1914
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Come la luce si spense sul mondo di ieri

  1. 770 pagine
  2. Italian
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Come la luce si spense sul mondo di ieri

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"La luce si sta spegnendo su tutta Europa e non la vedremo più riaccendersi nel corso della nostra vita": sir Edward Grey, segretario di Stato inglese per gli Affari esteri, percepì con chiarezza le dimensioni della crisi che nel giro di pochi giorni, di poche ore, avrebbe portato il continente europeo sull'orlo della catastrofe. Ma lo scoppio del conflitto, nell'agosto 1914, non fu che l'ultima maglia di una lunga catena di eventi, il momento che racchiuse – comprimendole – inquietudini e aspirazioni di un'epoca intera. Insieme ai profondi mutamenti sociali, culturali e tecnologici che trasformarono la natura della civiltà europea tra Ottocento e primo Novecento, l'autrice ripercorre gli antefatti, le tensioni accumulate, le scelte contingenti, spesso dovute a fraintendimenti, debolezze, ripicche tra politici e generali: il risultato è una ricostruzione, capillare e brillante, di un'ora fatale dell'umanità.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2013
ISBN
9788858662519
Argomento
History
Categoria
World History

1

L’Europa nel 1900

Il 14 aprile 1900 il presidente francese Émile Loubet inaugurò l’Esposizione universale di Parigi pronunciando parole piene di fervore sulla giustizia universale e l’amicizia tra i popoli. La stampa francese dell’epoca, in compenso, fu molto meno calorosa. Il cantiere della Grande Esposizione era ancora incompiuto, il sito destinato a ospitare l’evento era una distesa polverosa di edifici in costruzione, e la monumentale statua che troneggiava sul portale d’ingresso, un’elegante figura femminile in abito da sera ispirata all’attrice Sarah Bernhardt, non sembrava piacere a nessuno. Eppure l’Esposizione universale del 1900, visitata da oltre 50 milioni di persone, si sarebbe rivelata un successo addirittura colossale.
Per molti versi fu un’esposizione ripiegata sulle glorie del passato, sia per lo stile che per i contenuti: ciascuna nazione si adoperò per mettere in mostra i suoi tesori nazionali (dipinti, sculture, libri rari, manoscritti) e i prodotti della sua industria. Il padiglione canadese era un tripudio di pellicce, quello finlandese un trionfo del legname, quello portoghese era decorato con ornamenti a tema marittimo. Diversi padiglioni europei richiamavano l’architettura gotica o rinascimentale. Solo la Svizzera si accontentò di uno chalet. La Cina riedificò in suolo francese una parte della Città proibita di Pechino e il Siam (oggi Tailandia) costruì una pagoda. Il padiglione allestito dall’Impero ottomano, già quasi agonizzante ma ancora sterminato, si distingueva per un’accozzaglia di stili che voleva rispecchiare la diversità dei popoli sudditi (cristiani, musulmani ed ebrei) e la pluralità delle etnie che vivevano nei suoi confini, dai Balcani al Medio Oriente arabo passando per la Turchia. Non per nulla quel tripudio di mattonelle e mattoni variopinti, archi moreschi, torrette, finestre gotiche, parti di moschee e reminiscenze del grande Bazar di Costantinopoli (oggi Istanbul), ricordava l’architettura di Santa Sofia, un tempo una delle più sontuose chiese della cristianità, trasformata in una moschea dopo la conquista ottomana.
Il padiglione tedesco era dominato dalla statua di un araldo che soffiava in una tromba, un emblema che ben si addiceva alla più giovane tra le potenze europee. All’interno si poteva ammirare una fedele riproduzione della biblioteca di Federico il Grande, ma i tedeschi ebbero il tatto di non sbandierare le vittorie militari vecchie e nuove, molte delle quali erano state messe a segno a spese della Francia. La facciata ovest, in compenso, alludeva in modo piuttosto esplicito all’incipiente rivalità tra la Germania e la maggiore potenza navale del mondo, la Gran Bretagna: uno dei pannelli raffigurava un mare in tempesta popolato da sirene che sembravano chiamare i naviganti, e il motto, che secondo alcune indiscrezioni era stato dettato dallo stesso imperatore tedesco, Guglielmo II, recitava: «La stella della fortuna invita il coraggioso a salpare le ancore per lanciarsi alla conquista delle onde». Né era quello l’unico segno della fulminea ascesa di una potenza nata solo trent’anni prima, nel 1871: nel Palazzo dell’Elettricità operava una colossale gru di fabbricazione tedesca in grado di sollevare 25 tonnellate.
