Burattini, streghe e briganti
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Burattini, streghe e briganti

Racconti radiofonici per ragazzi (1929-1932)

  1. 383 pagine
  2. Italian
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Burattini, streghe e briganti

Racconti radiofonici per ragazzi (1929-1932)

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Tra il 1929 e il 1932 Benjamin, convinto sostenitore di un uso socialmente utile dei nuovi media, lesse alle radio di Berlino e Francoforte una serie di "micronarrazioni" rivolte ai "ragazzi fra i dieci e i quindici anni", rivelando un indiscutibile talento affabulatorio e pedagogico e cercando di indurre nei giovani ascoltatori una propria capacità di osservazione critica del mondo. Attraverso i temi e i protagonisti delle narrazioni, scorrono in filigrana temi come il Teatro dei burattini, Caspar Hauser, Il dottor Faust, Le antiche bande di briganti, La scomparsa di Pompei ed Ercolano, e, al tempo stesso, le spinose questioni e i protagonisti del suo tempo: dalle scorribande attraverso Berlino allo sviluppo della tecnica e dell'industria, dal potere oppressivo dello Stato nella Bastiglia al diabolico fascino del ciarlatano Cagliostro-Hitler, alla cupa Caccia alle streghe, prefigurazione di quella caccia al diverso che si scatenerà di là a pochi anni. Il testo è tradotto da Giulio Schiavoni, cui si deve anche una completa ricognizione del pensiero di Benjamin nell'introduzione.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
ISBN
9788858664070

BURATTINI, STREGHE E BRIGANTI

IL DIALETTO BERLINESE*

Dunque, oggi voglio parlare, con voi, della «gran bocca» dei berlinesi. Ebbene sì: la prima cosa che a tutti viene in mente quando si parla di Berlino è proprio la proverbiale grande faccia tosta dei suoi abitanti, la facilità nello «spararle grosse». Il berlinese è il tipo che, a casa sua, fa tutto diverso, meglio e in modo più furbo che da noi: così dicono di lui gli altri tedeschi. Sempre a dar retta a lui, naturalmente. Anche per tale motivo gli altri non amano i berlinesi, o perlomeno così danno a vedere. Non v’è dubbio che è una gran bella cosa avere una capitale cui aver qualcosa da rimproverare.
Ma questa faccenda dei berlinesi che le sparano grosse corrisponde poi davvero alla realtà? Sì e no al medesimo tempo. Tutti voi conoscerete sicuramente chissà quanti aneddoti (e fra poco ve ne racconterò alcuni che magari non avete mai sentito) in cui quella bocca tremenda si spalanca talmente che potrebbe contenere la Porta di Brandeburgo tutta intera. E tuttavia, se si osservano le cose con maggiore attenzione, in proposito ecco affiorare varie incongruenze. Prendiamo ad esempio semplicemente la questione del dialetto, ovvero della lingua che si parla nelle singole città o regioni. Altri gruppi etnici e altre regioni strombazzano a più non posso le loro particolarità linguistiche. Ne vanno estremamente fieri e amano i propri grandi scrittori che se ne sono serviti: quelli che si sono espressi nel «basso tedesco» del Meclemburgo come Reuter, oppure in alemanno come Hebel, o ancora in «svizzero tedesco» come Gotthelf. E a tale riguardo hanno perfettamente ragione. I berlinesi, invece, della loro parlata (il «berlineggiare») non si sono mai inorgogliti. Anzi: a esser sinceri, si sono sempre piuttosto vergognati della propria lingua, perlomeno di fronte alle persone raffinate e a quelli che venivano da altre città (anche se, naturalmente, parlando tra di loro si divertivano ancora di più). Essi si sono presi gioco anche del «berlineggiare», come di qualsiasi altro dialetto. Al riguardo esistono parecchi aneddoti gustosi. Sentite questo, per esempio. Marito e moglie sono a tavola, e lui fa:1 «Wat, heute jibts schon wieder Bohnen, ick eßte sie doch erst jestern» («Ahò, a ridaje co’ ’sti fagioli! L’ho magnati pure ieri!»). Allora la moglie, correggendolo, ribatte: «Man sacht nich, ick eßte, man sacht ich aß» («Nun se dice: “L’ho magnati”, ma: “Li ho mangiati”»). E il marito: «Det mußt du vielleicht von dir sagen, ick brauch det von mir nich zu sagen» («Questo devi dillo magari per te; io nun cjò bbisogno de dillo per me!»)2 Oppure la famosa storiella del padre che sta facendo una passeggiata in campagna insieme al figlio: «Wie heeßt der Schmetterling, Vater» («A papà, me sai di’ che nome cjà quella farfalla?»). Al che il padre ribatte: «Heeßen heeßt nich, heißen heeßt et» («Nun se dice “che nome cjà?”, ma “che nome ha?”»).
