Elogio della lentezza
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Elogio della lentezza

Rallentare per vivere meglio

  1. 363 pagine
  2. Italian
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Elogio della lentezza

Rallentare per vivere meglio

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Da Slow Food al sesso tantrico, dal pilates alla medicina omeopatica, negli ultimi anni la rivoluzione slow si è diffusa negli ambiti più disparati della nostra iperattiva ed efficientissima quotidianità. Contro la tirannia dell'orologio e i ritmi frenetici che riempiono a dismisura ogni minuto dedicato al lavoro, alla salute, alla famiglia, questo manuale ci offre la possibilità di scoprire, e mettere in pratica, un salutare ritorno alla lentezza: ritagliarsi ogni giorno uno spazio in cui spegnere computer, cellulari, radio e tv, concedersi un pasto cucinato con le proprie mani, scegliere un passo meno frenetico e trovare il tempo di guardarsi attorno. Carl Honoré, ormai considerato il profeta della slow life, con questo bestseller consegna nelle nostre mani un monito innovativo e rivoluzionario: "Quando ci si dimentica di rallentare, quando si accelerano cose che non vanno accelerate, c'è sempre un prezzo da pagare".

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
ISBN
9788858674482

La città: una fusione tra il vecchio e il nuovo

«La marea della vita, sempre fulminea nei suoi movimenti può scorrere nella città con forze più irruenti, ma mai con una serena corrente quanto in campagna, né altrettanto trasparente.»
WILLIAM COWPER, 1782
Dopo aver conosciuto Carlo Petrini, faccio una passeggiata per Bra. Anche in un giorno feriale, la capitale di Slow Food sembra il luogo perfetto per staccare la spina. Gli abitanti si concedono un caffè ai tavolini sui marciapiedi, chiacchierando con gli amici e osservando l’esistenza che passa loro accanto. Nelle ombrose piazze alberate, dove l’aria profuma di lillà e lavanda, gli anziani siedono come statue sulle panchine di pietra. Tutti hanno il tempo di rivolgerti un caloroso saluto.
Non mi meraviglia. In virtù di un decreto locale, sembra ormai entrata in vigore la legge della Dolce Vita. Ispirate da Slow Food, nel 1999 Bra e altre tre città italiane si sono impegnate a tramutarsi in rifugi dal delirante vortice del mondo contemporaneo. Ogni aspetto della vita urbana è stato rivisto secondo i principi di Petrini: il piacere prima del profitto, gli esseri umani prima dell’ufficio, la Lentezza prima della velocità. Il movimento, battezzato Città Slow, conta oggi oltre sessanta adesioni in Italia e all’estero.
Un cittadino della caotica e convulsa Londra trova subito allettante accostare le parole «città» e «lenta». Per accertarmi che il movimento non sia solo una vana speranza o un’operazione di marketing, fisso un’intervista con Bruna Sibille, vicesindaco di Bra e figura di spicco all’interno di Città Slow. Ci incontriamo in una sala conferenze al primo piano del municipio, un bel palazzo trecentesco. Bruna è in piedi accanto alla finestra, intenta ad ammirare il panorama: un mare di tetti in terracotta rossa che si perde a vista d’occhio, interrotto qua e là da un campanile. Quando un giovane attraversa la piazza sottostante pedalando tranquillo, la bocca le si piega in un sorriso soddisfatto.
«All’inizio, il movimento Slow era considerato un’idea per qualche amante della buona tavola e del buon vino, ma ora si è trasformato in una discussione culturale molto più ampia sui vantaggi di fare le cose in modo più umano, meno frenetico» mi spiega. «Non è facile nuotare controcorrente, ma riteniamo che la filosofia Slow sia il metodo migliore per amministrare un comune.»
Il manifesto di Città Slow contiene cinquantacinque impegni, tra cui la riduzione del rumore e del traffico; l’aumento delle aree verdi e delle zone pedonali; il sostegno sia agli agricoltori locali sia ai negozi, ai mercati e ai ristoranti che vendono i loro prodotti; lo sviluppo di tecnologie che proteggano l’ambiente; la conservazione delle tradizioni estetiche e culinarie locali; e l’invito all’ospitalità e alla cortesia. Si spera che le riforme diano un risultato superiore alla somma delle singole parti, che rivoluzionino la concezione della dimensione urbana. Il vicesindaco parla con fervore della «creazione di una nuova atmosfera, di una visione totalmente nuova dell’esistenza».