Il più fedele alleato della Germania, l’Austria-Ungheria, era presente con due diversi padiglioni, uno per ciascuna delle anime di quella che portava il nome di Duplice monarchia. Il padiglione austriaco era un trionfo dell’art nouveau, il nuovo stile decorativo che in quegli anni aveva iniziato a fare furore. Cherubini e delfini di marmo giocavano nelle vasche delle fontane, statue monumentali sorreggevano le scalinate e ogni palmo delle pareti sembrava impreziosito con applicazioni di foglia d’oro, pietre preziose, maschere comiche o tragiche e ghirlande. C’era perfino una grande sala dei ricevimenti riservata agli Asburgo, la casata regnante che da secoli governava il grande impero austroungarico, i cui possedimenti andavano dall’Europa Centrale alle Alpi e all’Adriatico. Erano in mostra opere di artisti e artigiani polacchi, cechi e jugoslavi della costa dalmata, e quelli erano solo alcuni dei popoli soggetti alla Duplice monarchia. Tra il padiglione austriaco e quello ungherese sorgeva una terza costruzione più piccola, il padiglione della piccola Bosnia, che tecnicamente apparteneva ancora all’Impero ottomano, ma dal 1878 era amministrata da funzionari viennesi. Il padiglione bosniaco, decorato con gusto squisito dagli artigiani della capitale Sarajevo, faceva pensare – sono parole della guida Hachette – a una giovane debuttante accompagnata per la prima volta in società dai genitori.1 Genitori, detto a latere, non particolarmente lieti.
1. Negli anni della guerra tra l’Impero britannico e le due repubbliche indipendenti Afrikaaner (o boere) del Sud Africa (1899-1902) l’opinione pubblica mondiale faceva il tifo per gli Afrikaaner. Lord Kitchener fu criticato con particolare asprezza dagli osservatori internazionali per le misure troppo drastiche con le quali aveva cercato di piegare la resistenza boera, dando alle fiamme le fattorie, decimando il bestiame e rinchiudendo donne e bambini in campi di concentramento.
1. Negli anni della guerra tra l’Impero britannico e le due repubbliche indipendenti Afrikaaner (o boere) del Sud Africa (1899-1902) l’opinione pubblica mondiale faceva il tifo per gli Afrikaaner. Lord Kitchener fu criticato con particolare asprezza dagli osservatori internazionali per le misure troppo drastiche con le quali aveva cercato di piegare la resistenza boera, dando alle fiamme le fattorie, decimando il bestiame e rinchiudendo donne e bambini in campi di concentramento.
Il padiglione ungherese era improntato a un fiero nazionalismo. I critici austriaci, infastiditi, osservarono tra i denti che gli esempi di arte popolare ungherese proposti dagli organizzatori erano volgari e troppo variopinti. Tra le attrazioni c’era una ricostruzione della fortezza di Komárom, che nel sedicesimo secolo aveva arginato l’espansione ottomana verso Nord, cioè verso il cuore dell’Europa. In tempi più recenti, nel 1848, la fortezza era stata un bastione dei nazionalisti ungheresi in guerra contro gli Asburgo, ma nel 1849 era nuovamente caduta in mani austriache. Una delle sale era dedicata agli ussari, celebri per il loro valore in battaglia contro gli ottomani. I milioni di cittadini non magiari che vivevano in territorio ungherese, tra cui moltissimi croati e romeni, erano praticamente dimenticati.
