Alle periferie dell’esistenza nell’epoca del nichilismo
In questo contributo conserviamo la struttura del dialogo originale tra gli autori.
Costantino Esposito. «Alle periferie dell’esistenza nell’epoca del nichilismo»: il titolo di questo dialogo riprende una sollecitazione – ormai celebre, ma forse non considerata ancora fino in fondo – espressa nel marzo 2013 dall’allora cardinale Bergoglio alle Congregazioni dei cardinali, poco prima di diventare papa Francesco, in cui veniva richiamato il fatto che le periferie non sono soltanto «luoghi», ma anche e soprattutto «persone». E che «la Chiesa è chiamata a uscire da se stessa per andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali: quelle del mistero del peccato, del dolore, dell’ingiustizia, quelle dell’ignoranza e dell’indifferenza religiosa, quelle del pensiero, quelle di ogni forma di miseria». Nel messaggio inviato al Meeting di quest’anno, papa Francesco suggerisce due spunti di metodo che mi piace riprendere all’inizio di questo nostro percorso: anzitutto «non perdere mai il contatto con la realtà, anzi, essere amanti della realtà» e «tenere sempre lo sguardo fisso sull’essenziale». Ecco il lavoro comune che mi permetto di proporre ai nostri ospiti: cercare di capire i fattori in gioco, e non semplicemente attraverso uno sforzo – che pure sarà fatto – di analisi, ma con l’intento di mettere a fuoco l’essenziale, così da individuare che cosa ci è chiesto, oggi, come responsabilità condivisa.
La periferia del mondo si manifesta anche in società che pensavano di essere il «centro», perché si impone un disagio diffuso dovuto a un collasso del senso. Nell’epoca della società del rischio globale (come l’ha chiamata il sociologo e politologo tedesco Ulrich Beck), ci troviamo di fronte a un fenomeno singolare e inedito: il «centro» del mondo sembra essersi concentrato nella individualità di ciascuno, ma allo stesso tempo ognuno è periferico rispetto a un sistema sociale e politico che si regge su un rischio permanente (finanziario, ecologico, terroristico, eccetera). E questo rischio, in definitiva, tocca il singolo continuamente, direi strutturalmente, esponendolo a una sempre possibile «catastrofe».
In un suo recente studio, così scrive Beck: «Nel mondo occidentale e al di là di esso non c’è un desiderio più diffuso che quello di condurre una “vita propria”. Chi oggi viaggia in Europa, ovviamente negli Stati Uniti, ma anche in Sudamerica, a Singapore, a Tokyo, in Corea del Sud e chiede cosa muova le persone, a cosa esse aspirino, per cosa lottino, dove finisca per loro il divertimento, si sentirà rispondere: soldi, lavoro, potere, amore, Dio, ecc., ma constaterà anche – e sempre più spesso – quanto siano forti le suggestioni dell’individualismo. Denaro significa il proprio denaro, spazio significa il proprio spazio, in quanto presupposti elementari di una “vita propria”. Perfino l’amore, il matrimonio, la maternità o la paternità, che con l’oscurarsi del futuro sono più desiderati che mai, soggiacciono alla riserva di legare l’una all’altra e tenere assieme singole biografie che tendono a separarsi».1
La «vita propria» sembra essere una «invenzione della modernità», che «dovette essere staccata dall’idea contraria, per essere conquistata passo dopo passo attraverso la storia».2 All’inizio l’individualità era svalutata proprio in quanto eccedente o deviante rispetto alla totalità; nella seconda modernità invece essa viene assunta proprio nella sua «indeducibilità» rispetto a una totalità di senso, e raggiunge la sua positiva giustificazione. L’individuo è il «non identico».
