rapporto concreto, tanto concreto da poterlo misurare, dell’uomo con le stelle, con una determinata stella.
Malgrado tutte queste amare riflessioni sull’ottusa ignoranza e brutalità dei governanti che hanno cancellato le scienze umane dall’orizzonte dell’Europa per poterla uccidere, lo sconsolato interrogativo di Husserl è risuonato fortissimo dentro di me suscitando un’immediata risposta: no, no, qualche cosa si deve fare, qualche idea di salvezza la dobbiamo lanciare nel terribile mare di spietata contabilità creato dai banchieri e che ingoia tutto ciò che dà senso e valore all’umano. Dovremo pur rendere conto ai nostri figli e nipoti di non aver nemmeno tentato di reagire; di esserci lasciati calpestare come vermi, sprofondati in una totale vigliaccheria, senza neppure un urlo di rivolta. Qualcosa dobbiamo proporla, almeno per lasciare la testimonianza della consapevolezza, quella consapevolezza che è appunto, come ha affermato con forza Hans-Georg Gadamer, il carattere costitutivo della civiltà occidentale: «È qui e soltanto qui che è avvenuta la più importante delle rivoluzioni, l’apparizione di una presa di coscienza storica. Per coscienza storica intendiamo il privilegio dell’uomo moderno di avere piena consapevolezza della storicità di ogni presente e della relatività delle opinioni… Avere senso storico significa pensare espressamente all’orizzonte storico che è coestensivo alla vita che noi viviamo e che abbiamo vissuta».9
Morire con le armi in pugno era la speranza degli eroi greci, la certezza degli eserciti romani, il grido appassionato dei patrioti risorgimentali. Oggi che tutto questo è stato quasi completamente dimenticato, o addirittura guardato, se non con disprezzo, con il distacco di una totale incomprensione, appare davvero assurdo sperare in un soprassalto di vitalità. Eppure è così. Bisogna tentare a tutti i costi di reagire all’omicidio-suicidio che, per la prima volta nella storia, viene compiuto non da nemici su un popolo vinto, ma dai suoi stessi capi, dai responsabili della sua esistenza. La vigliaccheria è sempre disgustosa, intollerabile; ma lo è incomparabilmente di più quando si configura come l’accettazione, anzi la collaborazione, da parte di coloro che comandano, del tradimento verso i propri sudditi. Non si riesce neanche a crederlo che siano proprio quelli che hanno il dovere di assicurare il presente e il futuro della Nazione, a cooperare invece alla sua fine. Perfino quel «Quoque tu, Brute?» che risuona da tanti secoli come il più tragico grido di incredulità e di dolore che sia stato mai lanciato nella storia davanti al tradimento, appare «nullo» oggi di fronte a ciò che ci sta accadendo. Non è una congiura di pochi contro un capo, di un figlio contro il padre, una congiura che non vede altra via d’uscita che l’assassinio: sono i padri, i capi, che hanno congiurato per giungere all’assassinio dei figli, dei nipoti.
Fa parte di questo tradimento, ma appare tuttavia sorprendente, nel silenzio che i potenti hanno conservato sui suicidi di questi anni, mai avvenuti con tanta frequenza in Italia, il silenzio della Chiesa. È un silenzio traditore sotto due aspetti: la mancanza della denuncia nei confronti dei politici che inducono, quasi costringono con le loro leggi alla disperazione e al suicidio i propri sudditi. Ha trovato il coraggio di farla qualche laico, questa denuncia, presentando esposti alle Procure della Repubblica per istigazione al suicidio contro il capo del governo, Mario Monti,10 come mai non l’ha trovato la Chiesa? Ma soprattutto la mancanza – questa davvero la più grave e quasi non credibile – da parte dei sacerdoti del richiamo alla «speranza», virtù evangelica per eccellenza, che vieta il suicidio ai credenti. Lo vieta perché «essere uomini», sapere di poter pensare, capire, vedere, sentire, amare, soffrire, odiando la morte, è di per sé il fatto più bello che esista. Fa parte della creazione, della bellezza del mare, delle montagne, degli astri, dei colori, dei fiori, dei suoni… fa parte del mondo guardato con gli occhi dei poeti, con gli occhi d’amore di quello straordinario poeta che era Gesù di Nazaret. Speranza! Parola, sentimento bellissimo, che è sparito dall’orizzonte nel quale siamo stati rinchiusi, così come ne è sparita la bellezza.