L’Italia, che come la Germania era un Paese giovane e veniva considerata una grande potenza più che altro per etichetta diplomatica, aveva costruito un edificio che assomigliava a un’enorme, sontuosa cattedrale. Sulla cupola dorata campeggiava un’aquila gigantesca con le ali dispiegate in segno di trionfo. All’interno si potevano ammirare capolavori del Medioevo e del Rinascimento, eppure le glorie del passato erano un peso per la giovane nazione, economicamente in affanno. La Gran Bretagna aveva adottato l’atteggiamento opposto, prediligendo la sobrietà, anche se l’isola continuava a dominare come in passato il commercio e l’industria del pianeta, alla testa dell’impero più vasto e della Marina militare più potente del mondo. Il contributo britannico alla Grande Esposizione era ospitato in un accogliente maniero di campagna progettato da Edwin Lutyens, un giovane architetto di successo. Edificata in un inconfondibile stile Tudor in legno e muratura, la villetta ospitava soprattutto dipinti inglesi del diciottesimo secolo. Alcuni collezionisti si erano rifiutati di prestare al governo i loro tesori perché nel 1900 i rapporti tra la Gran Bretagna e la Francia, da sempre piuttosto tormentati, si erano fatti particolarmente tesi.2
Alla Russia, Paese alleato della Francia, era riservato il posto d’onore. Gli inestimabili tesori mandati a Parigi dallo zar facevano bella mostra di sé in diverse aree dell’esposizione: si andava da un colossale palazzo costruito nello stile del Cremlino, riservato alla Siberia, a un padiglione riccamente decorato in onore della zarina madre, l’imperatrice Maria. Tra mille altre ricchezze mozzafiato i visitatori potevano ammirare una carta della Francia realizzata con pietre preziose, dono dello zar Nicola II al popolo francese: la favolosa opulenza dei Romanov non poteva che lasciare a bocca aperta. La Francia non aveva un padiglione a parte: dopotutto l’Esposizione stessa era un monumento alla civiltà francese, alla sua potenza, al rigoglio della sua industria e della sua agricoltura, ai possedimenti coloniali francesi. In tutti i padiglioni a tema c’erano fughe di sale ricolme di mirabolanti ritrovati francesi. Secondo la già citata guida Hachette, la sezione francese del Palais des Beaux-Arts era per definizione un modello di buon gusto ed eleganza. Il patrocinio di quell’esposizione era un gesto che parlava da sé, un segno tangibile della rinnovata potenza di un Paese che solo trent’anni prima aveva subito una cocente sconfitta militare nel tentativo di ostacolare l’unificazione della Germania.
Al tempo stesso i francesi decantavano l’Esposizione universale come un «simbolo di armonia e di pace tra i popoli del mondo». A dire il vero la maggior parte dei quaranta Paesi ospiti erano europei, ma erano rappresentati anche gli Stati Uniti, la Cina e quasi tutti gli Stati sudamericani. Buona parte dello spazio venne comunque riservato alle colonie degli Stati europei e all’esibizione dei loro tesori, come per ricordare a tutti da che parte stava il potere. Piante e animali esotici, ricostruzioni di villaggi africani, artigiani venuti dall’Indocina francese, suq in stile nordafricano dove acquistare souvenir: le folle di visitatori avevano di che sgranare gli occhi. «Ballerine dinoccolate eseguono le più atroci contorsioni mai tentate dagli adepti di Tersicore», disapprovava un cronista americano.3 Chi, dopo aver visitato l’Esposizione, poteva dubitare della superiorità della civiltà occidentale e negare che la sua influenza benefica fosse una benedizione per il mondo?