Ma paradossalmente la radicalizzazione del «principio» moderno dell’individualità porta a una erosione delle «istituzioni basilari» della stessa modernità: «Il fatto sorprendente è che proprio ciò che prima era stato istituzionalizzato giuridicamente come il nucleo “naturale” e “antropologico” della legge morale, ora viene demandato alla decisione degli individui. Questo cambiamento di mentalità si compie nel giro di circa quindici anni [a partire dagli anni Ottanta del XX secolo] in quasi tutte le società dell’Europa occidentale. Qui – come si può mostrare, oltre che nel caso dell’omosessualità, anche in relazione ad analoghi cambiamenti del diritto civile, del diritto familiare, del diritto sul divorzio – il principio di base dell’autonomia individuale, prima riferito al maschio, ha trovato a poco a poco un’applicazione universale, grazie a una trasformazione dei fondamenti delle istituzioni basilari del diritto penale, del diritto di famiglia, ecc., e questo non solo per alcuni gruppi, ma per tutti i gruppi nello spazio di una sola generazione. Una trasformazione così generale dei fondamenti di un’istituzione di base in un tempo tanto breve non ha precedenti nella storia».3
Qui ci troviamo di fronte a un vero a proprio «shock antropologico nei nativi della società mondiale del rischio», perché a fronte delle crisi odierne (riforme del welfare, calo demografico, società che invecchiano, caduta dei confini delle società nazionali, disoccupazione di massa, globalizzazione dell’economia, spinte all’individualizzazione che cancellano i fondamenti del matrimonio, della famiglia e della politica, crisi ecologica, eccetera), cresce «la sensazione che la sicurezza antropologica della modernità sia una sabbia mobile». E questo porta al «terrore panico che la rete delle nostre dipendenze materiali e delle nostre obbligazioni morali possa strapparsi e che il delicato sistema funzionale della società mondiale del rischio possa arrestarsi».4 E quindi, paradossalmente, il desiderio degli individui, oggi, sarebbe che «la razionalità del controllo controllasse» e che tutto l’armamentario politico, sociale e tecnologico rendesse «nuovamente possibile il funzionamento indisturbato dei sistemi».5
Nel passaggio all’individualismo realizzato, ognuno è «centro» per se stesso ed è deputato a conferire un senso relativo a questa centralità; ma in qualche modo l’individuo, non garantito più dal contesto socio-politico-economico dell’intero, non riesce a «portare» il senso di se stesso e trasforma la sua presunta e finanche riconosciuta centralità in una faticosa perifericità. Insomma, l’individuo si rivela fragile proprio alla prova della sua libertà.
Proviamo a guardare in faccia questo fenomeno contraddittorio e drammatico, in cui il nodo del soggetto moderno dà prova di sé sia a livello problematico che come un’esigenza inevasa. Come guardate e cosa vedete in questa «periferia esistenziale»?
Eugenio Mazzarella. Ulrich Beck è uno dei critici più acuti delle antinomie della radicalizzazione del «principio» moderno dell’individualità nella società postindustriale; quella che egli chiama la «modernità riflessiva», alle prese con gli esiti imprevisti dell’industrializzazione e di come darvi un indirizzo sostenibile. Se, da un lato, la realizzazione di quel principio come fondamentale innalzamento, che l’ha reso inarrestabile, del tenore di vita di massa degli individui, ci ha resi tutti «figli della libertà» e delle sue istituzioni sociali – democrazia e mercato innanzitutto –, dall’altro, l’applicazione universale di questa libertà, o liberazione, ha eroso le basi sociali e valoriali dell’industrialismo classico legato alla fabbrica.
È un’erosione che ha due fattori. Il primo: la richiesta da parte di un’economia che si globalizza ed entra in rete e si avvale di tecnologie informatiche, di una forza-lavoro universale, singolarizzata e unisex, socialmente ed esistenzialmente mobile, necessitata a sganciarsi per realizzare «la propria vita» da ogni strutturale legame/condizionamento sociale, anche quello della famiglia nucleare, funzionale supporto «tradizionale» dell’unità aristotelica di luogo, di tempo e di azione dell’economia di fabbrica. Il secondo: il potenziale emancipatorio erga omnes, ma fondamentalmente delle donne, delle promesse liberatorie, di una «vita propria» per tutti, della modernità. Un’erosione, che quando nelle fasi di crisi le porte della liberazione si fanno strette per entrarci tutti, mostra tutti i suoi lati oscuri. E la società del rischio vira verso la società della paura, delle insicurezze, che chiedono al sistema una razionalità di controllo, ai cui piedi deporre volentieri le delusioni e le angosce della propria libertà, o le irrealizzazioni della propria vita.
L’indotto sociale di questo processo, lo «shock antropologico nei nativi della società mondiale del rischio», per riprendere Beck,6 ha il suo baricentro nel fatto che «è la singola persona che diventa l’unità di riproduzione del sociale nel mondo della vita».7 Attraverso le prescrizioni istituzionali e biografiche di questa individualizzazione mercatoria, cioè nelle mani del mercato, si forma il tipo conflittuale e senza precedenti storici della «biografia fai-da-te». Quando riesce, ovviamente, quando è possibile scriversela, un’autobiografia; e l’individualizzazione, più che la conquista dell’individualità, non sia l’esposizione alla sua perdita, la solitudine impaurita di un io estraniato da se stesso, senza neanche più la familiarità nativa dei vincoli tradizionali di cultura, di status sociale, di sesso, di genere.
