I sette peccati di Hollywood
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I sette peccati di Hollywood

  1. 240 pagine
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I sette peccati di Hollywood

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È il 9 gennaio 1956 quando Oriana Fallaci, inviata de "L'Europeo", giunge per la prima volta a Hollywood per comprenderne i meccanismi nascosti e raccontare senza filtri il mondo del cinema e i suoi segreti. Negli anni seguenti Oriana torna nuovamente negli Stati Uniti, va a visitare le dimore degli attori, entra negli studios e partecipa a feste esclusive, illuminando ipocrisie, ambizioni e rimpianti delle star in interviste appassionate e franche. Seguendo il filo dei sette peccati capitali, la Fallaci conduce la sua inchiesta con ironia e profonda comprensione umana, consapevole che, dietro la facciata, "la storia di Hollywood è tutta qui. Vi hanno sempre dominato i più energici, i più aggressivi, i più fortunati, quelli che sono spinti da un'avidità molto forte di 'fare' e di guadagnare. E ciò impedisce a Hollywood di finire. A ogni crisi, rinasce: la ragazza-platino, il sistema nuovo di produzione, lo schermo gigante, la medicina dei vincitori. E costoro, rimettendo in moto questa pazzesca macchina di illusioni e di quattrini, non fanno che mantenere Hollywood come è sempre stata: coi suoi miti e i suoi peccati… A Hollywood, non si muore mai".

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
ISBN
9788858673904
CONCLUSIONE

Capitolo primo

Tutti, a Hollywood, mi domandavano se fossi stata a parlare col re perché gli uomini che fanno la storia di Hollywood, dicevano, non sono i divi o i tipi come Elvis Presley, ma gli uomini che assomigliano al re. Stupiti che il colloquio non fosse ancora avvenuto, mi domandavano quante volte avessi visto I Dieci Comandamenti, lo spettacolo per cui da due anni l’America intera impazzisce. Indignati che non sapessi nulla del film, mi voltavano bruscamente le spalle. Allora, una mattina, chiesi di parlare col re.
Il re fu contento e rispose attraverso un funzionario che mi avrebbe ricevuto, l’indomani alle due e mezzo, nel suo quartier generale. Il funzionario era un giovanotto pallido ed eccitato: mi portò la notizia aggiungendo, «per il mio bene», molti consigli. Anzitutto mi raccomandò di arrivare con mezz’ora di anticipo: il re non poteva aspettare. Poi mi ordinò di abbigliarmi severamente, come si conviene a un incontro solenne. Infine mi disse di non preparare domande impudenti. Fu così che, vestita di nero, priva di trucco, e vagamente impaurita, mi recai al quartier generale del re che si trova al numero 5451 di Marathon Street, dentro le mura della Paramount.
La strada per arrivare al re è lunga e difficile. Il primo problema consiste nel superare l’entrata principale degli studios dove le pareti sono ancora coperte dai fotogrammi de I Dieci Comandamenti, e un poliziotto accigliato come quelli che interrogano gli stranieri sospetti a Ellis Island rivolge una quantità di domande indiscrete. Il mio poliziotto era particolarmente cattivo. Volle sapere come mi chiamavo, quanti anni avevo, da dove venivo, che cosa volevo. Mi fece aspettare moltissimo, telefonò a tre o quattro persone per controllare se ero davvero attesa dal re e, soltanto dopo avermi fatto sentire colpevole di reati nient’affatto commessi, mi permise di salire fino all’ufficio del signor Schellhorn, uno coi baffi che si occupa di pubblicità.
Il signor Schellhorn era molto cordiale. Senza togliere i piedi dal tavolo mi spiegò che I Dieci Comandamenti era il film più importante della storia del cinema e mi sentii subito un poco nervosa perché non l’avevo visto. Il signor Schellhorn mi pregò di passare nell’ufficio di Rose Goldstein che mi avrebbe accompagnata dalla persona che mi avrebbe accompagnata dal re.
Bionda e gentile, Rose Goldstein soffriva per il caldo che d’estate a Hollywood provoca molti morti per asfissia e colpi di sole, e non poteva far troppi discorsi. Si limitò a dire: «Che uomo! Che film!» e questa frase mi rese nervosa ancor di più: infatti neppure a lei mi riuscì di confessare che non avevo visto quel capolavoro. In silenzio scendemmo le scale. Attraversammo i viali della Paramount, dove ogni poliziotto mi fissava con occhi nemici chiedendo a Rose Goldstein chi ero e che cosa volevo. Poi ci dirigemmo al quartier generale del re, un casotto staccato dal grande edificio della Paramount, pur facendo parte della Paramount. Nel corridoio di questo casotto, tappezzato con i fotogrammi dei film girati dal re in quarantacinque anni di regno, mi aspettava Ann Del Valle, funzionaria del re.
