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Da Twin Peaks a Breaking Bad, come le serie TV hanno cambiato per sempre la televisione

  1. 472 pagine
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Da Twin Peaks a Breaking Bad, come le serie TV hanno cambiato per sempre la televisione

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C'era una volta la tv: vintage e polverosa, deperiva nell'oblio assieme al suo tubo catodico. Poi arrivarono Twin Peaks, X-Files, ER. E dopo di loro I Soprano, The Wire, Buffy, 24: le serie americane dilagarono portando sul piccolo schermo sesso, violenza, antieroi senza rimorsi, attori semisconosciuti, trame articolate: un linguaggio composito e irresistibile che ha cambiato per sempre la televisione e il nostro modo di guardarla. Abbiamo assistito – e partecipato – al più imponente ribaltamento culturale del primo scorcio di millennio, e questo libro ci spiega come, quando, perché. Ma soprattutto chi. Alan Sepinwall ci accompagna infatti dietro le quinte delle produzioni seriali più indimenticabili, ad ascoltare la storia di questa avventura direttamente dalle parole dei suoi protagonisti: dal Tom Fontana di Oz allo Shawn Ryan di The Shield, dall'ormai mitica coppia Abrams/Lindelof di Lost al Matthew Weiner di Mad Men, fino al veterano Vince Gilligan, che con Breaking Bad ci ha consegnato una delle ultime grandi narrazioni televisive del Ventunesimo secolo. Il libro "definitivo", divertente e ricco di aneddoti, sulla spettacolare trasformazione delle serie che hanno stabilito il nuovo "canone letterario" della fiction mondiale.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
ISBN
9788858664353

Capitolo 1

«COSA ERAVAMO? NON IMPORTA»
Oz, un nuovo corso

I Rolling Stones non avrebbero un nome, né un sound, senza Muddy Waters. Le scritte «Clapton is God» non sarebbero comparse sui muri di Londra se Slowhand non avesse prima ascoltato Robert Johnson. E I Soprano non sarebbero arrivati in tv senza Oz.
I Soprano è stato il primo successo commerciale della rivoluzione, ma non la prima serie rivoluzionaria dell’epoca. Questo onore va a Oz, show di ambientazione carceraria che la HBO e Tom Fontana realizzarono quasi per scherzo e che diventò il fondamento per tutto quello che sarebbe venuto dopo.
Fin dagli anni Settanta la HBO affiancava alla trasmissione di film una programmazione originale. C’erano state serie comiche, come Tanner ’88 e il Larry Sanders Show, antologie come The Hitchhiker e Tales from the Crypt e altro ancora, ma «la programmazione originale era un complemento di secondaria importanza; persino il Sanders Show» racconta Chris Albrecht, divenuto presidente della HBO Original Programming nel 1995 (e in seguito CEO della rete, proprio in virtù del suo lavoro di quel periodo). A metà degli anni Novanta, però, Albrecht e il suo capo, Jeff Bewkes, decisero di prendere più sul serio i prodotti scritti apposta per la televisione.
In quel periodo Fontana era impegnato con le riprese di Homicide; sebbene fosse un poliziesco intelligente, i dirigenti della NBC gli facevano pressioni affinché rendesse la serie un po’ meno cervellotica e un po’ più commerciale: a ogni nuova stagione il cast diventava più attraente in senso convenzionale e le conversazioni filosofiche lasciavano il posto a sparatorie, inseguimenti in elicottero e spacciatori cattivi.
Fontana era cresciuto a Buffalo ed era rimasto molto colpito dalle sollevazioni che erano scoppiate nella vicina prigione di Attica nel 1971. Racconta che, mentre stava lavorando a uno show in cui qualcuno veniva mandato in galera un episodio sì e uno no, si disse: «Ragazzi, ogni puntata finisce con un tizio sbattuto dietro le sbarre, poi non si sente più parlare di lui. E se ci facessimo sopra una serie?».
Tentò di piazzarne delle varianti più soft: propose una location in riformatorio, oppure in un «Club Fed» (ovvero un centro detentivo a basso livello di sicurezza per colletti bianchi), ma non suscitò l’interesse dei grandi network. «E allora ho dovuto aspettare che la HBO si decidesse a produrre serie televisive» racconta.
Un giorno Albrecht stava parlando con il dirigente degli studios Rob Kenneally (uno dei pochi interpellati da Fontana che non avevano respinto categoricamente il suo progetto) dell’intenzione della HBO di realizzare serie televisive e accennò di sfuggita al fatto che il network aveva ottenuto un sorprendente successo con i documentari sulla vita in carcere.