L’Esposizione del 1900 era una degna apoteosi per un secolo iniziato tra rivoluzioni e guerre ma trasformatosi via via in un’epoca di progresso, pace e prosperità. Non che fossero mancate le guerre, certo, ma in confronto alle logoranti ostilità che avevano dilaniato l’Europa nel diciottesimo secolo, oppure alle guerre legate alla Rivoluzione francese e alle campagne napoleoniche che avevano coinvolto quasi tutte le potenze del continente, si era trattato di scaramucce. I conflitti erano quasi sempre stati molto brevi (gli scontri tra la Prussia e l’impero austriaco, per esempio, erano durati poche settimane), oppure si era trattato di guerre coloniali combattute in Paesi lontani. (Gli europei avrebbero fatto meglio a seguire con maggiore attenzione la Guerra civile americana, che non solo si era protratta per quattro lunghi anni, ma aveva mostrato che la tecnologia moderna, l’umile filo spinato e le vanghe stavano spostando il baricentro strategico verso una guerra non più di attacco, ma di difesa.) Intorno alla metà del secolo la Guerra di Crimea aveva coinvolto ben quattro potenze europee, questo è vero, ma era stata il primo e ultimo esempio nel suo genere. Di norma le altre potenze si erano ben guardate dall’intervenire nelle vertenze tra Austria e Prussia, Francia e Prussia o Russia e Turchia. Al contrario, si erano adoperate con ogni mezzo per riportare la pace.
In speciali circostanze, quando era chiaro che i mezzi non-violenti non sarebbero bastati, la guerra era potuta ancora apparire come un sistema ragionevole per ottenere i propri scopi. La Prussia non era disposta a condividere il controllo degli Stati tedeschi con l’Austria, e l’Austria non aveva alcuna intenzione di cedere. La guerra tra i due Paesi aveva sbloccato la situazione, risolvendo il contenzioso in favore della Prussia. La guerra era uno strumento oneroso, ma non proibitivo. Si trattava per lo più di conflitti brevi e di raggio piuttosto contenuto. Due eserciti di combattenti professionisti si affrontavano in campo aperto senza infliggere danni troppo ingenti alla popolazione civile e alle risorse economiche del posto, almeno in confronto alle guerre che l’Europa avrebbe conosciuto più tardi. A quel livello era ancora possibile vincere battaglie decisive mettendo a segno un attacco ben riuscito. Eppure la guerra franco-prussiana del biennio 1870-1871, come oltreoceano la Guerra civile americana, aveva mostrato che qualcosa stava cambiando: con l’introduzione della coscrizione obbligatoria gli eserciti si erano ingigantiti, e la potenza di fuoco delle armi di ultima generazione, più letali e precise che mai, aveva consentito alla Prussia e agli alleati tedeschi di infliggere ai francesi perdite gravissime già nel corso dei primi assalti. Per giunta, la resa della Francia a Sedan non segnò affatto la fine delle ostilità: i francesi presero in mano la situazione e diedero vita a una guerra di popolo. Anche in quel caso, però, presto o tardi era tornata la pace. La Francia e la nuova Germania avevano negoziato e con il passare del tempo i rapporti tra i due Paesi erano tornati più o meno cordiali. Nel 1900, quando fu inaugurata l’Esposizione, la comunità degli uomini di affari di Berlino aveva indirizzato un messaggio cordiale alla Camera di commercio di Parigi, augurando ogni successo a «questa grandiosa impresa, destinata a riavvicinare tra loro le grandi nazioni civili del mondo nel nome della comune industriosità»4. In Germania molti speravano che la grande massa di visitatori tedeschi attesi a Parigi avrebbe contribuito a consolidare i rapporti di intesa tra i due popoli e i due Paesi.
Tutte le nazioni del mondo avevano collaborato alla grande esposizione, giubilava la guida Hachette: «Hanno raccolto a Parigi le loro meraviglie e i loro tesori per consentirci di svelare al mondo arti sconosciute e scoperte ingiustamente ignorate, e per competere con noi con mezzi pacifici nel nome di un Progresso che moltiplica conquiste sempre nuove». Il tema del progresso e quello del futuro erano ovunque, dai prototipi di marciapiedi semoventi al cinema a 360 gradi. In uno dei padiglioni, il Château d’Eau, ricco di cascate, spettacolari getti d’acqua e giochi di luci colorate, il gruppo allegorico al centro di una colossale fontana mostrava l’Umanità in cammino verso l’avvenire che avanzava guidata dal Progresso calpestando una strana coppia di avversari: la Routine e l’Odio.