E per essere indotti a sostenere la propria lingua anche fuori della propria città i berlinesi dovettero essere incoraggiati. In passato, a dire il vero, ciò non è stato necessario, dato che già un secolo fa alcuni scrittori illustrarono quei tipi berlinesi che sarebbero poi divenuti celebri in tutta la Germania. I personaggi più famosi sono l’apprendista calzolaio, la mercatina, l’oste, il venditore ambulante e soprattutto il fattorino Nante,3 che staziona all’angolo della strada badando solo a chiacchierare. E poi, se avete avuto la ventura di sfogliare vecchie annate di qualche giornale umoristico, vi sarete probabilmente imbattuti almeno una volta nella famosa coppia berlinese del grassone tracagnotto e dello spilungone rinsecchito: due tipi che parlavano di politica e che una volta si chiamavano Kielmeier e Strobelweber, un’altra volta Plumecke e Bohnhammel, un’altra volta ancora Meck e Scherbel e alla fine semplicemente Müller e Schulze. Tipi che hanno messo in piazza le cose più belle di Berlino. E ogni settimana i giornali ne sciorinavano di nuove. Finché non arrivò il 1870, l’anno della fondazione del Reich, quando di colpo i berlinesi vollero darsi delle arie e salire di livello sociale. Allora ci vollero delle personalità di spicco, oggetto di indiscusso rispetto, che infondessero nuovamente in loro il coraggio di attenersi al proprio dialetto. Stranamente, due di loro non sono degli scrittori veri e propri, ma dei pittori. Ed esistono aneddoti straordinari a loro riguardo. Uno dei due, che però sarà sicuramente sconosciuto alla maggior parte di voi, è il vecchio e famoso Max Liebermann, tuttora in vita e temuto per la sua tremenda linguaccia. Comunque sia, da qualche anno a questa parte egli non ha la vita facile, perché deve vedersela con un altro pittore di nome Bondi. Orbene, una volta questi due illustri personaggi se ne stavano seduti al caffè, chiacchierando del più e del meno, quando tutt’a un tratto Liebermann fa a Bondi: «Wissense Bondi, Sie sind ja ’n janz netter Kerl, wenn Se bloß nich so eklije Hände hätten» («Lo sa, Bondi? Lei è proprio ’na persona perbene, se nun cjavesse quelle mani così zozze!»). Al che Bondi, fissando il professor Liebermann, esclama: «Herr Professor, da habense ja recht, aber sehnse, die Hände, die kann ick denn eben in meine Tasche stecken, aber wie machen Sie det mit ihrn Kopp?» («Caro professo’, Lei cjà ragione; ma, come pò vedè, io le mani me le posso tenè in saccoccia; Lei, invece, la Sua capoccia ’ndo la mette?»). L’altro grande berlinese, che molti di voi avranno sicuramente già sentito nominare, è morto non molto tempo fa e si chiama Heinrich Zille. Quando sentiva raccontare una storia particolarmente bella oppure la vedeva svolgersi sotto i propri occhi non si limitava semplicemente a pubblicarla, ma la trasferiva sulla tela, ricavandone un quadro favoloso. E adesso, dopo la sua morte, quelle storielle sono state raccolte in volume insieme ai quadri che le illustrano; potete farvele regalare, e molte di loro vi sono magari già note. O invece non le avete ancora mai sentite. Per esempio questa. Un padre è a tavola insieme ai suoi tre figli. Per pranzo è prevista una minestrina a base di capelli d’angelo. Uno di loro fa: «Oskar, seh mal, wie Vater die Nudeln um die Schnauze bammeln!» («Oscar, ’nvedi come je pènne la pasta dar muso de papà?»). Allora interviene il maggiore, Albert: «Justav, wie kannste denn zu Vater seine Fresse Schnauze sagen!» («Gustav, ma come fai a chiamà “muso” er “grugno” de papà?»). Al che Gustav replica: «Na, wennt sich der Ochse jefallen läßt!» («Beh, si quer bue se lo lascia di’!»). A questo punto però il padre non regge più, si alza e va in cerca del bastone. E i tre marmocchi – Gustav, Albert e Oscar – corrono a nascondersi sotto il letto. Il padre cerca di stanarli, ma non c’è verso; alla fine dice al più piccolo: «Du komm man vor, Oskar, du hast ja nischt jesagt, dir tu ick ja nischt» («Daje, Oscar, vèni fòri! Tu nun hai detto gnente. A te nun te faccio gnente»). Allora da sotto il letto si sente la voce di Oscar che dice: «Dir Aas kenn ick!» («A te, brutta carogna, te conosco bbene!»). E tra poco vi racconterò ancora altre storielle decisamente sfrontate a proposito di alcuni monellacci.
