Oriana Fallaci intervista sé stessa. L'apocalisse
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Oriana Fallaci intervista sé stessa. L'apocalisse

  1. 240 pagine
  2. Italian
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Oriana Fallaci intervista sé stessa. L'apocalisse

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"Scrivere per libertà e disobbedienza": è il monito che ha sempre guidato Oriana Fallaci e che ha ispirato anche questo libro, terzo e ultimo volume della Trilogia iniziata con La Rabbia e l'Orgoglio (2001) e proseguita con La Forza della Ragione (2004). Completando le sue riflessioni sul declino morale e intellettuale della nostra civiltà, la grande scrittrice costruisce una lunga intervista a sé stessa e la arricchisce con uno straordinario Post-Scriptum che si rifà all'Apocalisse dell'evangelista Giovanni. Con la sua scrittura magistrale, potente, provocatoria, la Fallaci ci offre un'accorata testimonianza della sua vita e del suo pensiero: scrive con la consueta schiettezza di terrorismo islamico e della crisi europea, racconta la sua lotta contro il cancro, rimarca principi etici da difendere senza compromessi, colpisce con durissimi fendenti la pavidità della politica e traccia il ritratto senza sconti di un Occidente rassegnato e indifeso, sempre più prossimo al rischio di andare in frantumi.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
ISBN
9788858673386
Oriana Fallaci
Oriana Fallaci intervista sé stessa - L’Apocalisse
Prefazione di Alessandro Cannavò
BUR

Prefazione
di Alessandro Cannavò

Ogni volta che compariva il suo numero sul display, non si riusciva a discernere il piacere dal terrore. «Son l’Oriana!» L’attacco era netto come lo squillo della suoneria. Avrà da berciare contro qualcuno che le ha fatto un (presunto) tremendo torto degno di querela? O magari vuol raccontare qualche episodio buffo, divertente, da condire con imitazioni e commenti corrosivi per poi piegarci in due dalle risate? Poteva essere l’una o l’altra cosa con Oriana, senza un preavviso logico, tirando a sorte. Ma quella mattina dell’autunno 2004 la telefonata era carica del fervore della scrittura. Rintanata nella casa di Greve in Chianti, come quando aveva partorito Un uomo, tra un bicchierino del liquore preferito alla ciliegia, la sigaretta con la cenere penzoloni che minacciava costantemente il foglio appena battuto e la tosse incalzante a ricordarle senza sosta il cancro, lei stava rivedendo l’autointervista, già apparsa in forma ridotta in estate allegata al «Corriere della Sera». «Mi serve un’immagine forte, una metafora, qualcosa a cui legare questa ecatombe… Un’immagine religiosa. Della nostra religione.» Tra gli anni del post Undici Settembre, il 2004 era stato particolarmente doloroso: gli sgozzamenti e le decapitazioni degli ostaggi in Iraq, la strage di Madrid, il massacro dei bambini nella scuola di Beslan, in Caucaso; ma anche il barbaro assassinio ad Amsterdam del regista Theo van Gogh che in un cortometraggio aveva denunciato la sottomissione delle donne nell’Islam mostrando alcune Sure del Corano. Tutto firmato da un fondamentalismo islamico che in questo primo decennio del XXI secolo ha alterato e avvelenato la convivenza dei popoli e che per Oriana è stato il bersaglio della sua ultima battaglia, il “motivo” per vivere più a lungo possibile.
Consultatomi con un collega e amico che mi dava una mano in ricerche d’archivio quando le telefonate arrivavano nel bel mezzo del lavoro di redazione (un aiuto preziosissimo, indispensabile ma del tutto anonimo, guai se Oriana avesse saputo che la “pratica” era passata in mano a uno sconosciuto, sarebbero nate tesi di complotto ed esplose le sfuriate), la richiamai suggerendole di prendere spunto dal libro dell’Apocalisse di Giovanni.
