Una stanza tutta per sé
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Una stanza tutta per sé

  1. 217 pagine
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Una stanza tutta per sé

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Scritto tra il 1928 e il 1929 in seguito a una serie di conferenze sul tema "donne e romanzo", questo testo costituisce uno dei più eloquenti trattati femministi del Novecento: partendo da un tema apparentemente secondario e cioè che una donna, per scrivere, debba avere del denaro e "una stanza tutta per sé", Virginia Woolf porta alla luce le restrizioni imposte nel corso dei secoli alla creatività femminile dalla società, dalle leggi e dalle convenzioni. Attraverso riflessioni arricchite da sentimenti e storie personali, la Woolf dà vita a una forma ibrida tra saggio e racconto che - come descritto nella chiara introduzione di Egle Costantino - le permette di universalizzare le esperienze narrate in un testo lucido e stimolante, divenuto un punto di riferimento imprescindibile per approfondire e comprendere la questione femminile.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
ISBN
9788858663028
Argomento
Literature
Categoria
Classics

IV

Trovare una donna in quello stato d’animo nel sedicesimo secolo era ovviamente impossibile. Basta pensare alle tombe di epoca elisabettiana con tutti quei bambini inginocchiati a mani giunte, e alla loro morte prematura; basta vedere le loro case, con quelle stanze buie e strette, per capire che nessuna donna allora avrebbe potuto scrivere poesia. Quel che ci si può aspettare è che forse, in tempi successivi, una gran dama abbia tratto vantaggio dalle sue relative libertà e comodità per dare alle stampe qualcosa che portasse il suo nome, correndo il rischio di essere considerata un mostro. Gli uomini, ovviamente, non sono degli snob, pensavo, respingendo prudentemente il «femminismo incallito» di Rebecca West; ma apprezzano e per la maggior parte accolgono con simpatia gli sforzi di una contessa che scrive versi. Ci si aspetterebbe che una dama titolata trovasse un incoraggiamento molto maggiore di quello che ai loro tempi ricevettero una sconosciuta Miss Austen o una Miss Brontë. Ma ci si aspetterebbe anche che la sua mente fosse disturbata da emozioni estranee come la paura e l’odio e che le sue poesie mostrassero traccia di simili inquietudini. Ecco Lady Winchilsea,1 per esempio, pensavo, prendendo dallo scaffale le sue poesie. Era nata nell’anno 1661; era nobile per nascita e per matrimonio; non ebbe figli; scriveva poesie, e basta leggerne una per vederla esplodere di indignazione contro la condizione delle donne:
Che disonore ci ha colpite! Colpite da regole
sbagliate,
Più della Natura, l’Educazione ci ha ingannate;
Escluse da ogni progresso della mente,
Da noi ci si attende, e si pretende, stupidità;
E se qualcuna si librasse sulle altre,
Spinta da più ardente fantasia e ambizione,
Tanto forte appare ancora l’opposta fazione,
Che la speranza di fiorire mai potrà superare la paura.
È chiaro che la sua mente non è affatto «libera da ogni ostacolo e diventata incandescente». Al contrario, è tormentata e distratta da odi e recriminazioni. Per lei la razza umana si divide in due partiti. Gli uomini sono «l’opposta fazione»; gli uomini sono odiati e temuti perché hanno il potere di sbarrarle la strada proibendole quello che vuole fare – cioè scrivere.
Ahimè! una donna che provi a tener la penna in mano
È giudicata tanto presuntuosa
Che nessuna virtù la può redimere.
Dicono che ci inganniamo sul nostro sesso e sul suo
agire;
Buone maniere, moda, ballo, vestiti, giochi,
Sono le perfezioni da raggiungere;
Scrivere, o leggere, o pensare, o indagare
Offuscherebbero la nostra bellezza sprecando il
nostro tempo,
Ponendo fine alle conquiste della nostra giovinezza,
Mentre l’insulso governo di una casa servile
Secondo alcuni è per noi massima arte e facoltà.
Infatti, per darsi il coraggio di scrivere, Lady Winchilsea deve supporre che quel che scrive non sarà mai pubblicato; deve consolarsi con il triste canto:
Canta per pochi amici e per i tuoi dolori,
Poiché non ti sono destinate corone d’alloro;
Sia ben scura la tua ombra, e in essa sii felice.
Eppure è chiaro che avrebbe dovuto liberare la sua mente dall’odio e dalla paura invece di accumularvi amarezza e risentimento, perché il fuoco ardeva fortemente in lei. Di tanto in tanto appaiono parole di pura poesia:
Né vuole in sete sbiadite comporre
pallidamente l’inimitabile rosa.