La Terza guerra mondiale

È il vedere quanto sia orrido il mondo nel quale i governanti ci hanno costretto a vivere, però, che non può non suscitare una reazione di rabbia.
Rabbia! Un’irrefrenabile rabbia deve spingere almeno a smascherare i traditori, a consegnarne i nomi alla storia. L’Occidente non è morto di morte naturale, consumato dall’inevitabilità dei cicli storici. Si è trattato di un genocidio, di un’uccisione compiuta deliberatamente dai suoi capi politici, dai suoi capi religiosi, in una forma tanto perversa da non essere mai stata pensata prima nella storia: l’Europa è stata spinta ad uccidersi. Tutto questo nel silenzio più assoluto. Nessuno ha parlato: né giornalisti, né sacerdoti, né intellettuali. Questa è forse la cosa più incomprensibile e più disperante: nessun intellettuale ha reagito facendo sentire la propria voce. Non ci sono più «intellettuali» – poeti, musicisti, artisti – in Europa, in Italia? Sembrerebbe impossibile; ma il fatto che non abbiano parlato proprio in una situazione nella quale soltanto loro sarebbero stati in grado di spiegare ai popoli le trame complicatissime di un progetto non «pensabile», non «credibile», quale quello della distruzione degli Stati e delle genti europee, è la prova ultima della morte imminente della nostra civiltà.
Sono stata sempre convinta, con assoluta certezza, che l’ultima parola, in ogni tempo, in qualsiasi situazione, spetti ai poeti. L’avevo affermato in pubblico, senza alcun timore di poter essere smentita, perfino in un convegno di letterati e poeti sul pericolo atomico, tenutosi nel lontano 1982 sulle falde dell’Etna, con in sottofondo il brontolio del vulcano che gettava fino alla porta dell’albergo dove eravamo riuniti i suoi spruzzi neri. Era una strana circostanza: la sensibilità di un poeta e critico come Giovanni Raboni gli aveva permesso di capire quanto l’antropologia fosse vicina alla poesia, quasi analoga alla poesia, come non ci fosse differenza fra scienza e arte, tanto che aveva voluto includere un antropologo nel gruppo dei convegnisti. Fu così che mi trovai a sostenere, quasi senza accorgermene, che soltanto i Poeti (l’Arte) possono parlare di fronte alle guerre, di qualsiasi tipo esse siano, perché sono state sempre volute dal Potere, tanto nel passato quanto oggi, e per un unico fine: garantire il potere a chi già lo detiene, oppure garantirlo a chi lo vuole raggiungere. Per questo, dunque, l’ultima parola spetta ai Poeti: perché chi ha fatto dell’arte non può mai essere stato agito del tutto dal Potere.
Su questo punto ci fu il consenso di tutti i convegnisti e non mi fu difficile perciò giungere ad analizzare nella sua essenza «bellica» la profonda distruttività insita nell’unificazione europea, e a dimostrare che quella che stiamo subendo da parte dei nostri governanti è una vera guerra, la Terza guerra mondiale. Una guerra atroce, anche se per ora non si vede scorrere altro sangue se non que...

Indice dei contenuti

  1. Difendere L’italia
  2. Copyright
  3. Capitolo 1. Dobbiamo accettare la distruzione dell’Europa?
  4. Capitolo 2. Fine dei simboli e delle rappresentanze Note di diario
  5. Capitolo 3. Nuovo Risorgimento Breve itinerario di un sogno ad occhi aperti
  6. Bibliografia
  7. Indice