Ann Del Valle è simpatica e sbrigativa. Telefonò subito a una ragazza che telefonò a un’altra ragazza per informare la segreteria del re che ci consideravamo a sua disposizione. Mi offrì una coca-cola molto ghiacciata. Mi chiese se fossi emozionata all’idea di incontrarmi col re. E mi domandò, inesorabile, un giudizio sul film. Risposi inghiottendo la coca-cola che lo consideravo un ottimo film, senza dubbio il film migliore fatto dal re. Il che mi rese definitivamente nervosa. Come avrei fatto per dire al re la menzogna? Forse era meglio andare a vedere questo dannatissimo film e poi parlare col re. Mi alzai per fuggire. In quel momento la segretaria del re chiamò un’altra segretaria che chiamò Rose Goldstein che chiamò Ann Del Valle e così sapemmo, senza tanta burocrazia, che il re ci aspettava.
Seduto a un tavolo ingombro di fogli dattiloscritti, di libri, di matite, spade egiziane, crocifissi, inghiottito in un bosco di bandiere, diplomi, manifesti, onorificenze, immagini bibliche e ritratti di santi e di faraoni, il re pregava. Stando sull’uscio, si poteva vedere soltanto il suo cranio lucido e abbronzato, con due ciuffetti bianchi alle tempie, come le alucce di un angelo, le spalle curve, le mani minuscole che sfogliavano, con cauta dolcezza, le pagine dell’Antico Testamento. Un brusio leggero gli usciva dalle invisibili labbra. Leggeva un capitolo della Genesi tradotto in inglese: «And behold the glory of the Lord was upon Moses so that Moses stood in the presence of God and talked to Him face to face. And the Lord God said unto Moses…».
Ann Del Valle e Rose Goldstein stavano immobili, imponendomi cogli occhi di tacere.
«Ma» dissi.
«Sst!» fece Ann, in un soffio.
«Sst!» fece Rose mostrandomi i denti.
Il re non sembrava avvertire la nostra presenza. Poi, improvvisamente, si alzò. Ci aveva visto benissimo, nonostante pregasse. Con agile balzo ci venne davanti, disse: «Hello!», sorrise, e io potei finalmente vedere quel potente semidio che chiamano il re, e anche Mister Hollywood, Mister Cinematografo, Mister Padrone, il Genio, il Grande, il Venerabile Gentiluomo, il Rispettabile Vecchio o, più semplicemente, Cecil Blount De Mille.
Era un omino curvo, vestito di blu. Il volto cotto dal sole, col gran naso nobile e le guance cadenti, aveva una espressione buona e ironica. Gli occhietti azzurri, protetti da occhiali montati secondo la moda di cinquant’anni fa, scrutavano con indulgente attenzione. Avevano l’aria di vedere ogni cosa, anche troppo: ma un’immensa dolcezza emanava da lui.
«Cara,» disse «cara! Come siamo felici di averla fra noi!» Poi mi supplicò di sedere perché non mi stancassi. Con affetto mi chiese notizie dei miei familiari come se li conoscesse benissimo e fosse ansioso di rivederli. Con rimpianto si congratulò per la mia «insolente giovinezza». Poi pregò Rose e Ann di accomodarsi sul divano di fronte e consegnò a ciascuna di loro un pacco di fogli e una matita. Il compito di Ann e di Rose era quello di scrivere quanto avrei chiesto e quel che il re avrebbe risposto: per evitare in seguito contestazioni e querele. Non ebbero molto da scrivere. Prima che aprissi bocca, De Mille si chinò insinuante verso di me e, scrutandomi con gli occhietti indulgenti, mi disse: «La prima domanda la faccio io. Mi parli del mio ultimo film».
Ci fu un lungo, insopportabile, imbarazzante silenzio. De Mille aspettava, col suo dolce sorriso sulle labbra abbronzate. Ann aspettava. Rose aspettava. E io tacevo.
«Mi dica, mi dica» ripeteva De Mille avvicinandosi sempre di più, come se parlassi a voce bassissima e lui fosse corto d’udito.
«Coraggio, bambina.»
No, al re non si poteva mentire. E penosamente inghiottii la mia disperazione. Supplichevolmente lo guardai. «Io non ho visto il suo film, signore.»