In altre parole, una Città Slow non è solo una città veloce rallentata. L’iniziativa si ripropone di plasmare un ambiente dove le persone sfuggano all’abitudine di fare tutto più in fretta e di lasciarsi dominare dalle lancette. Sergio Contegiacomo, un giovane consulente finanziario di Bra, dipinge in termini lirici la vita in una Città Slow. «L’elemento più importante è la possibilità di non essere ossessionati dall’orologio e di godersi ogni attimo» afferma. «Si ha l’opportunità di rilassarsi, di pensare, di riflettere sulle grandi domande esistenziali. Anziché restare intrappolati nel caos e nella foga del mondo moderno – dove non si fa altro che salire in auto, andare al lavoro e correre a casa –, ci si concede il tempo di gironzolare e incontrare la gente per la strada. È un po’ come vivere in una fiaba.»
Nonostante il profondo desiderio di calma e lentezza, i sostenitori di Città Slow non sono luddisti. Essere Slow non significa infatti essere pigri, arretrati o tecnofobici. Sì, il movimento mira a conservare la cucina, l’architettura e l’artigianato tradizionali, ma celebra anche gli aspetti migliori della realtà odierna. Una Città Slow si pone la domanda: questa idea migliora la qualità della vita? Se la risposta è sì, la novità viene accolta con gioia, anche quando si tratta della tecnologia più avanzata. A Orvieto gli autobus elettrici scivolano silenziosi lungo le strade medievali. Città Slow utilizza un elegante sito web per promuovere la sua filosofia del buon vivere. «Chiariamo subito un punto: essere una Città Slow non significa fermare tutto e rintanarsi nel passato» continua Bruna. «Non vogliamo vivere in musei o demonizzare il fast food; vogliamo trovare un equilibrio tra il moderno e il tradizionale, un equilibrio che favorisca il buon vivere.»
Bra sta tenendo fede, con calma ma anche con fermezza, a tutti e cinquantacinque gli impegni. Nel centro storico la città ha chiuso al traffico alcune strade e ha bandito le catene di supermercati e le livide insegne al neon. I migliori spazi commerciali sono stati concessi a piccole attività a conduzione familiare, tra cui negozi che vendono carni pregiate e stoffe tessute a mano. Il municipio sovvenziona le ristrutturazioni che usano lo stucco color miele e i tetti di tegole rosse tipici della regione. Le mense di scuole e ospedali servono ora piatti tradizionali a base di frutta e verdura biologiche e nostrane anziché pasti industriali e prodotti di fornitori lontani. Come monito contro il superlavoro, e nel rispetto dell’usanza italiana, tutte le piccole rivendite di alimentari di Bra rimangono chiuse il giovedì e la domenica.
Gli abitanti sembrano felici dei cambiamenti. Apprezzano i nuovi alberi e le nuove panchine, le zone pedonali, i mercati sempre più numerosi. Anche i giovani sono entusiasti. La sala da biliardo di Bra ha rinunciato alla musica pop in omaggio alla filosofia Slow. Fabrizio Benolli, il proprietario del locale, mi riferisce che alcuni dei suoi clienti cominciano a guardare oltre lo stile di vita delirante e standardizzato proposto da MTV. «Iniziano a comprendere che ci si può divertire anche in modo tranquillo e Slow» dice. «Anziché tracannare una Coca-Cola in un bar chiassoso, imparano che può essere piacevole sorseggiare un vino regionale in una sala con la musica a basso volume.»
