Il club Dumas
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Il club Dumas

  1. 380 pagine
  2. Italian
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Il club Dumas

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Informazioni sul libro

Lucas Corso indaga sui libri antichi come un detective sulle tracce di un crimine. Chiamato a verificare l'autenticità di un capitolo manoscritto dei "Tre moschettieri" e a decifrare l'enigma nascosto in un testo rarissimo, "Le Nove Porte del Regno delle Ombre", un manuale di magia nera, Corso intraprende un lungo viaggio che lo conduce dai vicoli di Toledo al Quartiere latino di Parigi lungo i sentieri impervi dell'occulto. Un allucinato gioco di specchi che sfida l'Intelletto e l'immaginazione, tra apparizioni angeliche e pericolose seduzioni.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
ISBN
9788858661604
Il club Dumas
a Cala, che mi ha portato
nel campo di battaglia

1

«Il vino d’Angiò»

Il lettore deve prepararsi
ad assistere alle scene più sinistre.
E. SUE, I misteri di Parigi
Mi chiamo Boris Balkan e in passato ho tradotto La Certosa di Parma. A parte questo, le critiche e le recensioni che scrivo escono sui supplementi letterari e sulle riviste di mezza Europa, organizzo corsi estivi sugli scrittori contemporanei in varie università, e ho pubblicato alcuni libri sul romanzo popolare dell’Ottocento. Niente di spettacolare, temo; soprattutto di questi tempi in cui i suicidi si travestono da omicidi, i romanzi vengono scritti dal medico di Roger Ackroyd, e troppa gente si impegna a pubblicare duecento pagine sulle appassionanti esperienze che vive guardandosi allo specchio.
Ma atteniamoci alla storia.
Conobbi Lucas Corso quando venne a trovarmi con «Il vino d’Angiò» sotto il braccio. Corso era un mercenario della bibliofilia; un cacciatore di libri su commissione. È un mestiere che implica le dita sporche e la parola facile, buoni riflessi, pazienza e molta fortuna. E anche una memoria prodigiosa, capace di ricordare in quale angolo polveroso di un negozio di libri usati riposa quell’esemplare per cui qualcuno è disposto a pagare una fortuna. La sua clientela era scelta e ristretta: una ventina di librai di Milano, Parigi, Londra, Barcellona e Losanna, di quelli che vendono solo per catalogo, che investono senza correre rischi, e che non trattano mai più di una cinquantina di titoli per volta; aristocratici dell’incunabolo per i quali una pergamena invece della pelle di vitello, oppure tre centimetri in più sul margine della pagina, significano migliaia di dollari. Sciacalli di Gutenberg, piranha dei mercati d’antiquariato, sanguisughe delle aste pubbliche, sarebbero capaci di vendere la propria madre per un’edizione principe; ma ricevono i clienti in salotti con divani di pelle e vista sul Duomo o sul lago di Costanza, e non si sporcano mai le mani né la coscienza: per quello ci sono i tipi come Corso.
Si tolse dalla spalla una borsa di tela e la posò per terra, accanto alle scarpe inglesi non troppo lucide, poi osservò a lungo il ritratto di Rafael Sabatini che tengo in una cornice sulla scrivania dello studio, accanto alla stilografica che uso per correggere articoli e bozze. La cosa mi piacque, perché i visitatori di solito vi badano poco; lo prendono per un vecchio parente. Io spiavo la sua reazione e notai che accennava un sorriso mentre si sedeva: una smorfia giovanile, da coniglio in fondo alla strada, di quelle che attirano immediatamente la benevolenza incondizionata del pubblico in qualsiasi cartone animato. Col tempo seppi che era capace di sorridere anche come un lupo magro e crudele, e che poteva assumere l’una o l’altra espressione a seconda delle circostanze; ma ciò accadde molto tempo dopo. In quel momento appariva convincente, per cui mi risolsi ad azzardare un cenno d’intesa.
«Nacque con il dono del riso» citai, indicando il ritratto «e con la sensazione che il mondo fosse folle…»