Comunque non dovete pensare che il dialetto berlinese sia una raccolta di barzellette. Invece è una lingua vera e propria, una lingua meravigliosa. C’è persino chi ne ha scritto una grammatica, con tanto di regole: l’ha curata Hans Meyer, direttore della vecchia scuola berlinese del Graues Kloster, e s’intitola Der richtige Berliner in Wörtern und Redensarten (Vocaboli e modi di dire del vero berlinese). In berlinese è possibile esprimersi in modo altrettanto raffinato, spiritoso e delicato che in qualsiasi altra lingua. Solo che, naturalmente, bisogna sapere dove e quando. Il berlinese è una lingua che nasce dal mondo del lavoro. Non si forma tra le mani dello scrittore o dell’uomo di scienza, ma nelle camerate dei soldati e al tavolo dei giocatori di scacchi, sull’autobus e al Monte dei pegni, al Palazzo dello sport e in fabbrica. Il berlinese è la lingua della gente che non ha tempo e che molte volte è costretta a intendersi con un cenno rapido della mano, con un’occhiata o con una mezza parola. E ciò è possibile non a persone che s’incontrano di tanto in tanto nell’ambito della buona società, ma solo a individui che si vedono regolarmente, quotidianamente, in circostanze precise e invariate. Tra gente simile nascono sempre linguaggi gergali, e voi stessi ne avete il migliore esempio nella vostra classe, dato che esiste un linguaggio tutto speciale che si adopera a scuola. Così come esistono anche espressioni in gergo tra gli operai, gli sportivi, i militari, i ladri, e così via. E tutti questi linguaggi contribuiscono, ciascuno a suo modo, a formare il berlinese, dato che proprio a Berlino queste persone si trovano a convivere ammassate tutte insieme, passando con un ritmo sfrenato tra le situazioni più eterogenee e svolgendo i mestieri più disparati. Il dialetto di Berlino è oggi una delle espressioni più belle e più circostanziate di questo ritmo di vita vorticoso.
È naturale, però, che non sia sempre stato così. Ora infatti vi leggerò una storiella berlinese che risale a un’epoca in cui Berlino non era ancora la città di quattro milioni di abitanti, ma soltanto una cittadina di alcune centinaia di migliaia di persone.
Bürstenbinder (trägt seine Bürsten und Besen, ist aber so betrunken, daß er seine Handelsartikel vergessen hat): Neunoogen! Neunoogen! Immer ran, wer Jeld hat!
Erster Schusterjunge: Hör’n Se, Herr Schrubber, wer von die Neunoogen en Paar ißt, der bekehrt sich. (Er verläßt den Betrunkenen und schreit, indem er auf der Straße hin und her rennt) Herrjees, nanu is et noch hübscher! Keen Mensch darf nich mehr aust’t Fenster roochen!
Mehrere Leute: Wat meenst du’ n damit? Ist des wahr. Darf man nich mehr aus’t Fenster roochen? Det wär’ denn doch zu arch?
Erster Schusterjunge (fortrennend): Nee! Man muß aus de Pfeife rochen! – Etsch, etsch!
Eckensteher Brisich (vor dem Museum): Det Haus freut mir, det Haus macht mir Spaß.
Eckensteher Lange: Wie so macht dir det Haus Spaß?
Brisich (ein wenig turkelnd): Wie so es mir Spaß macht? Na, wegen die Adlersch da oben druf!
Lange: Na, wie so machen dir denn die Adlersch Spaß?
Brisich: Weil des königliche Adlersch sind und doch Ecke stehen müssen! Denk’ dir, wenn ick son’n königlicher Adler wäre un da oben uf’t Museum Ecke stehen müßte als Verzierung! Det wüßt’ick woll: wenn mir durschterte, verziert’ick ’ne Weile nich, sondern zöge meine Pulle raus, jenösse Eenen, und schrie runter uf de Leute: «Nehmen Se det jefälligst des Museum nich übel! Ein königlicher Adler erholt sich!».
Il fabbricante di spazzole (porta in spalla le sue spazzole e i suoi scopettini, ma è talmente ubriaco4 che s’è dimenticato dei suoi oggetti): Anguille! Belle anguille! Chi cjà sordi se faccia avanti!