La partecipazione a Città Slow aiuta i centri che hanno aderito all’iniziativa a ridurre la disoccupazione e a rianimare le economie stagnanti. Bra attira migliaia di turisti sia grazie ai nuovi negozi che vendono salsicce artigianali e cioccolato fatto a mano, sia grazie alle rassegne alimentari che offrono leccornie locali come il dolcetto e i tartufi bianchi. Ogni settembre la città si riempie di bancarelle di formaggiai provenienti da tutta Europa. Per soddisfare la crescente domanda di buon cibo da parte di visitatori e residenti, il cinquantottenne Bruno Boggetti ha ampliato la sua gastronomia e ora offre una vastissima scelta di prodotti nostrani: tartufi, pasta fresca, peperoni arrosto, olio d’oliva piccante. Nel 2001 ha trasformato il suo seminterrato in una cantina ben fornita di vini regionali. «Il movimento Slow mi ha aiutato a rivoluzionare la mia attività» osserva. «Invece di afferrare il prodotto più veloce ed economico – atteggiamento incoraggiato dalla globalizzazione –, la gente decide sempre più spesso che è meglio rallentare, riflettere, privilegiare le cose fatte a mano anziché a macchina.»
Città Slow aspira addirittura a invertire le attuali tendenze demografiche. Come nelle altre nazioni, in Italia i giovani hanno abbandonato da tempo le aree rurali e le piccole città per le luci sfavillanti della metropoli. Ora che il fascino della vita urbana ad alta velocità e ad alto livello di stress va offuscandosi, molti tornano a casa cercando un ritmo meno febbrile. Anche alcuni cittadini seguono il loro esempio. Davanti al bancone di una gelateria di Bra, faccio conoscenza con Paolo Gusardi, un giovane consulente informatico torinese. Sta cercando un appartamento nel centro storico. «A Torino, tutto è fretta, fretta e ancora fretta. Sono stanco» dice gustando un cono alla menta e cioccolato. «La visione Slow sembra offrire un’alternativa concreta.» Intende lavorare a Bra per gran parte della settimana, progettando siti web e software aziendali e tornando nel capoluogo solo quando deve incontrare qualcuno di persona. I principali clienti gli hanno già dato il via libera.
Città Slow è però solo agli inizi, e in tutti i comuni del gruppo la decelerazione è un progetto ancora in fase di realizzazione. Alcuni degli ostacoli che il movimento dovrà affrontare sono già evidenti. Sebbene la loro esistenza abbia preso una piega più dolce, molti abitanti di Bra giudicano il lavoro ancora troppo frenetico. Luciana Alessandria, proprietaria di una pelletteria nel centro storico, è stressata quanto prima. «Per i politici è facile predicare di rallentare questo e quello, ma nel mondo reale non è così semplice» sbotta. «Se voglio avere un tenore di vita passabile, devo lavorare sodo.» In certa misura, Città Slow è vittima del suo stesso successo: la promessa di una vita Slow attira turisti e forestieri, che portano rumore, velocità e trambusto.
I sostenitori di Città Slow hanno inoltre scoperto che alcune riforme sono più attuabili di altre. I tentativi di ridurre l’inquinamento acustico vengono contrastati dall’abitudine italiana di sbraitare parlando al telefonino. A Bra, l’assunzione di nuovi vigili urbani non ha frenato l’altra passione nazionale: guidare a tutta birra. Come in altri centri Slow, le auto e gli scooter sfrecciano nelle strade ancora aperte alla circolazione. «Purtroppo, qui e nel resto del Paese, la gente continua a guidare male» sospira Bruna. «Il traffico è un settore in cui sarà difficile convincere gli italiani a rallentare.»
Se non altro, Città Slow ha però aperto un nuovo fronte della battaglia mondiale contro la cultura della velocità. Nel 2003 ventotto centri italiani avevano ormai ottenuto la qualifica ufficiale di Città Slow, e altri ventisei erano in attesa della certificazione. Le richieste arrivano anche dal resto dell’Europa, e persino dall’Australia e dal Giappone. Due città norvegesi (Sokndal e Levanger) e una inglese (Ludlow) sono già entrate a far parte del movimento, e due comuni tedeschi (Hersbruck e Gemeinde Schwarzenbruck) aderiranno entro breve. Al termine dell’intervista, Bruna è di ottimo umore. «È un processo a lungo termine, ma pian piano trasformeremo Bra in un posto migliore» dichiara. «Quando avremo finito, tutti vorranno abitare in una Città Slow.»