Lo vidi annuire lentamente, e provai per lui una simpatia complice che, nonostante quanto accadde in seguito, conservo ancora oggi. Aveva estratto da qualche parte, tenendo abilmente nascosto il pacchetto, una sigaretta senza filtro stropicciata come il vecchio cappotto e i pantaloni di velluto a coste. Se la rigirava tra le dita, osservandomi attraverso gli occhiali con la montatura di acciaio che poggiavano storti sul naso e con i capelli, che iniziavano a diventare grigi, arruffati sulla fronte. L’altra mano, quasi stesse impugnando una pistola nascosta, rimaneva in una delle tasche: cavità insondabili sformate da libri, cataloghi, carte e – anche questo lo scoprii in seguito – da una fiaschetta piena di gin Bols.
«… E quello fu tutto il suo patrimonio» completò senza difficoltà la citazione, prima di accomodarsi sulla poltrona e sorridere di nuovo. «Anche se, a essere sinceri, mi piace di più Capitan Blood
Sollevai la stilografica in aria per ammonirlo severamente.
«Fa male. Scaramouche sta a Sabatini come I tre moschettieri stanno a Dumas.» Feci un rapido gesto di omaggio in direzione del ritratto. «“Nacque con il dono del riso…” Nella storia del romanzo d’appendice di genere avventuroso non c’è un inizio paragonabile a questo.»
«Forse è vero» concesse dopo un’apparente riflessione, poi mise il manoscritto sul tavolo, ben protetto nella sua cartelletta con le buste di plastica, una per pagina. «Ed è una curiosa coincidenza che abbia menzionato Dumas.»
Spinse la cartelletta verso di me, girandola in modo che potessi leggerne il contenuto. Tutti i fogli erano scritti in francese su un solo lato e c’erano due tipi di carta: uno bianco, ormai ingiallito dal tempo, e un altro azzurro pallido con una quadrettatura fine, altrettanto invecchiato dagli anni. Ai due colori corrispondevano grafie diverse, benché quella della carta azzurra – tracciata con inchiostro nero – comparisse anche sui fogli bianchi sotto forma di annotazioni posteriori alla stesura originale, la cui grafia era più piccola e aguzza. In tutto erano quindici fogli, e undici erano azzurri.
«Curioso.» Sollevai lo sguardo su Corso: mi osservava con occhiate tranquille che andavano dalla cartella a me e da me alla cartelletta. «Dove l’ha trovato?»
Si grattò un sopracciglio, calcolando senza dubbio fino a che punto l’informazione che stava per chiedermi lo obbligava a ricambiare con questo tipo di dettagli. Il risultato fu una terza smorfia, questa volta da coniglio innocente. Corso era un professionista.
«In giro. Il cliente di un cliente.»
«Capisco.»
Fece una breve pausa, cauto. Oltre che circospezione e riserbo, cautela significa astuzia. E questo lo sapevamo entrambi.
«È chiaro che» aggiunse «farò dei nomi, se lei me lo chiede.»
Risposi che non era necessario, e questo sembrò tranquillizzarlo. Si sistemò gli occhiali con un dito, prima di chiedere la mia opinione su quanto avevo tra le mani. Non risposi subito, sfogliai le pagine del manoscritto fino a trovare la prima. L’intestazione era in lettere maiuscole, con tratti più grossi: LE VIN D’ANJOU.
Lessi a voce alta le prime righe:
Après de nouvelles presque désespérées du roi, le bruit de sa convalescence commençait à se répandre dans le camp…
Non potei evitare un sorriso. Corso annuì, invitandomi a pronunciare il verdetto.
«Senza il minimo dubbio» dissi «questo è di Alexandre Dumas, padre. “Il vino d’Angiò”: capitolo quaranta e rotti, mi sembra di ricordare, dei Tre moschettieri
«Quarantadue» confermò Corso. «Capitolo quarantadue.»
«È l’originale?… Il manoscritto autentico di Dumas?»
«Sono qui per questo. Perché me lo dica lei.»
Mi strinsi nelle spalle, per eludere una responsabilità che suonava eccessiva.
«Perché io?»
Era una domanda stupida, di quelle che servono solo a guadagnare tempo. A Corso dovette sembrare falsa modestia, perché represse una smorfia di impazienza.
«Lei è un esperto» rispose in tono un po’ secco. «E, oltre a essere il critico letterario più influente di questo paese, sa tutto sul romanzo popolare dell’Ottocento.»
«Dimentica Stendhal.»
«Non lo dimentico. Ho letto la sua traduzione della Certosa di Parma
«Davvero? Lei mi lusinga.»
«Non si illuda. Preferisco quella di Consuelo Berges.»
Sorridemmo entrambi. Continuava a starmi simpatico, e iniziavo a mettere a fuoco il suo stile.