L’idea le piacque, ma fu in un’altra telefonata, dopo aver rinfrescato la lettura dell’opera, che manifestò senza freni il suo entusiasmo. «È fantastico, qui c’è tutto! Il mostro con sette teste e dieci corna non è il terrorismo tentacolare sostenuto anche dalle posizioni ambigue dei pacifisti? E poi, senti: “Tutti si inginocchiarono ai suoi piedi e dissero: ‘Chi potrà mai combattere contro di lui?’… Gli dettero potere su ogni razza, ogni popolo, ogni lingua, ogni nazione…” Ma questa è proprio l’Eurabia che io detesto!»
Da qualche tempo Oriana si dichiarava un’atea cristiana, per ribadire che pur non credendo era come tutti noi intrisa di una cultura che si confronta con la nostra religione, la religione del mondo occidentale. Un dato di fatto che aveva trasformato in un vessillo da sventolare come una Marianna contro l’Islam, da lei ritenuto un monolite di tirannia, oppressione, odio, cultura della morte verso gli infedeli. Una delle cose che la mandavano più in bestia era sentire parlare di Islam moderato («Non esiste!, è la natura del Corano che non lo permette»), così come vedere i governi impegnati a favorire il dialogo con quella parte nel tentativo di formare un’alleanza contro il terrorismo che ha sempre colpito anche i paesi del mondo islamico. L’Apocalisse, il testo più enigmatico, inquietante e visionario delle Sacre Scritture, era un fondamento perfetto per i suoi anatemi, per le sue profezie (le piaceva definirsi una strega, in omaggio all’arcavola che fu bruciata ai tempi dell’Inquisizione. «Io non ci sarò più, ma vedrete cosa succederà e poi direte: aveva ragione la strega…»). Ma per la ricchezza di immagini, di descrizioni, di simboli era anche l’ideale artificio letterario del suo lungo sermone. Uno scrittore di razza come la Fallaci non poteva non rendersene conto. E lo sfruttò con il fiuto e l’abilità di sempre, che non avevano pari.
Questo libro sembra dunque dividersi in due. Ma in realtà l’Apocalisse è la seconda scena di uno stesso copione: l’irrefrenabile e irresistibile Oriana-pensiero su molti fatti del mondo, politici e privati. Il terrorismo islamico è certamente la spina dorsale del lungo discorso, l’Alieno della nostra società su cui trasferire l’odio e la voglia di combattere che lei ha sempre nutrito verso il suo Alieno personale. Ma attorno ruotano e si intersecano con stupefacente naturalezza la lotta partigiana e i bambini mai avuti, Berlinguer e l’omosessualità (bellissimo il dialogo con Pasolini), l’ingresso della Turchia in Europa e il tema della morte. Con una scrittura magistrale, potente, ironica, incantatrice, che esalta i principi etici da difendere senza compromessi, rende giganti i personaggi che descrive ma allo stesso tempo fa inghiottire le posizioni provocatorie, i giudizi troppo severi e forse ingiusti, le conclusioni talvolta inaccettabili. È l’inconfondibile stile-Fallaci: tensione e forza di un dialogo in diretta, in realtà frutto di un’estenuante guerra personale con il foglio di carta e i tasti della sua Lettera 22, retaggi di un mondo pre-computer che non avrebbe mai potuto abbandonare, al pari del tabacco.