«Nell’attimo in cui sentì la parola “carcere”» ricorda Fontana «Rob lasciò la riunione, mi chiamò a New York e disse: “Porta qui le chiappe. Ho qualcuno che farà il tuo stupido show”. Fu un vero e proprio colpo di fortuna. Non fosse stato per Rob, non avrei mai saputo di quell’opportunità.»
Fontana e il produttore esecutivo di Homicide, Barry Levinson, esposero il progetto sul carcere ad Albrecht e alla dirigente della HBO Anne Thomopoulos. Il primo non era sicuro che potesse funzionare, ma rispose: «Vi metto a disposizione un milione di dollari. Girate tutto quello che riuscite».
Levinson e Fontana riuscirono a mettere insieme un pilot di Oz (il titolo è la contrazione del nome del penitenziario fittizio in cui è ambientata la serie, l’Oswald State Penitentiary) di 17 minuti, in cui raccontavano la storia di Dino Ortolani, ucciso da un detenuto rivale che gli dà fuoco.
«Chris mi aveva detto: “Non m’importa che i personaggi siano accattivanti, purché siano interessanti”» ricorda Fontana. «E mi aveva chiesto: “Cos’è che avresti sempre voluto fare in un pilot e non ti è mai stato permesso?”. Io risposi: “Uccidere il protagonista”. E lui: “Mi piace! Procedi!”.»
Nell’ambiente dei grandi network in chiaro bisognava superare uno sbarramento dirigenziale dopo l’altro prima di mandare in onda un prodotto. Alla HBO dell’epoca le cose erano così informali che Albrecht invitò Fontana e Levinson a visionare il pilot di Oz nel suo ufficio.
«Fu la prima e unica volta nella mia carriera in cui arrivai con un nastro o un Dvd e mi sentii dire dal dirigente: “Forza, vediamolo!”» rammenta Fontana. «E io pensai: “Sto per guardarlo con il grande capo. La sua reazione sarà autentica al cento per cento, non potrà nascondersi dietro ricerche di mercato e bla-bla”. Così guardammo il pilot e io mi voltavo di continuo per spiare le sue reazioni. Spero di non averlo fissato troppo platealmente.»
Albrecht rimase molto colpito. «Era il primo prodotto che vedevamo fatto per un canale premium che fosse una vera e propria serie drammatica» racconta. «Ed era del tutto diverso da qualunque altro show ci fosse in tv.» Si decise che Oz sarebbe diventata una serie.
La storia di Ortolani rimase anche nella versione finale del pilot, mentre Fontana incominciò a delineare i personaggi destinati a sopravvivere a Dino tra le mura di Oz. Concepì due figure che rappresentassero sia chi sostiene la valenza punitiva delle prigioni, il direttore Leo Glynn (Ernie Hudson), sia chi crede nello scopo riabilitativo, Tim McManus (Terry Kinney), a capo del braccio sperimentale chiamato Emerald City. Il Paradiso nel doppiaggio italiano. Come personaggio in cui il pubblico potesse identificarsi, Fontana creò Tobias Beecher (Lee Tergesen), avvocato bianco di estrazione borghese. «Beecher era l’abbonato medio della HBO» spiega, rinchiuso a Oz per aver investito una bambina di nove anni mentre guidava in stato di ebbrezza. Gli altri detenuti erano criminali veri: il neonazista Vern Schillinger (J.K. Simmons), che fa di Beecher il suo schiavo marchiandolo con una svastica sulla natica per affermare il proprio dominio; il leader della gang dei neri Jefferson Keane (Leon Robinson); Ryan O’Reily (Dean Winters), un manipolatore alla Iago con la capacità di far fare agli altri il lavoro sporco; Kareem Saïd (Eamonn Walker), integralista musulmano che minaccia una rivolta fin da quando mette piede nel penitenziario; Miguel Alvarez (Kirk Acevedo), giovane teppista che a Oz ritrova il padre e il nonno.
Alcuni degli attori avevano già lavorato con Fontana: Hudson vantava una memorabile partecipazione in A cuore aperto nei panni di un pompiere ferito; mentre Tergesen e Edie Falco (che in Oz interpretava la guardia Diane Whittlesey) erano stati marito e moglie in due episodi di Homicide; altri erano persone con cui Tom aveva sempre desiderato lavorare (come i vincitori dei Tony Award B.D. Wong e Rita Moreno, nei ruoli del cappellano e della suora responsabili dell’assistenza spirituale ai detenuti); altri, infine, erano attori sconosciuti che si erano distinti ai provini.
