Ora che so
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Ora che so

  1. 377 pagine
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Ora che so

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Informazioni sul libro

Tre ragazzi. Tom, che indaga sullo strano caso di un cadavere ritrovato appeso a una gru. Nik, che sta lavorando a un film sulla vita di un Gesù contemporaneo. E infine Julie, bloccata in un letto d'ospedale e fasciata dalla testa ai piedi. Tra lettere, poesie, appunti, flashback, tre storie che si intrecciano e danno vita a un romanzo intenso e drammatico, teso e provocatorio, sull'amore, la crescita, la scoperta di sé.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
ISBN
9788858673553

RITIRO

APPUNTI DI NIK: Ora so che devo stare calmo.
Ora so che devo scrivere in modo chiaro.
Ora so che la mia vita ha preso una nuova direzione, e devo orientarmi.
Lo so perché sono appena rientrato dall’ospedale.
Quello che ho visto lì me l’ha insegnato.
Mi ci ha portato il vecchio vicario. La madre di Julie gli ha telefonato. Julie chiedeva di me, chiamando il mio nome dalle profondità dell’inconscio.
Hanno chiesto al vicario di portarmi da lei, nella speranza che la mia presenza le potesse essere d’aiuto in qualche modo.
Siamo andati là con la sua Volvo malconcia, grande abbastanza per le dimensioni del vicario, grande abbastanza per Vecchio Compagno abbandonato su sporchi stracci sgualciti nel retro. Non grande abbastanza, però, da disperdere il fetore di decomposizione proveniente da lui. Ma ci ho fatto appena caso, dopo i primi minuti di soffocamento.
Abbiamo percorso la stessa strada di cinque giorni fa. Allora al buio, ora alla luce. Fissavo le cose che non avevo visto quella notte ma non riuscivo a vederle nemmeno ora. Non riuscivo a pensare a esse. Il mio cervello era in stallo. Non si spostava da Julie.
Cerco con tutto me stesso di scrivere questo meglio che posso. Per Julie.
Grazie a lei, alla vista di lei, una voce diversa parla nella mia mente, ora. Ma trovare le parole adatte, metterle nel giusto ordine, è qualcosa che richiede tempo. La punta del dito verde sullo schermo cancella e inserisce e riposiziona le parole infinite volte, e con lunghe pause, mentre io cerco nel silenzio di ascoltare la voce nuova, che giunge come se fosse un debole segnale radio da molto lontano.
Ma scrivere – mettermi a scrivere – mi placa, anche.
Attraversando Banbury abbiamo visto un funerale.
Ho pensato: Ho diciassette anni e non sono ancora morto.
Una madre con un bimbo piccolo in braccio era in piedi accanto alla bara e la osservava mentre veniva caricata sul carro funebre.
Ho pensato: Ho diciassette anni e sto nascendo di nuovo.
Nello scrivere questo ora penso: Il dito verde scrive la mia nascita.
Non avevo mai avuto simili pensieri prima. Da dove mi vengono?
È anche per questo che so di avere cambiato direzione. Di essere cambiato.
Non mi piacciono gli ospedali. Non mi piace il loro aspetto da caserme, il tintinnante rumore pulito e metallico di sottofondo, l’odore disinfettato, la contenuta aria di calamità, di dolore celato con coraggio dietro sorrisi forzati che vi si respira. Non mi piace il modo in cui si rendono la malattia e la sofferenza uno spettacolo pubblico.
Per anni e anni puoi essere in salute e vivere la tua vita in privato. Ma quando ti ammali, ti ammali seriamente, vieni messo in una stanza pubblica con degli estranei e lì devi esporre i più intimi dettagli della tua vita alla vista di tutti. E questo capita nel momento in cui, poiché sei così ammalato, avresti più bisogno di intimità. Una doppia sofferenza. Una tortura organizzata.
Ma mi sento a disagio a scrivere questo. Perché un’altra cosa che non mi piace degli ospedali è che mi fanno sentire come se dovessi essere eternamente grato del fatto che esistono. La minima critica sembra blasfema, un peccato, per il quale potrei essere punito beccandomi una terribile, vendicativa malattia. Ma questa è superstizione.