Forse esagera un po’. In fondo, Città Slow non è un progetto per tutti. L’importanza attribuita alla conservazione della cucina locale apparirà sempre più sensata a Bra che a Basingstoke o a Buffalo. Il movimento è inoltre adatto a comuni con meno di cinquantamila abitanti. L’ideale urbano di Città Slow è il centro tardomedievale, un dedalo di strade acciottolate dove le persone si incontrano per socializzare, fare la spesa e mangiare in piazze incantevoli. In altre parole, il genere di luogo che molti di noi vedranno solo durante le vacanze. Il principio basilare dell’iniziativa (l’attenuazione dello stress e della frenesia caratteristici della vita urbana) si sta tuttavia tramutando in una tendenza globale.
Nel capitolo uno, ho paragonato la città a un gigantesco acceleratore di particelle, metafora che non è mai stata calzante quanto oggi. Tutti gli elementi della realtà urbana (il chiasso, le auto, la folla, il consumismo) ci spingono ad affrettarci anziché a rilassarci, a riflettere o a instaurare legami con gli altri. La città ci tiene in movimento, in agitazione, in costante attesa del prossimo stimolo, ma è alienante malgrado i brividi che ci regala. Un recente sondaggio ha scoperto che il venticinque percento dei britannici non conosce nemmeno il nome dei suoi vicini di casa. La disillusione nei confronti della vita urbana risale a molto tempo fa. Nel 1819, Percy Bysshe Shelley osservò: «L’inferno è una città che somiglia molto a Londra». Qualche decennio più tardi, Charles Dickens descrisse lo squallido ventre molle delle convulse città in rapida crescita della Gran Bretagna industrializzata. Nel 1915, Booth Tarkington, un romanziere americano vincitore del premio Pulitzer, accusò l’urbanizzazione di aver trasformato la sua Indianapolis in una bolgia di impazienza: «Neppure una generazione fa, qui non vi era alcun gigante affannato, alcuna città trafelata e fuligginosa […] Vi era tempo per vivere».
Per tutto il Diciannovesimo secolo, gli uomini tentarono di sfuggire alla tirannia della città. Alcuni, come i trascendentalisti americani, si trasferirono in remoti angoli rurali. Altri si accontentarono di occasionali ritorni alla natura. Poiché le città non erano tuttavia destinate a scomparire, si tentò di renderle più vivibili tramite riforme di cui vediamo ancor oggi gli effetti. Una misura consistette nell’importare i ritmi lenti e rilassanti della campagna costruendo parchi pubblici. Il Central Park di New York, che Frederick Olmstead cominciò a progettare nel 1858, divenne un modello per tutto il Nordamerica. Dall’inizio del Novecento, gli esperti cercarono di creare quartieri che stabilissero un equilibrio tra urbano e rurale. In Gran Bretagna, Ebenezer Howard fondò il movimento Garden City, che esigeva piccole città autosufficienti con un parco centrale e una zona verde di foreste e terreni agricoli. Prima che l’idea attraversasse l’Atlantico, in Inghilterra videro la luce due città giardino: Letchworth nel 1903 e Welwyn nel 1920. Negli Stati Uniti, dove l’automobile era già la regina della giungla urbana, gli architetti progettarono Radburn, nel New Jersey, una città i cui abitanti non avrebbero mai avuto bisogno dell’automobile.