Adewale Akinnuoye-Agbaje, un nero dotato di un fisico imponente e scultoreo, si presentò ai casting proponendosi per la parte di uno dei «fratelli» del gruppo capeggiato da Jefferson Keane, ma, racconta Fontana, la sua recitazione era tremenda, sebbene dotata di incredibile prestanza e carisma. Tom si mise a chiacchierare con lui e scoprì che in realtà era inglese di origini nigeriane (e quindi molto più disinvolto quando non doveva fingere l’accento americano). Ciò fornì a Tom lo spunto per dare vita al personaggio di Simon Adebisi, spietata forza della natura dal buffo e piccolo cappellino, che si prendeva qualunque cosa volesse (o chiunque) entro le mura della prigione.
Dal punto di vista razziale, il cast di Oz era uno dei più eterogenei mai reclutati per una serie. Persino gli show più progressisti degli anni Ottanta e Novanta tendevano ad avere una rappresentanza solo simbolica delle minoranze. Apparve così insolito, per esempio, che Homicide contenesse una scena in cui alcuni poliziotti afro-americani parlavano tra loro (e non di questioni di razza), che, triste a dirsi, il fatto meritò una menzione speciale della critica televisiva.
«La questione delle varie etnie era uno degli aspetti principali su cui ponevo l’accento quando iniziai a proporre il progetto» riferisce Fontana. «La popolazione del carcere era quella americana, ma le percentuali non erano rappresentative.»
Sapendo che il detenuto medio era anche meno propenso di un detective della Omicidi a confidare i propri sentimenti più intimi, Tom decise di far narrare ogni episodio al carcerato in sedia a rotelle Augustus Hill, interpretato da Harold Perrineau.
«Era un espediente già utilizzato nel teatro greco» spiega l’ideatore della serie. «È la funzione del coro: una voce in seno alla comunità, che si fa avanti ed enuncia i temi, le idee fondamentali. Nel concept originario il narratore doveva essere John Leguizamo, ma lui ci pensò su e decise che preferiva non farlo. Io volevo che quel personaggio appartenesse a una minoranza – un nero o un sudamericano – perché ero convinto che dovesse avere alle spalle un carico di esperienze forti al di là del fatto stesso di trovarsi in prigione.»
Hill, uno dei detenuti sotto la responsabilità di McManus in Paradiso,1 si sarebbe rivolto al pubblico più volte in ciascun episodio, proponendo riflessioni su problematiche universali dell’esperienza carceraria o sulla vita fuori dalle mura di Oz.
«Oz è dove vivo» annuncia Hill a metà del primo episodio. «Oz è dove morirò, dove la maggior parte di noi morirà. Cosa eravamo? Non importa. Cosa siamo? Non importa. Cosa saremo? Non importa… O no?»
«Quel che più mi ha colpito dell’esperienza di Oz» ricorda Carolyn Strauss, dirigente della HBO che divenne il primo luogotenente di Albrecht in quel periodo, «è che allora, rispetto a come vanno le cose oggi, era tutto un: “Vediamo cosa succede. Ingaggiamo questo tizio, facciamo così o cosà. Sperimentiamo con la forma”. Non solo c’era un narratore, ma ogni regista l’avrebbe ripreso in modo diverso. E il personaggio principale sarebbe stato ucciso alla fine della prima puntata! L’atteggiamento era appunto uno “stiamo a vedere”, anziché un “dobbiamo sapere esattamente cosa succederà in ogni momento”. Sembrava di fare teatro sperimentale e credo che ciò desse alle persone un grande senso di libertà. La filosofia era: “Sai che c’è? Proviamo! Non sarà la fine del mondo se qualcosa va storto”.»
Hill Street giorno e notte aveva creato il modello di un drama corale, che rimbalzava da una vicenda all’altra nel corso di uno stesso episodio. Fontana conosceva bene quel modo di procedere fin dai tempi di A cuore aperto e Homicide, ma decise di prenderne le distanze. Gli episodi di Oz raccontavano più storie, sì, ma presentate preferibilmente una alla volta, dall’inizio alla fine: prima O’Reily che complotta, poi sorella Peter Marie che presta assistenza ad Alvarez, poi Schillinger che abusa di Beecher e così via.
Tom Fontana scelse di sperimentare «perché eravamo alla HBO e mi avevano dato carta bianca. In passato avevo scritto per le serie classiche trasmesse dai grandi network e pensai: “Perché non trasformare ogni episodio in una piccola raccolta di racconti?”. Alcune settimane la vicenda di Beecher durava solo cinque minuti, altre invece quindici. Avere la possibilità di farlo in modo diverso a ogni puntata e decidere in che ordine presentare le storie era estremamente liberatorio. Non mi sentivo legato da limiti del tipo: “Devo concludere in quel punto, in modo da poter riprendere dopo lo stacco pubblicitario” oppure: “Non ho coperto quel personaggio nella seconda parte”. Usavo tutto il tempo necessario per raccontare la storia in quell’episodio, senza pormi limiti. Le vecchie regole erano state scardinate e quel modo di lavorare era davvero stimolante».