Primo apprendista calzolaio: Me stia bene a senti’, sor Spazzolone! Chi se le magna, se po’ convertì! (Abbandona l’ubriaco e si mette a correre avanti e indietro per la strada gridando): O Gesù; questa è ancora più carina! Nun se pò più fumà dalla finestra!
Parecchie persone tutte insieme: Ma che stai a ddì? Nun se pò più fumà dalla finestra?
Primo apprendista calzolaio (correndo): No! Bisogna fumà dalla pipa! Ah, ah!
Il fattorino Brisich (davanti a un museo): ’Sta casa me piace, me fa ride.
Il fattorino Lange: E perché ’sta casa te fa ride?
Brisich (barcollando): Perché? Beh, per via de quelle aquile lassù.
Lange: E perché te fanno ride le aquile lassù?
Brisich: Perché sò aquile reali, epperò se deonno rimanè in un canto. Pensa un po’, se io fossi n’aquila reale e dovessi rimanè lassù in un canto a fa da decorazzione! Ahò, lo sai che te dico? Si me venisse sete, nun ce starei pe gnente a fà da decorazione, ma prennerei a bottija, me farei un bel bicchierino e direi alla ggente che me vede: «Nun ce fate caso e nun v’arrabbiate cor museo! Pure l’aquile reali se deonno ristorà, no?».5
Tutte le lingue si modificano in fretta, ma la lingua di una grande città si modifica ancora più in fretta di quanto non accada con la lingua che si parla nelle campagne. Adesso state a sentire – per fare un confronto con la storiella che vi ho appena raccontato – la lingua di uno strillone di oggi. Ce ne offre una trascrizione Alfred Döblin, che vi ha parlato di Berlino qualche sabato fa. Lui naturalmente non l’avrà sentita proprio così come l’ha trascritta. Si è soltanto recato chissà quante volte all’Alexanderplatz restando poi ad ascoltare la gente che in quella piazza smercia le proprie cose, e successivamente ha fatto un resoconto traendo il meglio dai discorsi ascoltati.
«Perché il signore elegante di “Berlin West” porta una cravatta e il proletario no? Signori si avvicinino, e anche Lei, signorina, col Suo fidanzato, l’ingresso è gratuito, i ragazzini pagano lo stesso. E perché il proletario non porta una cravatta? Perché non si sa fare il nodo. Allora deve comprarsi un reggicravatta, ma quando l’ha comprato non funziona e non riesce lo stesso a farsi il nodo con quel coso. Questo è tutto un imbroglio che amareggia il popolo e precipita la Germania ancora più in basso, nella miseria, di quanto non ci si trova adesso. Perché, per esempio, nessuno vuol portare queste grandi cravatte col nodo già pronto? Perché nessuno si vuol legare attorno al collo il sacco della spazzatura, né un uomo né una donna; e nemmeno un lattante vorrebbe portarlo, se potesse rispondere. Non c’è niente da ridere, signori, noi non sappiamo che cosa passa nel cervellino d’un bambino. Ah, Dio, quelle care testoline, e quei capelli fini fini, che carini, ma gli alimenti costano, niente da ridere, si va in miseria. Compratevi una cravatta come questa da Tietz oppure da Wertheim, oppure altrove, se non volete comprare in quelle botteghe d’ebrei. Io sono di pura razza ariana.»
E si leva il cappello, capelli biondi, orecchi rossi e sporgenti, occhi allegri da bue. «Non c’è nessun motivo che io faccia la réclame alle grandi ditte. Quelle filano anche senza di me. Compratevi una cravatta come questa che porto io, e pensateci su com’è che al mattino dovete farci il nodo.»
«Signori, chi ha tempo – al giorno d’oggi – alla mattina di farsi la cravatta e non preferisce invece dormire un po’ di più? Abbiamo tutti bisogno di dormire molto, perché dobbiamo lavorare tanto e guadagnare poco. Una cravatta così vi facilita il sonno. Fa concorrenza ai farmacisti, perché chi la compra non ha bisogno di sonnifero e nemmeno di un punch o di qualcos’altro. Dorme come un bambino al petto della mamma, perché sa: domattina niente furie, sul cassettone c’è già pronta la mia cravatta, e non c’è che infilarsela nel colletto. Spendete tanto denaro per tante porcherie. Li avete ben visti gl’imbroglioni l’anno scorso al Coccodrillo; davanti c’erano salami e wurst caldi, e dietro, nella cassa di vetro, s’era messo quel Jolly a farsi crescer i cardi in faccia. Questo l’avete visto tutti… ma venite un po’ più vicini, che così risparmio un po’ la voce, non l’ho assicurata, mi manca ancora la prima rata… come se ne stava nella cassa di vetro quel Jolly, l’avete ben visto. Ma quel che non avete visto è come gli passavano di nascosto la cioccolata. Qui invece comprate merce autentica, niente celluloide, ma gomma, un pezzo venti pfennig, tre per cinquanta pfennig.»6
Qui potete anche voi capire immediatamente quanto utile può essere la parlantina dei berlinesi con la loro «gran bocca» e come qualcuno possa trarne buoni profitti, se per un reggicravatta riesce a far tanto strepito come se dirigesse un intero grande magazzino.