STACCO: Julie nel suo letto di ospedale nel reparto di terapia intensiva. I suoi occhi bendati ma il resto della faccia visibile, bruciato. Senza capelli sulla fronte, bruciati via anch’essi, è grottescamente pelata. Le braccia distese lungo i fianchi, ricoperte da bende racchiuse in polietilene trasparente, terminano in quelli che paiono monconi informi. Il resto del corpo è coperto da un lenzuolo singolo e sembra a forma di barile poiché una gabbia posta intorno a esso impedisce al lenzuolo di toccarlo. Nik è in piedi al lato del letto tra un’infermiera, la Simmo, e il vicario, con una donna di mezza età, la madre di Julie, dietro di loro.
Nik sta fissando Julie, inorridito. La testa di lei si muove lentamente di qua e di là. Cerca di alzare una mano che però crolla giù, come trascinata da un peso. Si lamenta, un suono agonizzante, angosciante, appena decifrabile come il nome di Nik.
Il volto di Nik ha un cedimento. D’istinto, allunga una mano verso quella di Julie, ma esita quando quella di lei ricade. Poi, lentamente, posa la propria mano con delicatezza sulla guancia della ragazza.
I lamenti di Julie cessano. E anche lo scrollare della testa.
Per un momento la stanza intera si riempie di tensione, è come in attesa.
Lentamente metti a fuoco un’inquadratura in primo piano del viso di Julie. La mano di Nik sulla sua guancia.
Silenzio, a parte il suono dei macchinari clinici e del respiro di Julie, che via via si assesta in un ritmo calmo, quieto.
Poi, con un movimento appena percettibile, la testa di Julie si appoggia alla mano di Nik e vi si accoccola contro.
Julie sospira.
Nell’auto, tornando indietro, il mondo era lacerato.
Niente nella mia vita mi ha mai straziato tanto come la vista di Julie.
Sì, ho visto cose peggiori, persino più terribili. Immagini alla tivù di migliaia di persone che muoiono di fame nella siccità africana. Vecchi spezzoni di video della seconda guerra mondiale dei campi di concentramento nazisti con cumuli di corpi nudi ed emaciati a marcire fuori dalle camere a gas attorno alle quali i sopravvissuti si trascinano come fantasmi. Queste sono due delle peggiori in assoluto. Mi si sono impresse nella memoria. Anche solo pensarci mi fa stare male. Ma non nello stesso modo, non in un modo così devastante, per qualche motivo, come la vista di Julie e pensare a lei adesso.
Perché ho sentito la sua carne bruciacchiata sul palmo della mia mano e il suo dolore è giunto fino alle mie ossa.
Quegli altri, più grandi orrori, li aveva visti qualcun altro per me. Cameraman, inviati. Degli spioni che sbirciano queste cose per professione. Le loro immagini si frapponevano tra me e quegli affamati africani che stavano morendo proprio in quel momento, e tra me e quegli uomini, donne e bambini umiliati spinti come bestie verso la morte prima che io fossi nato.
Sapere degli africani affamati e degli ebrei massacrati mi fa star male, mi fa arrabbiare, mi intristisce, ma non mi cambia.
Sapere di Julie mi ha cambiato già a poche ore di distanza dall’averla vista. Anche se non sono ancora sicuro di come.
Ma essere lì, posare la mia mano sulla sua sofferenza, è stato ciò che lo ha causato.
Ci sono due diversi modi di sapere. Ora so anche questo. Due diversi tipi di conoscenza. Uno è la conoscenza della storia. L’altro è la conoscenza della mia stessa vita, del mio stesso essere.
E ora so anche perché l’uomo che fu San Tommaso non voleva né poteva credere, fino a quando non ebbe messo il dito nelle piaghe lasciate dai chiodi sul corpo di Cristo. Non lo si dovrebbe ricordare come colui che ha dubitato, ma come colui che più di ogni altro ha saputo.
Ogni Io è un Tu; ogni Tu è un Io.
Eravamo fuori da Bedford prima che uno di noi due fosse riuscito a dire qualcosa. Io non avrei potuto. Troppo scosso. Troppo vicino alle lacrime. Credo anche il vecchio vicario.
Come si parla di certe cose? Come si può scrivere di esse, quando si giunge a tanto? Senza sminuirle, dico.