Ho avuto l’onore e il privilegio di stare accanto a Oriana in molte occasioni di lavoro legate ai suoi articoli sul «Corriere della Sera» (a incominciare da «La Rabbia e l’Orgoglio» con il quale dopo il crollo delle Torri Gemelle uscì in modo clamoroso da un silenzio decennale) e ai libri che ne seguirono per la Rizzoli. A New York, ogni mattina che varcavo il cancelletto nero della casa al 222 della 61esima e battevo i tre colpi concordati alla porta (se no, lei non avrebbe dato alcun segno di presenza), il cuore pulsava in gola. Con che umore avremmo cominciato una giornata di lavoro che si sarebbe probabilmente protratta fino a notte fonda? E in che condizioni fisiche sarebbe stata? Lei scrutava, apriva e ti lasciava sull’uscio, magari senza salutarti: subito risaliva velocemente, a dispetto della salute precaria, le ripide scale che portavano alla cucina (dopo i primi scritti seguiti all’Undici Settembre, lo studio al piano terreno che dava sulla strada lo aveva lasciato per precauzione su consiglio della polizia). A volte già imprecando, più spesso lamentandosi di come stesse male e che non avesse dormito la notte. Erano momenti di imbarazzo: la solidarietà per le sue pene sarebbe potuta apparire ai suoi occhi una detestabile compassione; la sdrammatizzazione, una deprecabile indifferenza. In effetti, soprattutto in quel 2004 che l’aveva vista lavorare anche per il libro La Forza della Ragione, all’inizio della giornata Oriana era uno straccio e ti veniva voglia di dirle: basta, fermati, prenditi un po’ di riposo. L’avresti portata tu dal medico che lei spesso ignorava perché non aveva tempo da rubare al lavoro. Ma piano piano lo scenario cambiava: sparivano i dolori, non c’erano più angosce. Lo scrivere diventava unico protagonista. E lei miracolosamente si riprendeva, acquistava forza, passione, rabbia. Veniva maliziosamente il sospetto che prima avesse esagerato nella sofferenza, che tutto ciò fosse parte di una rappresentazione teatrale.
Sul tavolo aveva un armamentario di almeno tre dizionari e di diversi bianchetti, utile per forgiare, limare, cesellare. Per far risplendere una prosa ricca e semplice allo stesso tempo, sempre imprevedibile, in cerca costante del ritmo e del sentimento. Che lezione impareggiabile quel non accontentarsi mai di un termine che non la soddisfaceva in pieno, quel cercare magari anche per ore un verbo più efficace, più incisivo, più cattivo; quel tornare e ritornare sulla punteggiatura (punto, punto e virgola, puntolini, punto esclamativo, interrogativo, esclamativo…). Che commozione sentirla leggere poi il testo a voce alta con una cadenza metrica in modo da verificarne la musicalità: una ricerca della bellezza appartenente ad altri tempi. Ogni sera, alla fine di questo continuo, estenuante braccio di ferro con la lingua e la sintassi italiane di cui ero testimone esclusivo, mi chiedevo: quanto di un tale prezioso insegnamento riuscirò a trasferire nel mio lavoro sul quotidiano, quanto saprò trasmetterne alle nuove generazioni? L’assistere a questo processo creativo vissuto come un rito, dopo essere stato rapito come tanti lettori della mia età dai suoi libri e dai suoi reportage su «L’Europeo» degli anni Settanta, mi ha fatto capire che l’essenza del personaggio Fallaci da tramandare ai posteri (quell’insieme di anticonformismo, coraggio, inflessibilità etica, ma anche di atteggiamenti sprezzanti, vanità divistiche, posizioni provocatorie ed estreme, ego smisurato) è tutta lì, nella sua scrittura.
Chiaro che un’intervista a Oriana Fallaci, non potesse che essere un’autointervista. La donna che con le sue domande ha messo sotto torchio i potenti della Terra («Ho agito come un tarlo nella storia»), facendo di un genere giornalistico un copyright letterario, dice a un certo punto in questo libro che le interviste «le odia, non le trova giuste». Non avrebbe mai accettato un confronto di pari grado, accolto domande insidiose, non si sarebbe mai fidata della trasposizione delle sue parole e avrebbe preteso una revisione totale del testo. Dopo l’Undici Settembre, molti noti giornalisti italiani e stranieri hanno tentato un faccia a faccia con lei ma l’operazione alla fine è sempre risultata “tecnicamente” impossibile. A chi era stato ammesso nella sua casa, Oriana aveva comunque regalato straordinari racconti, siparietti umoristici e umorali, lezioni di professionalità. Non era, però, solo questione di egocentrismo: il pensiero della Fallaci coincide con la sua scrittura. Togliergliela, sarebbe stato sminuire e dunque offendere la sua grandezza.
