Il mondo che viene
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Il mondo che viene

Sei sfide per il nostro futuro

  1. 632 pagine
  2. Italian
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Il mondo che viene

Sei sfide per il nostro futuro

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"Dopo aver percorso una lunga strada, la civiltà umana è giunta a un bivio. Bisogna scegliere uno dei due sentieri. Entrambi conducono verso l'ignoto. Uno porta alla distruzione dell'equilibrio climatico, all'impoverimento di risorse insostituibili, al degrado di valori esclusivamente umani e alla possibilità che la civiltà come la conosciamo giunga alla fine. L'altro porta al futuro." Da cosa dipende dunque il destino della prima èra davvero globale della storia, la nostra? Secondo l'autore, dalle risposte che sapremo dare a sei grandi questioni: la globalizzazione, con il nuovo rapporto e le tensioni tra capitale, lavoro e mercato; internet e la "mente globale" che collega miliardi di persone; il passaggio di poteri dagli Stati Uniti ai Paesi emergenti ma anche dai sistemi politici ai mercati; il rapido esaurimento delle risorse del pianeta; la rivoluzione delle biotecnologie e della genetica che sta mettendo l'evoluzione nelle mani dell'uomo. E infine, la rottura radicale del rapporto tra gli uomini e gli ecosistemi naturali. Questo saggio illuminante – che si avvale di dati, rapporti e approfondimenti quanto mai precisi e aggiornati – rappresenta il culmine di un lavoro pluriennale volto a indagare, decifrare e presentare quello che i maggiori esperti al mondo ci dicono riguardo al futuro che stiamo creando. Ed è una bussola preziosa, tanto più necessaria in questo momento storico segnato da un pericoloso vuoto di leadership globale, ma anche da ottimismi ingenui e facili allarmismi. Perché, spiega Gore, "abbiamo già attraversato epoche di trasformazioni rivoluzionarie, ma nessuna che fosse così intensa o così carica di pericoli e opportunità come quella che si sta dischiudendo davanti a noi."

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2013
ISBN
9788858662052
Categoria
Sociology

1

Earth Inc.