Mentre il Ventesimo secolo continuava a imperversare, gli urbanisti sperimentarono alcune idee, in particolare quella del sobborgo, per combinare il dinamismo delle città con l’atmosfera più placida delle campagne. Ma quasi tutte le loro riforme hanno fatto un buco nell’acqua, e la vita urbana è più fulminea e stressante che mai. Il desiderio di fuggire cresce di giorno in giorno, il che spiega perché Un anno in Provenza (il volume in cui Peter Mayle racconta di aver traslocato con la famiglia dall’Inghilterra a un idillico villaggio francese) ha venduto milioni di copie in tutto il mondo dopo essere stato pubblicato nel 1991 e vanta legioni di imitatori. Oggi siamo sommersi di libri e documentari su cittadini che vanno ad allevare polli in Andalusia, vendono ceramiche in Sardegna o gestiscono alberghi nelle Highlands scozzesi. Alla periferia delle metropoli nordamericane, aumenta la richiesta di cottage per il fine settimana. Persino i giapponesi, che hanno deriso a lungo la campagna definendola antimoderna, riscoprono la gioia di pedalare tra le risaie e di scarpinare in montagna. Un tempo disprezzata per il suo ritmo di vita lento, la regione di Okinawa è ora un polo di attrazione per gli elegantoni di città ansiosi di uscire dalla corsia di sorpasso.
Probabilmente, il culto della tranquillità rurale è più diffuso in Gran Bretagna, dove l’urbanizzazione iniziò presto e dove le città perdono millecinquecento abitanti la settimana. Gli agenti immobiliari cercano di rendere più allettanti le aree urbane promettendo un’«atmosfera suggestiva» ossia negozietti, spazi verdi e zone pedonali. A Londra, le case dei sobborghi costruiti secondo i principi di Green City hanno prezzi stratosferici. I giornali sono zeppi di pungenti rubriche scritte da cittadini che hanno messo su casa in un angolino di Arcadia. Alcuni dei miei trenta e rotti amici hanno fatto il grande passo, scambiando la metropoli con fangosi stivaloni di gomma. Pur continuando quasi tutti a lavorare in città, trascorrono il resto del tempo a vivere, o a cercare di vivere, come i personaggi di un romanzo di H.E. Bates.
Naturalmente, non possiamo andarcene tutti da Londra, Tokyo o Toronto. Anzi, se venissimo messi alle strette, probabilmente non vorremmo nemmeno farlo. Amiamo l’ebbrezza della metropoli e consideriamo la campagna un ritiro per la vecchiaia. In certa misura, concordiamo con quanto Samuel Johnson scrisse nel 1777: «Se qualcuno è stanco di Londra è stanco della vita: perché a Londra si trova tutto quello che la vita può darci». Molti di noi desiderano tuttavia un ritmo un po’ meno spasmodico. Ecco perché Città Slow affascina l’immaginazione e le sue idee prendono piede in tutto il mondo.
Tokyo è un tempio della velocità, una giungla turbinosa di grattacieli, fast food e insegne al neon. All’ora di pranzo, i lavoratori trangugiano grossi piatti di minestra nei noodle bar senza nemmeno sedersi. I giapponesi hanno persino un proverbio che riassume la loro ammirazione per la rapidità: «Mangiare in fretta e defecare in fretta è un’arte». Molti stanno tuttavia abbracciando l’idea secondo cui, in materia di urbanistica, lento può essere sinonimo di meglio. Gli architetti di grido innalzano edifici studiati appositamente per aiutare gli occupanti a prendersela comoda. Il quartiere di Shiodome, che sta sorgendo nel cuore di Tokyo e che verrà completato nel 2006, sarà un’oasi di Slow Life. Le strutture dedicate al tempo libero (un teatro, un museo e vari ristoranti) si annideranno tra i nuovissimi palazzi di uffici. Per esortare gli amanti dello shopping a riposarsi un po’, il centro commerciale avrà ampi corridoi fiancheggiati da invitanti poltrone firmate.
Il principio Slow va affermandosi anche nel settore dell’edilizia residenziale. Quasi tutti gli appaltatori giapponesi sfornano mediocri abitazioni fatte con lo stampo. Introdurre rapidamente le proprietà sul mercato è la priorità assoluta. Di recente, tuttavia, gli acquirenti hanno iniziato a ribellarsi allo sbrigativo approccio del bell’e pronto. Molti fondano cooperative che garantiscono loro il pieno controllo della pianificazione, della progettazione e della costruzione. Benché questo tipo di gestione diretta possa prolungare fino a sei mesi il tempo di realizzazione medio, ora sono più numerosi i giapponesi che accettano di pazientare in cambio di una casa più vivibile. Le domande di adesione alle cosiddette cooperative «Slow Housing» hanno registrato un netto aumento, e persino gli appaltatori tradizionali cominciano a offrire più scelta ai clienti.