Il libro si apre con una lunga dedica ai morti ammazzati dal terrorismo islamico. Lei teneva una cartella aggiornata del post Undici Settembre. Un freddo conteggio, che qui arriva all’autunno del 2004 (e dunque oggi molto lontano), si trasforma in un crescendo di indignazione e di dolore e riesce a far nascere nel lettore un senso di colpa per aver rimosso dalla mente nomi scalzati da quelli di vittime più recenti. Il culmine è la descrizione della decapitazione di Paul Johnson, cruda eppure nobile come la Decollazione di san Giovanni Battista del Caravaggio.
Poi arrivano i fendenti ai politici italiani e stranieri colpevoli agli occhi della Fallaci di non saper difendere l’Europa che lei prevede del tutto islamizzata già nel 2017 (forse paradossalmente avrebbe dato ragione al detestato Gheddafi, uno dei personaggi finiti sotto il torchio di Oriana, che si diverte a usare l’argomento per aprire e chiudere il rubinetto dell’immigrazione clandestina). Il tono riservato ai potenti è spesso canzonatorio, di scherno, l’immagine è talvolta vignettistica, rafforzata da nomignoli (tutto molto toscano): la classe politica ne esce come una sorta di combriccola di omuncoli alle prese con il furto della marmellata. Ma poi Oriana scova il coraggioso editoriale del saudita Abdel Rahman al-Rashed sul quotidiano «Asharq al-Awsat» fortemente autocritico nei confronti degli ambigui sceicchi e sfoggia il registro retorico: «Se non fossi bersaglio anch’io, gli chiederei l’onore di assumermi come guardia del corpo».
A un certo punto confessa che vorrebbe cambiare la cittadinanza, lasciare non solo l’Italia ma anche l’America (chissà quali anatemi avrebbe scagliato contro il via libera di Obama alla costruzione di una moschea nell’area di Ground Zero). E qui comincia un intermezzo spassoso alla ricerca di una nuova patria che la porta a considerare, dopo un lungo peregrinare, il regno di Taufaahau Tupon IV nelle isole Tonga. Ma poi legge il testo della nuova Costituzione europea che elimina i riferimenti alle radici cristiane del Continente e allora rimonta la rabbia: fare le valigie e andarsene sarebbe vigliacco… «Continuerò a combattere qualunque sia il prezzo da pagare.»
L’autointervista è una sceneggiatura che si muove senza sosta tra passato e presente. Confessa Oriana nel libro una certa attrazione per il misterioso personaggio di Bin Laden, per l’eleganza e la pacatezza usate nei messaggi video che terrorizzavano l’Occidente. Il “nazi-islamista”, insomma, non ha l’isteria di Hitler, lo spirito tronfio di Mussolini. Tutt’altro stile rispetto al “viscido e corrotto” Arafat, il personaggio, tra quelli incontrati, che lei disprezzava di più. Nei mesi seguenti all’Undici Settembre Oriana accarezzava il sogno di trovarsi di fronte al signore del Male, arrendendosi per qualche momento alla nostalgia dei tempi in cui era stata l’intervistatrice più famosa e temuta al mondo dai potenti, la donna che aveva messo con le spalle al muro Kissinger e Khomeini.
Oriana riporta i dubbi di un lettore: «Alla luce della sua analisi (che condivido) non sappiamo a chi affidare la nostra delega per un giusto impegno dell’Occidente. Che fare, dunque? Astenerci dal voto? Candidarci in prima persona rinunciando al nostro mestiere?… Cosa posso fare io? Pagina dopo pagina ho cercato la Sua risposta: e non l’ho trovata». Oriana confessa che la risposta non ce l’ha.
Non sarebbe stato nemmeno giusto chiederle soluzioni che appartengono al mondo reale, quello della politica e del compromesso. Il compito di Oriana (il compito di ogni scrittore) era di smuovere le coscienze e lei lo faceva in una maniera inconfondibile, ammaliante e brutale. Non occorre sposare le sue idee, basta leggerle.