– parole giustamente apprezzate da Middleton Murry, e Pope, si pensa, ricordava e faceva proprie queste altre:
Ora la giunchiglia vince il debole cervello;
E vengo meno al suo aromatico dolore.
Era un vero peccato che una donna capace di scrivere in quel modo, la cui mente era in sintonia con la natura e predisposta alla riflessione, fosse stata costretta alla rabbia e all’amarezza. Ma come avrebbe potuto evitarlo? mi chiedevo, immaginando gli scherni e le risate, l’adulazione dei leccapiedi, lo scetticismo del poeta di professione. Per scrivere deve essersi segregata in una stanza in campagna, e forse era lacerata da amarezza e scrupoli, anche se suo marito era il più gentile degli uomini e il loro matrimonio un esempio di perfezione. Dico “deve essersi” perché quando si vanno a cercare i fatti della vita di Lady Winchilsea si scopre, come al solito, che di lei non si sa quasi nulla. Soffriva terribilmente di malinconia, cosa che possiamo almeno in parte dedurre leggendo ciò che scriveva quando si sentiva stretta nella morsa della disperazione:
I miei versi criticati e la mia occupazione giudicata
Inutile follia o colpa presuntuosa.
L’occupazione, quella così censurata, era, per quanto si può vedere, un innocuo vagabondare per i campi sognando:
La mia mano si rallegra nel tracciare cose insolite,
E si allontana dalla strada ben nota e frequentata,
Né vuole in sete sbiadite comporre
pallidamente l’inimitabile rosa.
Naturalmente, se quella era la sua abitudine e quella la sua gioia, non poteva aspettarsi altro che di essere derisa; e infatti si dice che Pope o Gay2 ne abbiano fatto oggetto di satira definendola «una pedante con la mania di scribacchiare». Si dice anche che lei abbia offeso Gay, deridendolo. Aveva detto che il suo Trivia dimostrava che «egli era più adatto a camminare davanti a una portantina che non a sedervisi sopra». Ma tutto questo è un «dubbio pettegolezzo» e, sostiene Middleton Murry, «per niente interessante». Ma qui non sono d’accordo con lui, perché mi sarebbe piaciuto avere molti altri di questi pur dubbi pettegolezzi, in modo da poter ricostruire o creare un’immagine di questa signora malinconica, che amava vagabondare per i campi e pensare a cose insolite e che detestava, così aspramente, così sventatamente, «l’insulso governo di una casa servile». Ma divenne prolissa, dice Middleton Murry. Il suo talento è invaso dalle erbacce e soffocato dai rovi. Non ebbe nessuna possibilità di mostrare il raffinato talento che aveva. E così, dopo aver riposto le sue poesie sullo scaffale, mi rivolsi a un’altra nobildonna, la Duchessa amata da Lamb, la svampita, fantastica Margaret di Newcastle,3 più anziana di Lady Winchilsea, ma sua contemporanea. Le due donne erano molto diverse, ma avevano in comune la nobiltà, il non aver avuto figli e l’aver sposato il migliore degli uomini. In entrambe ardeva la stessa passione per la poesia ed entrambe appaiono sfigurate e deformate per gli stessi motivi. Si legge la Duchessa e ci si trova la stessa esplosione di rabbia: «Le donne vivono come pipistrelli o gufi, lavorano come bestie, e muoiono come vermi…». Anche Margaret avrebbe potuto essere una poetessa; oggigiorno tutta quella attività avrebbe fatto muovere un qualche congegno. Stando così le cose, come si sarebbe potuto trattenere, domare o civilizzare per usi umani quell’intelligenza selvatica, generosa e non istruita? Essa traboccava, alla rinfusa, in torrenti di rime e prosa, di poesia e filosofia congelati in volumi in quarto e in folio che nessuno legge mai. Avrebbero dovuto metterle in mano un microscopio. Avrebbero dovuto insegnarle a osservare le stelle e a ragionare in modo scientifico. Il suo ingegno fu sviato dalla solitudine e dalla libertà. Nessuno la controllava. Nessuno la istruiva. I professori la adulavano. A Corte la deridevano. Sir Egerton Brydges4 si lamentava della sua cafonaggine – «lei, una donna di alto rango, cresciuta a corte». Si rinchiuse a Welbeck,5 sola.
Quale immagine di solitudine e rivolta richiama alla mente il pensiero di Margaret Cavendish! Come se un cetriolo gigante fosse cresciuto sopra tutte le rose e i garofani del giardino fino a soffocarli a morte. Quale spreco per la donna che scrisse «le donne più educate sono quelle la cui mente è la più civile» dover buttar via il proprio tempo scribacchiando assurdità e sprofondando sempre più nell’oscurità e nella follia, tanto che la gente si affollava intorno alla sua carrozza ogni volta che usciva. Evidentemente la Duchessa pazza era diventata uno spauracchio con cui spaventare le ragazze intelligenti. Qui mi venne in mente, mettendo via la Duchessa e aprendo la raccolta delle lettere di Dorothy Osborne,6 quello che Dorothy scrisse a Temple a proposito del nuovo libro della Duchessa: «Certamente la poveretta è un po’ matta, altrimenti non si sarebbe resa ridicola al punto da scrivere addirittura un libro in versi, neppure se dovessi restare senza dormire per due settimane io arriverei a tanto».