L’Esposizione era una vetrina per i singoli Paesi, ma anche un monumento alle più recenti conquiste industriali, commerciali, scientifiche, tecnologiche e artistiche della civiltà occidentale nel suo insieme. Come non restare di stucco di fronte alle macchine a raggi X o alla ciclopica Sala delle dinamo che tanto colpì Henry James? Il ritrovato più affascinante di tutti, però, era l’elettricità. Il futurista italiano Giacomo Balla, memore del grande spettacolo, avrebbe chiamato due delle sue figlie Luce ed Elettricità (la terza si chiamava Elica, in omaggio a un altro ritrovato della tecnica moderna che Balla ammirava). Camille Saint-Saëns compose per l’occasione una cantata in onore dell’elettricità, Le Feu céleste, per orchestra, soli e coro, che venne eseguita in un concerto gratuito aperto a tutti. Il Palazzo dell’elettricità era illuminato a giorno da 5000 lampadine, e sulla sommità del tetto, su una biga trainata da un cavallo e un drago, campeggiava la Fata dell’elettricità. Dozzine di palazzi e padiglioni reclamizzavano le più recenti conquiste della società moderna nel campo della meccanica, dell’industria mineraria, metallurgica e chimica, dei trasporti pubblici, dell’igiene e dell’agricoltura.
E non era tutto, anzi! Nel vicino Bois de Boulogne, contestualmente all’Esposizione, si svolgevano le seconde Olimpiadi dell’epoca moderna. Tra gli sport in gara c’erano la scherma (dominata dai francesi), il tennis (trionfo tutto inglese), l’atletica leggera (specialità americana), la corsa in motocicletta e il croquet. In zona Vincennes si potevano ammirare gli ultimi modelli di automobile e assistere a gare di palloni aerostatici. Uno dei primi registi cinematografici della storia, Raoul Grimoin-Sanson, sorvolò la città in mongolfiera per filmare l’evento dall’alto. L’Esposizione, riassumeva la guida Hachette, era «l’esito favoloso, lo stupefacente culmine dell’intero secolo, il più ricco di scoperte e il più rivoluzionario nelle scienze, il secolo che ha trasformato per sempre l’ordine economico dell’Universo».
Alla luce delle successive conquiste del ventesimo secolo, le vanterie e l’autocompiacimento della guida Hachette fanno sorridere, ma nel 1900 gli europei avevano tutti i motivi per sentirsi orgogliosi del recente passato e fiduciosi nel futuro. Nei trent’anni trascorsi dalla guerra del 1870 la produttività e la ricchezza erano cresciute esponenzialmente, la società si era profondamente trasformata, e con essa erano cambiati anche i modi di vita. La qualità del cibo era migliorata, il prezzo era sceso, l’igiene si era fatta più capillare, la medicina aveva compiuto passi da gigante: grazie a tutte quelle innovazioni gli europei vivevano più a lungo ed erano più sani. La popolazione del continente aveva toccato i 400 milioni, crescendo di qualcosa come 100 milioni di abitanti in pochi decenni, ma quella strabiliante crescita demografica venne assimilata senza contraccolpi grazie al vertiginoso aumento della produzione industriale e agricola, senza contare l’afflusso di merci importate da tutto il mondo. (L’emigrazione fungeva da valvola di sicurezza: tra il 1880 e il 1900, 25 milioni di europei partirono per gli Stati Uniti in cerca di nuove opportunità, e altri milioni di emigranti si trasferirono in Australia, in Canada e in Argentina.)
A mano a mano che una popolazione sempre più numerosa abbandonava le campagne in cerca di impieghi migliori nelle fabbriche, nei negozi e negli uffici, le città piccole e grandi crescevano a vista d’occhio. Nel 1789, alla vigilia della Rivoluzione francese, Parigi contava una popolazione di 600.000 abitanti. Nel 1900, l’anno dell’Esposizione, i parigini erano ormai quattro milioni. Budapest, la capitale ungherese, è forse l’esempio più impressionante: nel 1867 contava 280.000 abitanti; allo scoppio della Grande guerra, 933.000. La quota di europei impegnati in attività agricole diminuiva costantemente, mentre in proporzione crescevano il proletariato industriale e la classe media. Gli operai avevano iniziato a organizzarsi, formando associazioni sindacali che sul finire del secolo erano ormai legalmente riconosciute nella maggior parte dei Paesi europei. In Francia il numero degli operai sindacalizzati era quintuplicato solo negli ultimi quindici anni del diciannovesimo secolo, toccando il milione di iscritti nei mesi che precedettero la Grande guerra. L’Esposizione del 1900 rese omaggio all’importanza crescente della classe operaia esponendo prototipi di abitazioni modello per operai e progetti di associazioni dopolavoristiche per il loro sviluppo morale e intellettuale.