Tetsuro e Yuko Saito incarnano alla perfezione la tendenza dell’edilizia lenta. Nella primavera del 2002, i due giovani redattori hanno traslocato nel bel palazzo di quattro piani costruito dalla loro cooperativa a Bunkyo, un quartiere agiato nel centro di Tokyo. L’erezione dell’edificio, affacciato su un tempio scintoista, ha richiesto sedici mesi rispetto ai dodici consueti. Ogni appartamento ha uno stile e una configurazione diversi, che spaziano dalla tradizione giapponese classica al futurismo fantascientifico. I Saito hanno scelto il minimalismo a pianta aperta, tutto faretti, pareti bianche e balaustre di acciaio. La coppia ha avuto molto tempo per decidere i dettagli, compresa la posizione della scala, della cucina e dei pensili. Ha inoltre avuto la possibilità di posare un parquet di legno duro e creare un giardino in miniatura sul balcone. Il prodotto finale fa sfigurare la maggior parte delle dimore giapponesi.
«È valsa davvero la pena di aspettare» dichiara Tetsuro sorridendo davanti a una fumante tazza di tè verde. «Durante la costruzione, alcuni acquirenti hanno perso la pazienza (ci sono state parecchie liti e discussioni) e hanno chiesto di accelerare le cose. Ma alla fine tutti hanno compreso i vantaggi della lentezza.»
In una città in cui molti stentano a riconoscere i propri vicini, i Saito sono in ottimi rapporti con gli altri abitanti del palazzo. Sta meglio anche il loro conto corrente: facendo a meno dell’appaltatore, la cooperativa ha infatti risparmiato una fortuna. L’unica pecca è il fatto che, appena usciti dall’edificio, i due giovani si ritrovano subito sull’inarrestabile tapis roulant di Tokyo. «Avremo anche progettato la nostra casa con calma» commenta Yuko, «ma la città è ancora velocissima, ed è difficile credere che stia cambiando.»
È una lamentela ricorrente: le grandi città sono e saranno sempre veloci. È inutile cercare di rallentarle, giusto? Sbagliato. Nelle metropoli di tutto il mondo, i principi della filosofia Slow vengono applicati alla vita urbana con ottimi risultati.
Ne sono una dimostrazione le «politiche del tempo urbano», che debuttarono in Italia negli anni Ottanta e si sono ormai diffuse in Francia, Finlandia, Germania e nei Paesi Bassi. Si prefiggono di rendere la quotidianità meno convulsa armonizzando gli orari di apertura di scuole, negozi, uffici, cliniche, biblioteche e circoli giovanili. Il municipio di Bra funziona ora anche il sabato mattina per consentire agli abitanti di sbrigare le faccende burocratiche con maggiore serenità. Bolzano ha scaglionato le lezioni scolastiche per mettere meno fretta alle famiglie. Adesso i medici di Amburgo ricevono dopo le diciannove e il sabato mattina per ridurre la pressione sulle madri che lavorano. Un altro esempio di rallentamento della vita urbana è la guerra al baccano. Per salvaguardare la pace e la tranquillità, una nuova direttiva dell’Unione Europea obbliga tutti i grandi centri a diminuire i livelli di rumorosità dopo le sette di sera. Anche Madrid ha lanciato una campagna per persuadere i suoi chiasso...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. INTRODUZIONE - L’era dell’ira
  6. Fate tutto più in fretta
  7. Lento è bello
  8. Il cibo: la lentezza a tavola
  9. La città: una fusione tra il vecchio e il nuovo
  10. La mente e il corpo: mens sana in corpore sano
  11. La medicina: i dottori e la pazienza
  12. Il sesso: un amore in corsa? No, grazie
  13. Il lavoro: i benefici di un ritmo meno snervante
  14. Lo svago: l’importanza di essere pigri
  15. I bambini: come trasformarli in adulti pazienti
  16. CONCLUSIONE - Come trovare il tempo giusto
  17. Note
  18. Bibliografia
  19. Ringraziamenti