Senza offenderle.
Come dico simili verità?
Non lo so.
Perché ci provo?
Non lo so.
So solo che voglio provare. Che ci devo provare.
Non a parlarne. A scriverne.
Devo dunque tentare di scoprire come scrivere la verità.
Non per Len Stanley. Non per quello stupido film.
Per Julie. Per me.
Il vicario ha rotto il silenzio dopo la strettoia che porta fuori da Bedford, la stessa che aveva seminato zizzania tra me e Julie.
Non stava a lui darmi dei consigli, ha detto, ma non mi sembrava forse una buona idea andarmene da qualche parte per un po’, cambiare aria, fare qualcosa di diverso, lontano da giornalisti e amici troppo gentili? Non c’era nient’altro che io potessi fare per aiutare Julie in quel momento, ha detto, e sarei stato più capace di aiutarla, in seguito, quando fosse stata in convalescenza, se ero in forma e stavo meglio.
Io ho detto che non sapevo dove andare o cosa avrei potuto fare, e che non avevo soldi, in ogni caso.
Il vicario ha detto che non voleva insistere su questo punto, ma che potevo prendere in considerazione quella cosa dei monaci di cui mi aveva parlato in precedenza.
Sarebbe stato felice di accompagnarmi da loro e di venirmi a prendere e i monaci non facevano pagare nulla per stare da loro, perciò non avrei avuto bisogno di soldi né per il viaggio né per l’alloggio.
E c’erano sempre un mucchio di cose da fare dalle parti del loro convento o nell’orto, se volevo ripagarli o tenermi occupato. E poi, ha detto, cercando di convincermi, avrei raccolto del materiale in più per la mia ricerca.
Io ho detto che ci avrei pensato, ne avrei parlato col nonno e gli avrei fatto sapere. Il vicario ha detto: Mi è già capitato di incontrare gente che mi dice che mi farà sapere. Spesso poi non lo fa. Perciò, se non ti dispiace, chiamo ora e sento quello che ne pensa tuo nonno.
E lo ha fatto. Il nonno è stato gentile, attenzione attenzione. Pensavo che si sarebbe messo a ridere all’idea. Non sopporta nulla che abbia a che fare con la chiesa, di solito. Ma ha detto: Va’, togliti di mezzo, sarà meglio che star qui a oziare tutto il giorno.
Non sono sicuro. Andarci sembra un tradimento nei confronti di Julie. Come andare in vacanza mentre lei non può. Voglio essere qui, pronto, nel caso che. Ma il nonno dice che non ha senso. Che mi possono passare a prendere al monastero così come possono farlo se sono a casa.
Erano entrambi dell’idea. Io ho discusso, ma poi il vicario ha detto che avremmo dovuto chiedere il parere del medico, e gli ha telefonato. Un bel po’ di conversazione tra compari; era chiaro che si conoscevano bene. Il dottore ha detto che se me la sentivo era una buona idea.
Così alla fine ho detto di sì, e il vicario ha telefonato al suo amico monaco e si sono messi d’accordo per portarmi lì.
«Potrebbero essere di chiunque» disse il sergente.
«Ma potrebbero essere i suoi» disse Tom.
«Potrebbero essere lì da mesi.»
«Non sembra. La scientifica lo scoprirà.»
«Facciamoglieli avere. Ci vorrà un giorno o due.»
Tom rifletté, poi disse: «Supponiamo che il nostro ragazzo viva qui intorno. E supponiamo che abbia comperato i suoi occhiali da un ottico locale. E supponiamo che l’ottico faccia occhiali su misura per i propri clienti. Avremmo una traccia, non è così, sergente?»
«Ci sono un po’ troppi supponiamo.»
«Non possono esserci tantissimi ottici in città» disse Tom, e si protese per prendere le pagine gialle. «Vale la pena di tentare. Se non veniamo a capo di niente, gli occhiali possono comunque essere passati alla scientifica entro oggi.»
Trovò la pagina, seguì l’elenco con un dito.
«Quattro. Un ottico-ottico. Tre ottici optometristi, quale che sia la differenza. Tutti in centro. Non ci sarà da sudare.»