Se gli avessi detto che il film era orrendo, la reazione non sarebbe stata più forte. Di colpo il sorriso del re divenne una smorfia e il re balzò in piedi con una vigoria da adolescente, tuonando: «Non ha ancora visto il mio film? Sta a Hollywood e non ha ancora visto il mio film?».
Sembrava davvero sconvolto. Balbettai qualche spiegazione meschina: che ero arrivata la notte precedente, anzi ero scesa dall’aereo da pochissime ore. Ma ogni scusa sembrava inutile. Rose mi guardava con indignazione, Ann con doloroso stupore. Inchiodata alla mia responsabilità, subivo il martirio e allora il re, che è clemente come tutti i monarchi, ebbe pietà.
«Cara,» disse accarezzandomi con la mano liscia una guancia «vada a vedere il mio film e poi riprenderemo il discorso.»
Alzò il ricevitore del telefono e: «Un biglietto per il Beverly Wilshire Theatre con prenotazione a mio nome per stasera alle otto. Intesi? E sia puntuale. Intesi? E domani alle due ritorna da me? Intesi?».
Oh, no. Non si sfugge ai Comandamenti del re. Alle otto io ero al Beverly Wilshire a vedere I Dieci Comandamenti di Cecil De Mille; accanto a una monaca, a un prete e a due innamorati che si toccavano il piede. Quattro ore e un quarto durava la proiezione e quattro ore e un quarto, senza fumare perché nei cinema di Hollywood è proibito, rimasi con gli occhi fissi sullo schermo a colori. Dovetti seguire l’epopea di Mosè dal momento in cui lo mettono dentro una culla di vimini al momento in cui, vecchio e stanco, si avvia a morire. (E tutti sanno quanto visse Mosè). Dovetti udire perfino la voce del Signore che parlava in inglese, mentre il prete e la monaca si segnavano e i due innamorati rabbrividivano senza toccarsi più il piede. E l’indomani, alle due, ero nuovamente dal re, vestita di nero, per subire il suo esame.
Sapevo che non mi avrebbe risparmiato e, infatti, non mi risparmiò. Mi interrogò con la stessa crudeltà dei professori alla maturità liceale. Poi, quando ebbe finito e l’ebbi convinto che avevo visto davvero il suo film, chiese ansioso se mi fosse piaciuto. Non riuscii a deluderlo: gli dissi di sì. E, stupita, vidi i suoi occhi riempirsi di lacrime.
«Oh, grazie,» balbettò «grazie, grazie.» Era tanto felice che il suo film mi fosse piaciuto che, a un tratto, gli perdonai tutto quel che mi aveva fatto soffrire. Sentivo per lui una sorta di tenerezza e di agghiacciante rispetto. Improvvisamente capivo perché lo chiamassero il re, e che non c’era ironia in questo titolo, assai meritato.
* * *
Un numero incalcolabile di nemici ha detto, più d’una volta, a De Mille di legarsi una pietra al collo e di buttarsi a mare. E a un numero incalcolabile di nemici De Mille ha risposto, con la Bibbia in mano, che volentieri avrebbe loro regalato un fucile il giorno in cui avessero deciso di farsi saltare il cervello. Oltre mezza popolazione del globo terrestre ha visto i suoi film e nessun critico gli ha mai dedicato una lode. È l’unico personaggio di Hollywood che non abbia mai avuto un Oscar. (E a chi glielo ricorda, De Mille risponde: «Ho vinto l’Oscar del box office. Ogni volta che ricevo un insulto le lacrime dei miei spettatori aumentano del dieci per cento»). I suoi film possono piacere o dispiacere, ma nessuno può negare che egli occupi un posto definitivo nella storia di Hollywood e del cinema stesso.
La storia di De Mille e di Hollywood comincia, praticamente, nel 1912: a un tavolo del Claridge Hotel di New York. A quel tempo Hollywood aveva nove anni e De Mille trentadue. Né l’una né l’altro disponevano di un briciolo di popolarità. All’inizio del secolo la produzione cinematografica si svolgeva tutta a New York: dove la Motion Pictures Patents esercitava il monopolio delle macchine da presa e delle pellicole, facendo bastonare da squadre di gangsters chi pretendeva di produrre un film da sé. Il sobborgo californiano che la signora Daeida Wilcox aveva chiamato Hollywood cominciava soltanto allora ad arricchirsi di qualche negozio e di qualche strada. Nessun cinematografaro sospettava che il suo ranch fosse adatto a girarci i film. L’unico a ribellarsi alle bastonate dei gangsters e che si fosse recato a Los Angeles era David W. Griffith, che aveva girato il Conte di Montecristo in una soffitta della città, in Georgia Street.