Le trasformazioni a cui è oggi sottoposta l’economia globale sono le più rapide e le più ampie che si siano mai viste nella storia umana. Noi viviamo nella (e conviviamo con la) «Earth Inc.», l’«Azienda Terra»:* politiche nazionali, strategie regionali e teorie economiche da tempo accettate sono diventate irrilevanti di fronte alle nuove realtà della nostra odierna economia iperconnessa, strettamente integrata, interattiva e rivoluzionata dalla tecnologia.
Oggi molte delle grandi imprese di maggior successo producono beni in «fabbriche virtuali globali», con complesse ragnatele di catene logistiche che le connettono a centinaia di altre aziende in decine di Paesi. Sempre più mercati di beni commerciali – e un numero crescente di servizi che non richiedono un’interazione faccia a faccia – hanno ormai una natura globale; inoltre, percentuali sempre più alte di salariati devono competere non solo con i loro colleghi di altri Paesi, ma anche con macchine intelligenti interconnesse con altre macchine e reti di computer.
La digitalizzazione del lavoro e la drammatica (e relativamente improvvisa) metastasi di quella che un tempo veniva chiamata «automazione» stanno alimentando due enormi cambiamenti simultanei:
1. l’outsourcing – o esternalizzazione – dei lavori dalle economie industriali ai Paesi emergenti e in via di sviluppo, con popolazioni numerose e stipendi più bassi;
2. il robosourcing dei lavori dagli esseri umani a processi meccanizzati, programmi informatici, robot di ogni forma e dimensione e versioni ancora rudimentali di intelligenza artificiale, che di anno in anno migliorano sul piano dell’efficienza, dell’utilità e della potenza.1
Per comprendere al meglio la trasformazione dell’economia globale dobbiamo vederla come un fenomeno emergente, ossia come una realtà in cui l’intero non è soltanto più grande della somma delle sue parti, ma se ne distingue profondamente sotto molteplici, importanti aspetti, rappresentando qualcosa di nuovo: non è solo un insieme più interconnesso di quelle stesse economie nazionali e regionali che interagivano le une con le altre, ma è un’entità del tutto nuova, con dinamiche interne, modelli, impeto e potenzialità che differiscono da ciò a cui il passato ci ha abituati. Certo, ci sono dei limiti ai movimenti transfrontalieri delle persone e i flussi commerciali sono più intensi tra i Paesi più vicini, ma ciò non toglie che l’intera economia globale sia oggi intrecciata molto più saldamente di quanto non sia mai stata.
Nella stessa maniera in cui le tredici colonie americane in Nordamerica emersero come una realtà unificata nell’ultimo quarto del XVIII secolo (e le vecchie città-Stato italiane divennero infine una nazione unificata nella seconda metà dell’Ottocento), il mondo nella sua interezza è oggi emerso come una singola entità economica che sta procedendo in fretta verso una piena integrazione. O, almeno, questa è la realtà nel mondo del commercio e dell’industria, nella comunità scientifica e per quanto riguarda la rapida diffusione della maggior parte delle nuove tecnologie nei principali centri di tutto il mondo.
Nel campo politico e governativo, gli Stati nazionali restano gli attori predominanti. Sul piano psicologico, su quello emotivo e nei modi in cui inquadriamo la nostra identità, la maggior parte di noi pensa e agisce come se stessimo ancora vivendo nel mondo che conoscevamo quando eravamo giovani; di fatto, però, per ciò che concerne le realtà economiche della vita, quel mondo è sempre più lontano.
Questo potente motore del cambiamento globale – talvolta indicato col termine approssimativo e inadeguato di «globalizzazione» – non segna solo la fine di un’epoca storica e l’inizio di un’altra, ma anche l’emergere di una realtà completamente nuova con cui gli uomini dovranno fare i conti.
Anche se in genere sono stati visti come due fenomeni distinti e separati (studiati e discussi da gruppi differenti di economisti, esperti di politiche e di tecnologie), l’outsourcing e il robosourcing sono profondamente intrecciati e rappresentano due aspetti dello stesso megafenomeno.
Lo spostamento tettonico verso il robosourcing e l’outsourcing (reso possibile dalle tecnologie informatiche) viene a cambiare in modo drastico il rapporto fra input di capitale e input di lavoro e indebolisce la capacità dei lavoratori di chiedere stipendi più alti nei Paesi industrializzati.
Le battaglie politiche per i diritti dei lavoratori combattute nella prima metà del XX secolo erano mirate a determinare la distribuzione relativa di reddito da lavoro e capitale nelle imprese dove i dipendenti erano sindacalizzati. Oggi, però, le trasformazioni dettate dalla tecnologia stanno giocando un ruolo sempre più grande nel determinare il futuro del lavoro e il livello dei salari con esso guadagnati. Le argomentazioni che venivano addotte in un contesto a somma zero non sembrano più rilevanti e convincenti quando gli imprenditori hanno due opzioni subito disponibili: a) chiudere tout court la fabbrica o l’azienda per riaprirla in un Paese dove i salari sono più bassi, o b) rimpiazzare la manodopera con robot e sistemi automatizzati.
Dal punto di vista degli operai statunitensi o europei i cui posti di lavoro vengono cancellati, l’impatto dell’automazione e dell’outsourcing è in sostanza lo stesso; dal punto di vista del padrone della fabbrica, in genere sia l’outsourcing sia il robosourcing portano a un aumento della produttività, a prescindere che le nuove tecnologie vengano adottate nel complesso industriale esistente o in qualche Paese straniero.