E così, visto che nessuna donna dotata di modestia e buon senso poteva scrivere libri, Dorothy, che era sensibile e malinconica, un temperamento opposto a quello della Duchessa, non scrisse nulla. Le lettere non contavano. Una donna poteva scrivere lettere mentre sedeva al capezzale del padre malato. Poteva scriverle davanti al caminetto mentre gli uomini conversavano, senza disturbarli. La cosa strana, pensavo, sfogliando il volume delle lettere di Dorothy, è il talento che aveva questa ragazza incolta e solitaria per la composizione della frase, per la creazione di una scena. Sentite cosa scrive:
«Dopo pranzo ci sediamo e chiacchieriamo finché il discorso non cade su Mr B., e allora me ne vado. Le ore calde della giornata le passo leggendo o lavorando, e quando sono le sei o le sette vado in un prato che si trova vicino a casa, dove molte ragazzotte portano a pascolare pecore e mucche e siedono all’ombra a cantare ballate; mi avvicino e ne paragono la voce e la bellezza a quelle di certe antiche pastorelle di cui ho letto e vi trovo una grande differenza, ma credetemi, queste sono innocenti quanto potevano esserlo le altre. Chiacchiero con loro e capisco che non hanno bisogno d’altro per essere le persone più felici del mondo, tranne il fatto di sapere di esserlo. Spesso, quando siamo nel mezzo di un discorso, una si guarda intorno e vede che la sua mucca sta entrando in un campo di grano, e allora si alzano tutte e corrono come se avessero le ali ai piedi. Io che non sono così svelta rimango indietro, e quando le vedo riportare a casa i loro animali, capisco che anche per me è il momento di rientrare. Dopo cena esco in giardino e vado fin sulla riva di un fiumiciattolo che scorre vicino, lì mi siedo e desidero che tu sia con me…».
Si potrebbe giurare che aveva la stoffa della scrittrice. Ma «neppure se dovessi restare senza dormire per due settimane io arriverei a tanto» – si può misurare l’opposizione di quei tempi verso la donna che scriveva dal fatto che perfino una donna con una grande predisposizione per la scrittura è la prima a credere che scrivere un libro significhi rendersi ridicole, e addirittura dare segni di pazzia. E così arriviamo, continuavo, riponendo sullo scaffale l’unico breve volume di lettere di Dorothy Osborne, ad Aphra Behn.7
E con Aphra Behn si è a una svolta decisiva sulla strada intrapresa. Ci lasciamo alle spalle, chiuse nei loro parchi, tra i loro in folio, le nobildonne solitarie che scrivevano senza pubblico né critica, esclusivamente per il loro piacere. Andiamo in città e veniamo in contatto con la gente comune nelle strade. Aphra Behn era una donna della classe media che possedeva le virtù plebee dell’umorismo, della vitalità e del coraggio; una donna costretta dalla morte del marito e da alcune sue disavventure a guadagnarsi da vivere usando l’ingegno. Doveva lavorare sullo stesso piano degli uomini. Guadagnava, lavorando duramente, abbastanza per vivere. Questo fatto supera per importanza ogni cosa che scrisse, perfino lo splendido «A Thousand Martyrs I have made», o «Love in Fantastic Triumph sat», perché da qui prende avvio la libertà della mente, o piuttosto la possibilità che nel corso del tempo la mente sarebbe stata libera di scrivere quel che voleva. Perché ora che Aphra Behn l’aveva fatto, le ragazze potevano andare dai loro genitori e dire, Non c’è bisogno che mi passiate il mensile; posso guadagnarmi da vivere grazie alla scrittura. Ovviamente la risposta per molti anni a venire fu, Sì, vivendo come Aphra Behn! Meglio la morte! E la porta si chiudeva più in fretta che mai. Quell’argomento profondamente interessante, il valore che gli uomini danno alla castità delle donne, e gli effetti che ha sulla loro educazione, si propone qui per la discussione, e potrebbe diventare il tema di un interessante libro se qualche studentessa di Girton o Newnham decidesse di approfondirlo. Lady Dudley, con tutti i suoi diamanti addosso, seduta tra i moscerini della brughiera scozzese, potrebbe stare in copertina. Lord Dudley, scriveva l’altro giorno il «Times» in occasione della morte di Lady Dudley, «uomo dal gusto raffinato e dai molti talenti, era benevolo e generoso, ma capricciosamente dispotico. A tutti i costi voleva che sua moglie fosse sempre vestita con la massima eleganza, perfino nel più remoto casino di caccia sulle Highlands; la copriva di meravigliosi gioielli», e così via, «le dava tutto – tranne affidarle mai la benché minima responsabilità». Poi a Lord Dudley venne un colpo e lei lo curò e ne amministrò poi fino all’ultimo il patrimonio con estrema competenza. Quel capriccioso dispotismo c’era anche nel diciannovesimo secolo.