Una lingua del genere si rinnova in ogni momento. Qualsiasi avvenimento, grande o piccolo, vi lascia la sua impronta. Guerra e inflazione, come anche un passaggio dello Zeppelin o l’arrivo di Amanullah o una visita di Gustavo di Ferro. Ci sono anche delle vere e proprie mode linguistiche berlinesi. Forse alcuni di voi ricorderanno ancora la famosa espressione «Bei mir» («Per me», «Per quanto mi riguarda»). Ad esempio quando qualcuno viene abbordato da uno con cui non vuole parlare potrebbe dire: «Bei mir Kaiser Wilhelm-Gedächtniskirche» («Per me, Gedächtniskirche»),7 il che rimanda ai campanili (Türme) della chiesa anzidetta. Ma Türme in tedesco equivale anche a «Fila via!», insomma: «Per quanto mi riguarda, togliti dai piedi!». Oppure, nel caso di un bambino al quale si affida una commissione e a cui si domanda: «Farai proprio come ti ho detto?», la risposta è: «Bei mir Schiefertafel» («Per me, lavagna»), ossia: «Su di me può contare a occhi chiusi».
In base a molti di questi aneddoti avrete già notato che i berlinesi, comunque, non si distinguono soltanto per il loro sballarle grosse. Si può infatti essere ad esempio molto sfrontati ma, al tempo stesso, anche molto maldestri. Comunque i berlinesi (per lo meno quelli che ci sanno fare di più) sanno sempre unire la faccia tosta alla prontezza nel rispondere con furbizia, arguzia e spiritosaggine. Come si suol dire: «non si lasciano fare fessi». In proposito c’è, ad esempio, quella bella storiella del signore che ha un’enorme fretta e che è su di una carrozza a cavalli, la quale naturalmente procede troppo a rilento: «Accidenti, cocchiere! Ma non può proprio andare più in fretta?». Risposta: «Det schon, aber ick kann doch det Ferd nich jut alleene lassen» («Io sì. Ma nun posso mica lassà da solo sto poro cavallo!»). A far le spese dell’umorismo schiettamente berlinese non sono però soltanto gli altri, ma addirittura quelli che fanno lo scherzo. E ciò rende estremamente simpatico e libero il berlinese: lui non si ferma neppure di fronte al proprio dialetto, come dimostrano molte simpatiche storielle. Come ad esempio questa. In un’osteria arriva un signore già piuttosto brillo, il quale chiede: «Kricht man hier Rum?» («Qui se pò avè il rum?»). E l’oste: «Ne, hier setzt man sich» («No, qui ce se sède!»).8
Adesso però, come vi avevo promesso all’inizio, vediamo le «storielle di bambini». Tre ragazzi vanno dal droghiere. Uno di loro chiede: «Forn Jroschen Lakritze» («Vojo dieci centesimi de liquirizia»). Il venditore trascina una lunga scala, si arrampica fino all’ultimo piolo, riempie il sacchetto e ridiscende. Dopo che il primo ragazzo ha pagato, il secondo dice: «Ich mechte ooch forn Jroschen Lakritze!» («Vojo dieci centesimi de liquirizia pure io»). Al che il venditore, infurentito, si rivolge immediatamente al terzo, prima di farsi nuovamente tutti i pioli: «Willste ooch forn Jroschen Lakritze?» («Vòj per caso dieci centesimi de liquirizia pure te?»). «Nee» («No») gli risponde il ragazzo. Allora l’altro si arrampica di nuovo su fino in cima alla scala e ridiscende con il sacchetto pieno. A questo punto si rivolge al terzo: «Und wat willst du, Kleener?» («E tu che vòj, piccoletto?»). Allora quest’ultimo dice: «Ich möchte forn Sechser Lakritze» («Io vojo sei centesimi de liquirizia»). Oppure quest’altra. Un signore incontra un ragazzo per la strada e gli dice: «Ecché? Fumi già alla tua età...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Un micro-narratore accorto e garbato di Giulio Schiavoni
  5. Cronologia della vita e delle opere
  6. Bibliografia
  7. Nota sullo stato dei testi
  8. RACCONTI RADIOFONICI PER RAGAZZI
  9. Appendice