Della morte, che l’avrebbe portata via meno di due anni dopo, in questo libro (l’ultimo da lei scritto) dà una definizione incontestabile, per chi non è credente, nella sua cruda verità: «La morte è uno spreco». Ecco dunque la fame e l’ansia di scrivere, crescenti e poi inarrestabili, la corsa contro il tempo man mano che le sue condizioni di salute peggioravano. «Morirò come Emily Brontë. Lei morì in piedi, sbucciando patate. E invece di cadere, restò ritta come un cipresso…» Oriana ebbe un destino diverso ma ritta come un cipresso appare nella vignetta in cui si ritrasse, lei che era anche un’abile disegnatrice, di spalle, davanti a una gigantesca tastiera. In alto, alcune parole con la sua firma: «Scrivere per libertà e disobbedienza». Il più bell’epitaffio.
settembre 2010

ORIANA FALLACI INTERVISTA SÉ STESSA

AI LETTORI

Tutti i giorni l’elenco delle persone rapite poi decapitate o sgozzate o per loro fortuna freddate soltanto col colpo alla nuca si allunga, e dedicargli un libro diventa sempre più difficile. Perché, mentre il libro va in stampa, altre vengono rapite poi decapitate o sgozzate eccetera. E quando giunge in mano al lettore, l’elenco risulta incompleto. «La Forza della Ragione» uscì con la dedica ai morti di Madrid e due mesi dopo dovetti estenderla a Nick Berg, a Paul Johnson, a Kim Sun, i due americani e il sudcoreano che perpetuando il rito inaugurato col giornalista Daniel Pearl i macellai di Allah avevano decapitato col coltello a sega. Dovetti estenderla anche a Fabrizio Quattrocchi e al cuoco Antonio Amato e al marò Matteo Vanzan, cioè agli italiani ammazzati in nome del Dio-Misericordioso-e-Iracondo. E credevo che per un po’ di tempo questo bastasse. Invece due settimane dopo l’infernale mattanza ricominciò. Compresi che per dare l’elenco completo avrei dovuto aggiornare la dedica a ogni edizione, cosa impossibile, e dovetti fermarmi lì.
Accadrà anche stavolta, non illuderti. E in tale consapevolezza ora dedico quest’ultimo libro della mia piccola trilogia alle creature che dallo scorso giugno a oggi, novembre 2004, i macellai di Allah hanno ucciso come nei sacrifici umani con cui i barbari dell’antichità rendevano omaggio ai loro dèi assetati di sangue. Unica differenza, il fatto che dei sacrifici umani celebrati nell’antichità non esiste un filmato. Per immaginarli bisogna affidarsi all’archeologia. Oggi, invece, il filmato c’è. Quasi sempre. Almeno in parte viene regolarmente trasmesso da ciò che chiamo il Ministero Informazioni di Al Qaida cioè dal canale televisivo Al Jazeera. Per intero, dai siti Internet che spronano alla Guerra Santa. E in ogni caso chiunque può comprarlo al mercato di Bagdad dove i video dell’orrore e del macabro inventato dal terrorismo islamico sono veri best-seller. A una sola bancarella, seicentocinquanta copie in dodici ore. Dettaglio dal quale deduci che nelle buone famiglie della capitale irachena il divertimento preferito è godersi lo spettacolo d’un uomo bendato a cui in nome del Dio Misericordioso e Iracondo i boia mascherati nonché incappucciati col kaffiah leggono la sentenza di morte poi tagliano la gola o mozzano la testa col coltello a sega. E tanto meglio se prima che il coltello a sega recida le corde vocali la vittima si raccomanda, si dispera, grida come Kim Sun: «Non voglio morire. Vi prego, non fatelo, non voglio morire». Il video di Quattrocchi che muore con la dignità d’un eroe risorgimentale, infatti, non è mai andato in commercio. I siti che spronano alla Guerra Santa non l’hanno mai diffuso. Al Jazeera non l’ha mai trasmesso e rifiuta perfino di consegnarlo alle nostre autorità. (Ma è solo per evitare che i «resistenti» ci facciano una brutta figura e che invece d’eccitarsi i loro ammiratori si vergognino, nel caso di Quattrocchi, o perché nel nastro c’è qualcuno che non si deve vedere? Un collaborazionista no-global, ad esempio. Oppure un insospettato e insospettabile Al Qaida che inserito nella nostra società, regolare Permesso di Soggiorno e regolare Contratto di Lavoro, dice d’appartenere all’Islam moderato però fa la spola tra Roma e Bagdad).