Alfred Picard, l’ingegnere al quale fu affidata l’organizzazione dell’Esposizione di Parigi, consigliava ai visitatori di iniziare il loro giro dal Palazzo dell’istruzione e dell’educazione, perché lo studio era il fondamento di qualunque progresso. Il Palazzo presentava modelli di programmi didattici e metodi educativi, dalla scuola materna all’università: quelli in vigore in Francia, naturalmente, ma non solo. Lo stand degli Stati Uniti meritava di essere visitato per farsi un’idea dei curiosi metodi educativi in vigore tra gli americani (sono parole della guida Hachette, che non specificava in che cosa consistesse la loro stranezza). C’erano perfino sezioni speciali dedicate alla formazione tecnica e scientifica per adulti e alle scuole serali. L’economia europea stava cambiando, e i governi, così come i grandi imprenditori, avevano capito che per tenere il passo bisognava poter contare su una popolazione più istruita. Non a caso nell’ultimo scorcio del diciannovesimo secolo l’istruzione obbligatoria e l’alfabetizzazione di base presero piede in tutto il continente. Nell’imminenza della Grande guerra perfino in Russia, da tutti considerata la potenza europea più arretrata, metà della popolazione urbana in età infantile e il 28 per cento dei bambini delle aree rurali studiavano in scuole elementari. L’obiettivo dichiarato era raggiungere il 100 per cento nel 1922.
La diffusione delle biblioteche pubbliche e la voga dell’istruzione per adulti incentivavano la lettura, e le case editrici partirono alla conquista dei nuovi mercati di massa pubblicando fumetti, letteratura popolare, romanzi gialli e libri di avventure, soprattutto western. Negli stessi anni comparvero anche i primi quotidiani di massa, con titoli a effetto su più colonne e abbondanti illustrazioni. Nel 1900 il «Daily Mail» di Londra vendeva qualcosa come un milione di copie. Queste e altre innovazioni contribuirono ad ampliare notevolmente gli orizzonti culturali dei cittadini europei, aiutandoli a sentirsi parte di comunità più ampie di quelle in cui si erano riconosciuti...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Introduzione
  6. 1 L’Europa nel 1900
  7. 2 La «splendid isolation» della Gran Bretagna
  8. 3 «Guai a te, o Paese, che per re hai un ragazzo!» Guglielmo II e la Germania
  9. 4 Weltpolitik. La Germania sulla scena internazionale
  10. 5 La supercorazzata. La competizione navale tra la Gran Bretagna e la Germania
  11. 6 Amicizie improbabili. L’Entente Cordiale tra la Francia e la Gran Bretagna
  12. 7 L’orso e la balena. La Russia e la Gran Bretagna
  13. 8 Lealtà nibelunga. La Duplice Alleanza austro-tedesca
  14. 9 Che cosa avevano in mente? Speranze, paure, idee e presupposti
  15. 10 Chi sognava la pace
  16. 11 Chi pensava alla guerra
  17. 12 Piani di guerra
  18. 13 Le prime crisi internazionali: la Germania, la Francia e il Marocco
  19. 14 La crisi bosniaca. La Russia e l’Austria-Ungheria ai ferri corti nei Balcani
  20. 15 1911, l’anno della discordia. La Crisi di Agadir
  21. 16 Le prime guerre balcaniche
  22. 17 Il grande bivio. L’Europa negli ultimi mesi di pace
  23. 18 L’attentato di Sarajevo
  24. 19 La fine del Concerto europeo. L’Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia
  25. 20 Le luci si spengono. L’Europa nell’ultima settimana di pace
  26. Epilogo
  27. Ringraziamenti
  28. Note
  29. Bibliografia