Cecil Blount De Mille, discendente da nobile famiglia olandese emigrata in America nel 1658, era un commediografo, come il padre. La sua commedia più importante, Cheer Up, era però stata un fiasco. Sognava dunque di cambiare mestiere e un giorno andò a mangiare al Claridge Hotel, dove incontrò un amico, Jesse J. Lasky, ex sassofonista divenuto direttore delle Folies Bergère a New York.
Anche Lasky era nei guai: le Folies Bergère avevano chiuso. I due stavano compiangendosi a vicenda quando sopraggiunse il cognato di Lasky, Samuel Goldfish, ventiseienne fabbricante di guanti.
«Sono rovinato,» disse Goldfish «la mia fabbrica di guanti è fallita.»
«Che coincidenza,» disse educatamente De Mille «siamo falliti anche noi.»
«Bisogna fare qualcosa» disse Lasky.
«Perché non ci mettiamo nel cinema?» disse Goldfish, quasi scherzando.
«Proviamo» disse Lasky.
«Va bene» disse De Mille.
Erano tempi eroici, lo si capisce bene. Detto fatto i tre misero insieme venticinquemila dollari e fondarono la Lasky Feature Play Company, con De Mille direttore e Goldfish presidente. Goldfish mutò, per l’occasione, il suo nome: assumendo quello di Goldwyn. Poi affittarono alcune macchine da presa alla Motion Pictures Patents, dissero: «Torniamo subito, andiamo a fare un giretto», e scapparono all’Ovest con il bottino.
«Let us go to West», andiamo all’Ovest, fu il grido di De Mille, destinato a diventare uno slogan. L’Ovest era l’unica regione d’America dove gli indipendenti potessero produrre film sottraendosi al giogo della Motion Pictures Patents. Certo, nessuno dei tre si era comportato molto bene con la Motion Pictures Patents: le macchine da presa valevano un patrimonio.
«Ma quei filibustieri» dice De Mille «si meritavano qualcosa di peggio.» De Mille aveva fatto bene i suoi calcoli. Per andare all’Ovest ci volevano giorni di treno, la malavita non era organizzata in America come oggi che basta fare un telegramma per raggiungere «un traditore» e «dargli una lezioncina». I gangsters di New York non avrebbero certo pensato a inseguire i tre giovanotti. Né la Motion Pictures Patents poteva illudersi di sequestrare le macchine praticamente rubate. Lasky, Goldwyn e De Mille fecero il viaggio con animo sgombro.
L’idea di De Mille era fermarsi nell’Arizona: sufficientemente lontana da New York e sufficientemente assolata. Ma quando il treno giunse nella stazione di Flagstaff, De Mille notò con sgomento che la vallata era immersa in una nube di pioggia. Ci fu un breve consulto, poi i tre decisero di continuare il viaggio fino a quando non avrebbero trovato un bel sole. Lo trovarono quando più in là non potevano andare: perché oltre la fermata del treno c’era la spiaggia e poi il mare. Erano arrivati a Los Angeles. De Mille, Lasky e Goldwyn scaricarono le macchine e buttarono in aria i cappelli: a Los Angeles non c’era solo un tempo eccellente. C’era un paesaggio che sembrava inventato per loro: mare, laghi, colline, boschi, deserti, e soprattutto spazio a disposizione. Fecero un giretto alla periferia: ebbero un’altra gradita sorpresa. In un sobborgo chiamato Hollywood, i contadini cedevano le stalle per nulla. Una signora con la faccia cotta dal vento e l’abito a scacchi cedeva la stalla delle sue mucche che erano morte. Si chiamava Daeida Wilcox.
I tre giovanotti andarono da lei e ne ebbero quasi paura: parlava sgranando il rosario. Daeida Wilcox sembrava un po’ sospettosa, ma disse che, per cento dollari, avrebbe ceduto anche il granaio. Lasky gliene dette duecento e prese stalla e granaio. E fu qui che De Mille girò il suo primo film che fu anche il primo film nella storia di Hollywood: The Squaw Man.
«Il Signore mi ispirò» dice De Mille. «Prima di allora non avevo mai fatto il regista, non sapevo nemmeno che cosa significasse maneggiare una pellicola.» The Squaw Man fu venduto per centomila dollari: ebbe un successo imprevisto. E i tre avventurieri, ormai carichi di quattrini, si misero in società con Adolph Zukor. Nacque così la Famous Players Corporation, che in seguito si sarebbe chiamata Paramount. Il resto è cinema.