«In quel periodo chi si occupava dei primi importanti drama e delle comedy HBO» spiega la Strauss «si era fatto le ossa per le produzioni della tv in chiaro. Conoscevano le regole della serialità televisiva, sapevano raccontare storie, avevano un’idea precisa di quali norme mantenere e quali rigettare. E si divertivano un mondo. C’erano grande entusiasmo e fermento e si affrontavano le sfide con un approccio del tutto nuovo.»
Quando Fontana aveva proposto versioni edulcorate di Oz alle reti in chiaro – come lui stesso racconta – si era sentito rispondere: «Oh, no! Sono tutti troppo cattivi. Dove sono gli eroi? Dove sono le vittorie?». Per la HBO la questione era irrilevante. In Oz non ci sono eroi che appaiano tali – persino l’idealista McManus ha moltissime pecche – e i cattivi tendono a vincere, di solito nel modo più cruento e truce. O’Reily e Adebisi si coalizzano per uccidere il capo degli italiani triturandogli vetro nel cibo, finché non muore lentamente per emorragia interna, e quando il figlio dell’uomo va a cercare vendetta, Adebisi lo stupra. Quanto alle vittorie, un raro esempio in puro stile Oz si ha quando Beecher reagisce alle vessazioni di Schillinger: lo colpisce con violenza inaudita nella palestra del carcere, poi lo lega e defeca letteralmente in faccia al suo aguzzino.
Con ogni probabilità, alla NBC, Fontana sarebbe stato licenziato su due piedi, se avesse messo una scena del genere in uno script di Homicide. Chris Albrecht invece non oppose mai particolari obiezioni ai contenuti.
«Chris non solo mi lasciava in pace» conferma Fontana «ma mi incoraggiava a osare. Il messaggio era: “Vai! Esagera e rischia quanto vuoi!”. Non si è mai imposto su aspetti specifici. Però ogni volta che parlavamo della serie aveva letto lo script o visto una registrazione. Mi spronava a correre dei rischi.»
Fontana ricorda che l’unica volta in cui un dirigente della HBO, Carolyn Strauss, si oppose energicamente a un contenuto fu il caso del flashback di un detenuto che aveva sterminato un’intera famiglia, compresi due bambini. La Strauss non contestava il crimine in sé, ma il modo in cui la lunga scena si soffermava insistentemente sul killer che mirava ai due ragazzini. «Decisi di accorciarla» spiega Tom. «Quella fu la sola modifica richiesta in cinque anni… Sarei stato uno stronzo a non accettarla!»
Se Oz fosse stato solo un carosello di brutalità non sarebbe la serie televisiva d’exploitation con il miglior cast di tutti i tempi. La violenza era intrinseca all’ambientazione, ma Fontana mirava ben più in alto. Voleva che gli spettatori si confrontassero con la natura disumanizzante del carcere, e al tempo stesso sfruttassero l’incontro con quei criminali per parlare di razza, dipendenza, sessualità, religione, assistenza agli anziani e qualunque altro tema caldo.
Il set...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Prefazione. È la rivoluzione, bellezza di Carlo Freccero
  5. Dedica
  6. Introduzione. E la pagano pure?
  7. Prologo. «State attenti là fuori» Gli show che hanno aperto la strada
  8. 1 «Cosa eravamo? Non importa» Oz, un nuovo corso
  9. 2 «All Due Respect» I Soprano cambia tutto
  10. 3 «E tutti i pezzi contano» The Wire, il grande romanzo americano per la tv
  11. 4 «Una bugia condivisa» La sboccata poesia di Deadwood
  12. 5 «Io sono un tipo di poliziotto diverso» The Shield porta l’antieroismo ai limiti
  13. 6 «Vuoi sapere un segreto?» La tempesta perfetta di Lost
  14. 7 «She Saved the World. A Lot» Buffy l’ammazzavampiri, ansie adolescenziali con zanne
  15. 8 «Dimmi dov’è la bomba!» 24 fa la guerra al terrore e alla noia
  16. 9 «Così diciamo tutti» Battlestar Galactica, fantascienza per uomini pensanti
  17. 10 «Occhi limpidi e cuore puro…» Friday Night Lights scava in profondità
  18. 11 «È una macchina del tempo» L’AMC scende in campo con Mad Men
  19. 12 «Sono io la minaccia» Breaking Bad, la crisi ha il cattivo che merita
  20. Epilogo. Don’t Stop Believing L’eredità della rivoluzione
  21. Dove sono oggi?
  22. Ringraziamenti