Un topic di questo cambio di mentalità è il tentativo, oggi, di ridefinire on demand il vincolo matrimoniale tradizionale, e persino la propria sessualità, chiudendo il circolo della dissociazione moderna, dell’epoca della modernità riflessiva, tra ruoli sessuali e filiazione, a cui la tradizione, la cultura umana ha da sempre agganciato l’istituto della famiglia come pattern fondativo della società e della socialità. Un cambio di mentalità che per Beck, come abbiamo sentito ricordare da Costantino Esposito, «si compie nel giro di circa quindici anni [a partire dagli anni Ottanta del XX secolo] in quasi tutte le società dell’Europa occidentale».8
È strano che Beck, che pure nota che «una trasformazione così generale dei fondamenti di un’istituzione di base in un tempo tanto breve non ha precedenti nella storia»,9 la valuti e la limiti poi nei suoi effetti a una crisi della società moderna industriale nel suo realizzarsi pieno nella modernità riflessiva, non dimezzato dai freni tradizionali al processo di individualizzazione. E l’assuma fondamentalmente come una crisi di ciclo socio-economico, una crisi di crescita della modernizzazione, che quindi certamente apre dei problemi, ma che proprio il potenziale politico, di crescita democratica, dell’individualizzazione potrà risolvere, nonostante le ansie dei conservatori sul fenomeno della crisi dei valori.
Ora siamo d’accordo con Beck che i problemi dell’uomo solo l’uomo può risolverli, però non sono disposto, se mi lamento della caduta dei «valori ematici», per dir così, a essere tacciato di essere conservatore, a meno che questo non significhi che voglio conservare la vita: ma questa sarebbe un’accusa onorevole. Cosa voglio dire? Che in questo «shock antropologico» così ben descritto da Beck, c’è qualcosa in più di una crisi di crescita della società postindustriale; c’è una crisi epocale, che non investe soltanto i fondamenti sociali e l’antropologia quotidiana della società industriale centrata sulla fabbrica tradizionale, ma investe la sociogenesi storicamente conosciuta dell’homo sapiens, e gli assetti antropologici che l’hanno resa possibile. E a questa crisi antropologica è necessaria una diagnosi senza sconti consolatori che ci promettano una prognosi più favorevole di quella che minaccia di essere.
Nella «società dei liberi», troppo liberi per essere davvero liberi, come nota non poca sociologia contemporanea (Beck, Bauman, Magatti), sta accadendo qualcosa di cui forse non siamo all’altezza. Eppure è forse l’evento più importante della nostra epoca, la «smoralizzazione del mondo». Lo smontaggio della socialità umana dalle sue radici «di natura e nella natura», dell’uomo come homo sapiens. E l’emergere della pretesa, un novum storico assoluto, di «ri-montare» queste radici sul piano costruttivista della convenzione sociale mediata dalla tecnica, di una biopolitica che sussume sotto di sé il dato di natura socio-biologico, assumendolo al più come materiale inerte di costruzione di un «contratto sociale» dove l’individuo può contrattare tutto, non solo il vincolo politico cui voglia legarsi, ma ogni piano della vita, «la propria vita»: dal ruolo sociale all’identità di genere.
Ma questo è il venir meno della possibilità stessa di un’ontologia dell’essere sociale, dove il sapere di sé intuitivo e poi riflessivo dell’essere sociale in quanto tale costituisca la condizione trascendentale di possibilità di ogni posizione di valore socialmente valida. Di ogni posizione di valore che tenga insieme, cioè, quello che il gruppo deve ai suoi individui, ma anche il debito comunitario in cui ogni individuo nasce e si tiene già come individuo di quel gruppo come gruppo «umano». La fine di questo debito comunitario, dove ci sentiamo tutti e solo in credito della società, forti del nostro diritto, di ognuno come singolo, alla «vita propria» è l’inquietudine disumanizzante della nostra epoca, la nostra «perifericità». Dove con la nostra «unicità», così raggiunta, esorcizzata nel suo vuoto da continui selfie sulla rete, siamo come quelli che si lamentano della folla anonima di cui fanno parte e a cui contribuiscono.