Spesso per i responsabili delle politiche questo risultato rappresenta un successo, in quanto l’aumento della produttività è considerato come l’equivalente del Sacro Graal del progresso. Tuttavia, questi individui non si rendono in genere conto del pieno impatto di tale processo sull’occupazione nel Paese dove le compagnie la cui produttività aumenta hanno formalmente sede, anche se l’accelerazione di questa tendenza ha ormai raggiunto il punto di mettere in discussione il ruolo fondamentale del lavoro nell’economia del futuro.
Una manifestazione di come la crescente interconnessione dell’economia globale alimenta simultaneamente sia l’outsourcing sia il robosourcing sta nel fatto che quest’ultimo sta prendendo piede in modo sempre più rapido anche nelle economie emergenti e in via di sviluppo, iniziando a cancellare una percentuale via via più alta di quegli stessi posti di lavoro creati di recente grazie all’outsourcing.
C’è una grande differenza fra l’investire del denaro in una fabbrica all’estero per replicare quegli stessi lavori prima svolti in Occidente e il mettere in campo quello che gli economisti iniziano a chiamare «capitale tecnologico», ossia investimenti che non solo incrementano la produttività economica e industriale ma che, col tempo, cancellano un gran numero di posti di lavoro sia nei Paesi dove le fabbriche sorgevano in origine, sia in quelli dove sono state trasferite.
I lavoratori nei Paesi in via di sviluppo traggono un iniziale beneficio dalle nuove opportunità di occupazione, finché il miglioramento dei tenori di vita nazionali, raggiunto col loro contributo, non li spinge a domandare stipendi più alti. A quel punto, si ritrovano a loro volta esposti al rischio di essere rimpiazzati quando i padroni delle fabbriche potranno acquistare – con i nuovi profitti appena incassati grazie all’outsourcing dall’Occidente – robot e processi automatizzati sempre più efficienti ed economici. Un’azienda cinese produttrice di elettronica di consumo, la Foxconn, ha annunciato nel 2012 che introdurrà un milione di nuovi robot nel giro di due anni.2
È emerso un ciclo di feedback positivo tra la crescente integrazione dell’Azienda Terra da un lato e la progressiva introduzione di macchine intelligenti interconnesse dall’altro: in altri termini, entrambe queste tendenze – l’incremento del robosourcing e l’interconnessione dell’economia globale alimentata dal commercio e dagli investimenti – si rinforzano a vicenda.
L’impatto del robosourcing sull’occupazione viene talvolta frainteso come un processo in cui intere categorie di lavoro risultano totalmente cancellate da qualche improvvisa innovazione tecnologica che porta a sostituire le persone con macchine intelligenti interconnesse. Tuttavia, è molto più comune il caso in cui la rete di macchine intelligenti rimpiazza una percentuale significativa dei posti di lavoro facendo crescere al contempo di moltissimo la produttività del piccolo numero di operai rimasti, in quanto questi ultimi possono sfruttare l’efficienza delle macchine da cui ora sono affiancati nel processo produttivo.
A volte ai lavoratori rimasti vengono corrisposte paghe più alte in cambio delle nuove competenze richieste dalle operazioni con queste tecnologie innovative, cosa che rafforza la nostra tendenza a fraintendere l’impatto aggregato dell’odierna accelerazione del robosourcing e a vederla come parte del familiare schema secondo il quale i vecchi lavori vengono eliminati e rimpiazzati da nuove mansioni migliori.
La differenza nella situazione attuale, però, sta nel fatto che oggi stiamo iniziando a inerpicarci sul tratto più ripido di questa curva tecnologica, e l’impatto di questo stesso processo – che sta prendendo piede simultaneamente in molteplici industrie e attività economiche – provoca un forte declino dei livelli di occupazione. Inoltre, molti operai non hanno le competenze necessarie (sul piano dell’aritmetica decimale, per esempio, che è indispensabile per far funzionare molti robot) per svolgere i nuovi lavori.
Negli ultimi anni sono nate nuove compagnie che si propongono di connettere online i lavoratori con quegli impieghi che possono essere svolti con efficienza e convenienza ricorrendo all’outsourcing su Internet.3 Gary Swart, CEO di una di queste aziende di intermediazione di maggior successo, ha dichiarato che le domande stanno crescendo in ogni campo, comprese quelle per «avvocati, contabili, direttori finanziari, persino manager». Il robosourcing, inoltre, inizia ad avere un impatto anche sul giornalismo: Narrative Science, una società d’informazione robotizzata fondata da due direttori dell’Intelligent Information Laboratory della Northwestern University, produce articoli per giornali e riviste usando algoritmi che analizzano dati statistici di eventi sportivi, rapporti finanziari e studi governativi.4 Uno dei cofondatori, Kristian Hammond (che è anche un professore della Medill School of Journalism), mi ha riferito che questo genere di attività è in rapida espansione in molti nuovi campi del giornalismo. Stuart Frankel, CEO dell’azienda, ha affermato che alcuni scrittori che lavorano per la sua compagnia sono diventati «meta-giornalisti» che preparano modelli e cornici in cui poi un algoritmo inserisce i dati: in questo modo «possono scrivere milioni di articoli per volta anziché uno solo».
L’effetto cumulativo della sempre più rapida introduzione di macchine intelligenti e del trasferimento del lavoro nei Paesi dove i salari sono più bassi sta inoltre creando una disuguaglianza molto più marcata di redditi e patrimonio netto, non solo nei Paesi sviluppati ma anche nelle economie emergenti: gli individui che perdono il lavoro si ritrovano con un minor reddito, mentre quelli che traggono beneficio dall’aumento del valore relativo del capitale tecnologico vedono aumentare i loro introiti.