Ma torniamo a noi. Aphra Behn dimostrò che era possibile guadagnare scrivendo, ma occorreva forse sacrificare certe piacevoli qualità; e così, poco a poco, scrivere non fu più solamente sintomo di follia e di una mente impazzita, ma assunse importanza sul piano pratico. Un marito poteva morire, oppure la famiglia poteva essere colpita da qualche disgrazia. Centinaia di donne cominciarono, man mano che il diciottesimo secolo avanzava, a incrementare il loro denaro per le piccole spese o a correre in soccorso alla famiglia facendo traduzioni o scrivendo qualcuno degli innumerevoli dozzinali romanzetti che non sono più ricordati nemmeno nei libri di scuola, ma si trovano ancora sulle bancarelle di Charing Cross Road. La grande attività intellettuale che si manifestò tra le donne alla fine del diciottesimo secolo – parlare, incontrarsi, scrivere saggi su Shakespeare, tradurre i classici – si basava sul fatto concreto che una donna poteva far soldi scrivendo. Il denaro dà dignità a ciò che è frivolo se non viene pagato. Forse c’era ancora chi scherniva le «pedanti con la mania di scribacchiare», ma non si poteva negare che riuscissero a mettersi dei soldi nel borsellino. Così, verso la fine del Settecento si verificò un cambiamento che, se stessi riscrivendo la storia, descriverei più esaurientemente e considererei più importante delle Crociate o della Guerra delle due rose. La donna della classe media cominciò a scrivere. Perché se Orgoglio e pregiudizio è importante, se Middlemarch, Villette e Cime tempestose sono importanti, allora è molto più importante di quanto io non possa dimostrare in un’ora di discorso che le donne in generale, e non soltanto l’aristocratica solitaria chiusa nella sua casa di campagna tra i suoi in folio e i suoi adulatori, cominciarono a scrivere. Senza queste antesignane, Jane Austen e le Brontë e George Eliot non avrebbero potuto scrivere, così come Shakespeare non avrebbe potuto scrivere senza Marlowe, o Marlowe senza Chaucer, o Chaucer senza quei poeti ormai dimenticati che gli spianarono la strada e domarono la naturale barbarie della lingua. Perché i capolavori non nascono soli e isolati; sono il risultato di molti anni di pensiero in comune, di pensiero del popolo tutto, per cui dietro la singola voce c’è l’esperienza della massa. Jane Austen avrebbe dovuto portare una corona sulla tomba di Fanny Burney e George Eliot rendere omaggio all’ombra robusta di Eliza Carter,8 quell’audace anziana signora che legò una campanella alla spalliera del letto per riuscire a svegliarsi presto e studiare il greco. Tutte le donne insieme dovrebbero cospargere di fiori la tomba di Aphra Behn, che si trova, molto scandalosamente, anche se giustamente, nell’Abbazia di Westminster, perché fu lei a conquistare per loro il diritto di dire quello che pensavano. È lei – ombrosa e amorevole com’era – che mi rende possibile dirvi questa sera, senza che sembri un’utopia: guadagnatevi cinquecento sterline all’anno grazie al vostro ingegno.
A questo punto, dunque, si era giunti all’inizio del diciannovesimo secolo. E qui, per la prima volta, trovavo parecchi scaffali completamente dedicati a opere scritte da donne. Ma perché, non potevo fare a meno di chiedermi mentre davo una scorsa ai libri, erano tutti, tranne pochissime eccezioni, romanzi? L’impulso originario era verso la poesia. «L’esempio supremo del canto» era una poetessa.9 Sia in Francia che in Inghilterra le poetesse precedono le donne che scrivono romanzi. Inoltre, pensavo, guardando quei quattro nomi famosi, cosa aveva George Eliot in comune con Emily Brontë? E non è forse vero che Charlotte Brontë non capì mai Jane A...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione di Egle Costantino
  5. Cronologia della vita e delle opere
  6. Bibliografia
  7. UNA STANZA TUTTA PER SÉ
  8. I
  9. II
  10. III
  11. IV
  12. V
  13. VI