E tuttavia, detto questo, qualsiasi discorso sul relativismo etico – in cui avvertiamo di vivere immersi – non può rendersi la vita troppo facile. Non può, cioè, esimersi da una domanda sul perché esso sia un brand di successo di massa nelle nostre società; e dico le nostre, cioè le società occidentali liberaldemocratiche o quanto meno liberalizzate negli stili di vita «all’occidentale», e non certo in società «chiuse» sul piano religioso, politico, culturale, dove anzi questo relativismo sconta rigetto e intolleranza. Il motivo è che esso non è un accidenti della storia che ci capiti tra capo e collo, ma è un potente fattore o co-fattore della nostra storia come storia di libertà, del liberarsi della libertà nella società e nella politica, alle cui radici c’è un’idea di natura umana, nel suo svolgimento, «come conformata dal Creatore […] a una progrediente libertà», per dirla con un autore che certo relativista non poteva essere, Cesare Balbo.10 E ha capacità «virali» di diffusione, come ha dimostrato nella storia delle società, le nostre, in cui questo ceppo – che è poi quello della scoperta cristiana della dignità della persona – si è innestato; e come dimostra da decenni nei processi di occidentalizzazione del mondo globalizzato; in un cammino di diffusione, non a caso spesso respinto come un’infezione sociale, degli spregiati «valori occidentali».
Sono le radici cristiane della secolarizzazione, che Carrón ricordava nel suo intervento sull’Europa11 e che sono tornate più volte all’attenzione in questi giorni al Meeting. In buona sostanza, relativismo etico può ben voler dire capacità della libertà di liberare, in una simmetria benevolente, con la mia, la libertà degli altri.
Questo non vuol dire che la libertà non abbia «anche un volto oscuro», ma che «questa – lo nota con finezza Beck – non è una confutazione della libertà, piuttosto [è] la riprova della sua fallibilità, ossia, in ultima istanza, della sua autentica umanità».12 Nel ceppo dell’individualizzazione creaturale cristiana, come fonte di ogni positiva individualizzazione possibile, anche quella della modernità riflessiva di Beck, potremmo dire che la libertà è divina nella sua fonte, e piena in Dio nella sua positività, ma è tutta umana, e fallibile, nel suo esercizio. Con il che non scopriamo niente di nuovo, ma solo noi stessi.
E il rischio della fallibilità della libertà oggi può ben essere quello del nichilismo istituzionalizzato, nel senso di quella «smoralizzazione del mondo» cui ho accennato, e che mi sembra l’esito concreto di ciò che Nietzsche intese come nichilismo etico: «l’ospite più inquietante», da guardare in faccia, da lui vaticinato come «la storia dei prossimi due secoli». Siamo lì, al tornante del suo primo secolo. L’annichilazione dell’ethos non come mero sovvertimento dei precedenti valori sostituiti da altri che ne prendano il posto, che ne surroghino la deperita vitalità, ma come una trasformazione di ciò da cui deriva e in cui si mantiene l’esser-valore del valore. La trasvalutazione, per stare al lessico di Nietzsche, come transito del fondamento dell’esser-valore da un mondo trascendente («sovrasensibile») in quale che sia direzione – la verticalità di Dio, o la sovrastante immanenza della legge di natura, o della comunità –, di cui il sentire individuale deve porsi in ascolto morale, al libitum immanente a se stesso della sensibilità individuale. Siamo lì, e pur nella tragicità degli scenari che apre, lo siamo al modo della parodia del Superuomo, pur essa divinata da Nietzsche, dell’«ultimo uomo»: «Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte». Quello che papa Francesco registra nella cultura dominante come privilegio di ciò che è esteriore, immediato, visibile, veloce, superficiale, provvisorio; mentre magari i veri superuomini della tecnica, i laboratori scientifici, pretendono di riscrivere senza contraddittorio le basi socio-antropologiche dell’umanizzazione, di ciò che è umano.
Ma questo nichilismo istituzionalizzato non è un destino ineluttabile. A quest’ospite inquietante, nella fallibilità della nostra libertà, possiamo certo più o meno avvertitamente aprire la porta, e fargli ponti d’oro; ma possiamo anche indicargli la porta di uscita dalla nostra vita, dalle nostre vite. E questo sta nelle riserve morali, prima ancora che politiche, e previe a queste, dell’individualizzazione; che alla sua fonte è fioritura nella persona dell’intima relazionalità che la struttura, che è la trama della sua vita, a cui restano annodati i fili di ogni biografia possibile che non sia un origami di carta della pazienza della vita in attesa che la festa sia finita.
Luigi Manconi. Intendo partire da due citazioni: la prima è il frammento iniziale del testo di Ulrich Beck letto da Costantino Esposito, laddove Beck, proprio nell...