Scribacchiò nomi e indirizzi nel suo taccuino, rimise con cura gli occhiali dentro la busta protettiva, strizzò l’occhio al sergente, disse: «Ci provo» e si avviò alla porta.
LETTERE DI NIK:
Cara Julie:
Sono nel monastero che il vecchio vicario voleva che visitassi. Mi ha portato qui oggi. Pensano che cambiare aria mi faccia bene, dopo quello che è capitato. Almeno tu sei uscita dal coma. È meraviglioso.
So che non potrai leggere questa lettera da sola. Forse te la leggerà una delle infermiere. Ad ogni modo, volevo che sapessi dove mi trovo. Hanno detto che posso telefonare ogni giorno per avere notizie su come stai, e anch’io ti manderò da qui messaggi ogni giorno, come una spia in terra straniera.
Questo posto non è per niente come mi aspettavo che fosse. E siccome so che sei una patita di monasteri, te lo descriverò, così ne avrai un altro – e uno maschile! – da aggiungere alla tua collezione.
La casa è molto grande, un edificio di pietra squadrato, in un parco pubblico al confine con la città. Di sotto ci sono quattro ampie stanze e un salone centrale con tre enormi finestre, in stile Reggenza, che danno sul parco, e un imponente scalone di pietra con una ringhiera di ferro battuto che si arriccia ai lati. Piuttosto grandioso, devo dire. Il palazzo era del sedicesimo secolo, ma quello che si vede ora è del primo diciannovesimo, quando un ricco investitore ha pensato che sarebbe stato carino farne il proprio cottage di campagna. E che cottage! Si è anche preso cura del terreno intorno. Ora l’intera proprietà appartiene al comune, che affitta la casa ai monaci perché nessun altro la vuole, a quanto pare. Il parco è pubblico e lo si può usare per portarci a spasso i cani, fare jogging eccetera, e naturalmente per attività abominevoli che certo devono essere educative per i monaci!
Una delle stanze è la sala da pranzo. I monaci la chiamano il refettorio. Una è il soggiorno, con poltrone di seconda mano che ti inghiottono e una manciata di tappetini malridotti su un pavimento di legno tirato a cera. Loro la chiamano la stanza dei visitatori. È lì che ricevono le persone che sono solo di passaggio. Poi c’è la cucina. Grande abbastanza per tutte le normali attrezzature moderne tipo forni, fornelli ecc. più un tavolo da otto posti. E la stanza vicina alla porta principale è la cappella. Pareti bianche. Nudi pavimenti di legno lucidato.
La cappella è rivestita in quercia scura dai giorni dei ricchi proprietari. C’è un altare moderno, una tavola quadrata di quercia chiara sostenuta da un piedistallo che si allarga salendo, così che il tutto pare una fontana di legno. Al nonno piacerebbe: un bel lavoro d’artigianato. Più una scultura di legno che un normale altare. È al centro, in diagonale, come un diamante in una stanza cubica. Un lampadario di acciaio inossidabile a forma di corona è appeso proprio sopra. Le tre pareti sono percorse da lunghe panche per la preghiera, anch’esse di quercia chiara, sostenute da gambe di acciaio inossidabile, ognuna con circa sei posti a sedere. Al di sopra del rivestimento di legno, che arriva fino ai tre quarti dell’altezza, le pareti e il soffitto sono dipinti di bianco. Luci a forma di grandi globi bianchi sono appese sopra le panche. Le finestre sono a battenti e danno sul parco. Il pavimento è lucido. Non ci sono immagini religiose, a parte una semplice croce di legno, anch’essa di quercia chiara, sistemata sulla parete priva di panche. Sotto di essa c’è un leggìo fatto di assicelle di quercia chiara, sulle quali è appoggiata una Bibbia per le letture durante le messe (che i monaci chiamano “funzioni” – ma suppongo che tu questo lo sappia). È un posto piuttosto austero, ma vi regna una bella pace e c’è profumo di incenso, che mi piac...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Anteprime
  5. Tutta la scrittura è disegno
  6. Inizi
  7. Carte d’identità
  8. Incontri
  9. Rivelazioni
  10. Progressi
  11. Assalto
  12. Ritiro
  13. Propositi
  14. Stoccate finali
  15. Resoconti
  16. Fonti dei materiali d’archivio