Mentre il pacifico villaggio della signora Wilcox si affollava di ballerine, registi, filibustieri, modelle e gente lanciata nella nuova corsa all’oro, cresceva la fama di Hollywood e cresceva la fama di De Mille. L’ex drammaturgo fallito aveva preso un gran gusto a girare film; sembrava animato da una specie di furia. Spesso lavorava a un film di giorno e a un altro di notte, si vantava di straordinarie invenzioni. Fu il primo a usare il megafono (quello strumento senza il quale un regista sembra che non sappia fare il regista). Fu il primo a ottenere effetti speciali di luci e di ombre, illuminando ad esempio metà faccia di un attore per ottenerne una espressione sinistra. Fu il primo a usare la macchina da presa col suono applicato, il primo che usò il colore, il primo che girò due volte la medesima scena in modo di avere una pellicola di riserva, il primo che portò sugli schermi un soggetto religioso.
Questo accadde con la prima edizione de I Dieci Comandamenti, nel 1923. «Mascalzone, ci rovinerai» telegrafò da New York il furibondo Sam Goldwyn. I Dieci Comandamenti, invece, inaugurò il Chinese Theater e tenne il cartellone per otto mesi. Tre anni dopo, De Mille girava una storia di Cristo, Il Re dei Re, e questo tenne il cartellone per ventotto mesi ininterrotti. Poi fu la volta de Il Segno della Croce. Dice De Mille: «La Bibbia resta la migliore fonte di soggetti per i film. Non ho mai visto un film religioso che non fosse un successo di cassetta».
Aveva scoperto la formula migliore per far presa sul pubblico: il cocktail sesso-religione. «Il sesso e la religione» diceva «sono le grandi molle che reggono il mondo. Il sesso solletica i loro istinti peggiori, la religione pulisce la loro coscienza. Non possono fare a meno né dell’uno né dell’altro.» Era una formula abbastanza semplice e, a suo modo, geniale: sullo sfondo biblico e il messaggio per la umanità, De Mille sistemava disinvoltamente una storia d’amore, condita di baci e abbracci tra un bel giovanotto e una bella ragazza. Ciò bastava ad assicurargli il box office. Infatti non sbagliò, commercialmente parlando, nemmeno uno dei suoi celebri film. L’unico che andò meno bene, I crociati, si meritò la sentenza di Zukor: «Il re è morto. Viva il re».
De Mille vestì i crociati da indiani, trasportò l’azione dalla Palestina al Far West, cambiò il titolo con quello di The Plainsman, e si riprese i quattrini e lo scettro. Lo fece, badate bene, con animo candido: De Mille è l’uomo più religioso di Hollywood e per nulla al mondo vorrebbe apparire blasfemo.
«Gli sciocchi mi accusano di sfruttare il triangolo lui-lei-l’altro anche nei sacri testi» dice De Mille. «Che colpa ne ho io se anche tremila anni fa la gente si faceva le corna? Del resto la Bibbia parla chiaro e spiega che non si nasce dai funghi.» È difficile prendere De Mille in castagna: per ogni accusa egli ha una risposta appropriata. Quando gli rimproverano di sfruttare troppo la Bibbia, dichiara: «Racconto la Bibbia attraverso le immagini mentre i sacerdoti la raccontano con le parole. Il mio è un modo come un altro per pregare il Signore».
Da questa stravagante preghiera, De Mille guadagna vantaggi molto terreni: è uno dei miliardari più miliardari di Hollywood. Nessuno è più bravo di lui nell’accumulare quattrini perché ha un sistema che non fallisce mai: spendere dollari e risparmiare centesimi. Egli è capace di sprecare cifre ciclopiche per procurarsi a Gerusalemme le spine necessarie a fabbricare la corona di Cristo, ma non pagherà mai mezzo dollaro in più per i sandali di una comparsa. Sicché tutti conoscono la storia delle patate che De Mille acquistò dal governo per nutrire i cervi del suo ranch Paradiso. Le patate erano chiuse in sacchi buonissimi, di ottima tela. De Mille mise da parte i sacchi, li rivendette a sette cents l’uno e non solo le patate gli vennero gratis...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Prefazione
  6. Preludio
  7. Capitolo primo
  8. Capitolo secondo
  9. Capitolo terzo
  10. Capitolo quarto
  11. Capitolo quinto
  12. Capitolo sesto
  13. Capitolo settimo
  14. Capitolo ottavo
  15. Conclusione
  16. Appendice
  17. Indice