«Conosce i miei libri?» azzardai.
«Alcuni. Lupin, Raffles, Rocambole, Holmes, per esempio. O gli studi su Valle-Inclán, Baroja e Galdós. Anche Dumas: l’impronta di un gigante. E il suo saggio sul Conte di Montecristo
«Li ha letti tutti?»
«No. Il fatto che io lavori con i libri non significa che sia obbligato a leggerli.»
Mentiva. O per lo meno esagerava l’aspetto negativo della questione. Quell’individuo apparteneva alla categoria dei coscienziosi: prima di venire a trovarmi aveva dato un’occhiata a tutto quello che era riuscito a trovare su di me. Era uno di quei lettori coatti che divorano carta stampata fin dalla più tenera infanzia; nel caso, poco probabile, che in qualche momento l’infanzia di Corso si fosse potuta definire tenera.
«Capisco» risposi tanto per dire qualcosa.
Aggrottò un attimo la fronte, controllando di non aver dimenticato nulla, poi si tolse gli occhiali, alitò sulle lenti e si mise a pulirle con uno stropicciatissimo fazzoletto che estrasse dalle insondabili tasche del cappotto. Sotto la falsa apparenza di fragilità che gli dava quell’indumento troppo grande, Corso, con i suoi incisivi da roditore e l’aria mansueta, era duro come la pietra. Aveva dei lineamenti affilati e precisi, spigolosi, che incorniciavano due occhi attenti, sempre pronti a esprimere un’ingenuità pericolosa per chi se ne lasciava sedurre. A volte, soprattutto quando rimaneva tranquillo in silenzio, dava l’impressione di essere più goffo e più lento di quanto fosse in realtà. Apparteneva a quel genere di tipi indifesi a cui gli uomini offrono una sigaretta e i camerieri un bicchierino extra, e che le donne sentono subito il desiderio di adottare. Poi, quando ti rendevi conto di cosa stava accadendo, era troppo tardi per acciuffarlo. Se ne andava al galoppo aggiungendo un’altra tacca al suo coltello.
«Torniamo a Dumas» suggerì, indicando con gli occhiali il manoscritto. «Qualcuno capace di scrivere cinquecento pagine su di lui, dovrebbe avvertire una certa aria di famiglia davanti ai suoi originali… Non le pare?»
Posai una mano sulle pagine protette dalle buste di plastica, con la devozione di un sacerdote verso i paramenti dell’uffizio.
«Mi dispiace deluderla, ma non sento nulla.»
Scoppiammo a ridere tutti e due. Corso aveva una risata caratteristica, quasi a denti stretti: quella di chi non è sicuro che l’interlocutore e lui ridano della stessa cosa. Una risata malevola e distante, con dentro un pizzico di insolenza; di quelle che rimangono a lungo sospese nell’aria, prima di svanire. Anche quando il loro proprietario se n’è andato da un pezzo.
«Una cosa per volta» stabilii. «È suo il manoscritto?»
«Le ho già detto di no. Un cliente lo ha appena acquistato, ed è sorpreso dal fatto che finora nessuno abbia mai sentito parlare di questo capitolo originale e integro dei Tre moschettieri… Desidera un’autenticazione in piena regola, e ci sto lavorando.»
«Mi stupisce che si occupi di faccende di scarsa rilevanza.» Era vero; anch’io avevo sentito parlare di Corso, in passato. «In fin dei conti Dumas, oggigiorno…»
Lasciai la frase sospesa a mezz’aria, sorridendo adeguatamente, con complice amarezza; ma Corso non accettò l’offerta e si mantenne sulla difensiva: «Il mio cliente è anche un amico» puntualizzò in tono neutro. «Si tratta di un favore personale.»
«Capisco, ma non so se potrò esserle utile. Ho visto alcuni originali, e questo capitolo potrebbe essere autentico; ma certificarlo è un’altra cosa. Lei ha bisogno di un buon grafologo… Ne conosco uno eccellente a Parigi: Achille Replinger. Ha una libreria specializzata in autografi e documenti storici vicino a Saint-Germain-des-Prés. È un esperto di autori francesi dell’Ottocento, un uomo piacevolissimo e un mio buon amico.» Indicai una delle cornici appese alla parete. «Quella lettera me l’ha venduta lui anni fa. Carissima, fra l’altro.»
Tirai fuori l’agenda per copiare l’indirizzo, e aggiunsi un mio biglietto da visita per Corso. Lo mise in un consunto portafoglio pieno di biglietti e di carte, poi estrasse dal cappotto un taccuino e una matita ...

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