La disuguaglianza economica globale

Mentre questo cambiamento nel valore relativo della tecnologia rispetto al lavoro continua ad accelerare, lo stesso fenomeno si riproporrà anche nei livelli di ineguaglianze. Non si tratta di semplici ipotesi teoriche: si sta verificando già adesso e su larga scala. Mentre il capitale tecnologico diventa sempre più importante in confronto al valore del lavoro, una percentuale via via più alta del reddito derivato dalle attività produttive si sta concentrando nelle mani di un’élite sempre più ristretta, mentre sale il numero delle persone colpite dalla perdita del loro reddito.
Oggi assistiamo a un aumento della concentrazione della ricchezza al vertice della scala dei redditi in quasi tutti i Paesi industriali e nelle nazioni emergenti come Cina e India. L’America Latina costituisce una rara eccezione.5 Globalmente, l’esportazione delle tecnologie ha migliorato – almeno in via temporanea – l’uguaglianza fra i redditi a causa del massiccio trasferimento di posti di lavoro dell’industria (e oggi anche dei servizi) nei Paesi più poveri. Tuttavia, se osserviamo la situazione Stato per Stato, l’ineguaglianza nella distribuzione del reddito – e del patrimonio netto – sta crescendo ancora più velocemente in Cina e in India che non negli Stati Uniti o in Europa. Nel 2012, in trentadue Paesi in via di sviluppo presi in esame dall’ONG internazionale Save the Children le disuguaglianze di reddito hanno toccato il livello più alto degli ultimi vent’anni.6
Nell’ultimo quarto di secolo, il coefficiente di Gini – che misura la disuguaglianza di reddito nazione per nazione su una scala da 0 a 100 (dove 0 corrisponde alla situazione in cui tutti hanno lo stesso reddito e 100 a quella in cui l’intero reddito nazionale è nelle...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. 1. Earth Inc.
  5. 2. La Mente globale
  6. 3. L'equilibrio del potere
  7. 4. Una crescita insostenibile
  8. 5. La reinvenzione della vita e della morte
  9. 6. Il limite
  10. Conclusione
  11. Note
  12. Ringraziamenti
  13. Bibliografia