Il nuovo elenco inizia dunque con l’americano che l’altra volta non feci in tempo a citare: il diciannovenne Marine Keith Matthew Maupin, freddato col colpo alla nuca il 28 giugno 2004. Prosegue con due bulgari: il camionista Gheorghi Lazov decapitato il 13 luglio e il suo collega Ivailo Kepov fucilato il 14 luglio. Continua con due pakistani: il tecnico Azad Hussein Khan sgozzato il 26 luglio e il suo autista Sajid Naeem freddato il medesimo giorno. Procede col camionista turco Murat Yuce sgozzato il 2 agosto e col suo collega Osman Alisan decapitato il 5 agosto. (I camionisti sono ostaggi facili perché si catturano improvvisando un falso posto di blocco). Va avanti col pubblicista italiano Enzo Baldoni, assassinato non si sa come e non si sa quando ma sembra il 26 agosto a botte e a revolverate mentre tentava di ribellarsi. Include i dodici nepalesi massacrati il 31 agosto perché erano andati in Iraq per guadagnare un dinaro pulendo i cessi altrui. I dodici figli del popolo (tutti buddisti) che nel video non chinano mai il capo. Non si disperano, non implorano, attendono l’esecuzione con orgogliosa serenità. E che le nostre televisioni hanno liquidato con qualche immagine frettolosa. I nostri giornali, senza curarsi di fornirne i nomi. Ma io li ho cercati. Li ho trovati, ed eccoli. Quello decapitato si chiamava Lalan Singh Koiri. Quelli trafitti dalle mitragliate mentre stavano bocconi per terra si chiamavano Budan Shah, Ramesh Khada, Mangal Limbu, Prakash Adhikari, Sanajana e Manoi Khumar Thakur (questi due, fratelli), Rajendra e Gyanendra Kumat Shresta (anche questi due, fratelli), Jhok e Jit e Mangal Bahadur Thapa (questi tre, cugini). Età, tra i ventidue e i ventinove anni.
Include anche i centocinquanta bambini e i centonovantanove adulti (per lo più maestri e maestre e genitori) che tra la mattina dell’1 settembre e l’alba del 3 settembre i “guerriglieri” ceceni guidati da Abdullah Shamil Abu Idris già Shamil Basayev sterminarono con l’aiuto di tre arabi e due donne nella scuola di Beslan. Quei bambini che per due giorni e due notti erano rimasti a fissar disperati gli ordigni esplosivi e i kalashnikov puntati contro di loro. Che al caldo feroce e alla fame e alla sete eran sopravvissuti bevendo la propria urina. Che quando scappavano scalzi e ignudi dalla palestra semicrollata sembravano uccellini volati via da un albero su cui è piombato uno stormo di avvoltoi. Infatti, mentre scappavano, gli avvoltoi con la barba gli sparavano addosso come se fossero stati a caccia di fringuelli. (Le ragazzine, invece, le avevano uccise in un cesso dopo averle violentate una a una. Questi animali i cui imam cianciano con tanto fervore di etica e pudore e virtù). Include anche l’autista egiziano Nasser Juma, decapitato il 5 settembre quale presunta spia. Include anche i tre curdi decapitati il 19 settembre quali apostati e traditori. (Tre militi ignoti di cui si sa soltanto che appartenevano al Partito D...

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