Il gabbiano Jonathan Livingston
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Il gabbiano Jonathan Livingston

  1. 144 pagine
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Il gabbiano Jonathan Livingston

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Il gabbiano Jonathan Livingston non è come tutti gli altri. Là dove i suoi simili, schiavi di becco e pancia, si limitano a viaggetti per procurarsi il cibo inseguendo le barche da pesca, lui intuisce nel volo una bellezza e un valore assoluti. Tanto basta per meritargli il marchio dell'infamia e l'allontanamento dallo stormo Buonappetito. Solo, audace, sempre più libero, Jonathan il Reietto scopre l'ebbrezza del volo acrobatico e varca i confini di altri mondi, altre dimensioni abitate da gabbiani solitari simili a lui nella spasmodica fame e sete di perfezione. Ne diventa la guida, il maestro, il capo indiscusso, e tra i compagni incontrerà chi senza saperlo è pronto a raccogliere la sua eredità. Il romanzo-culto degli anni Settanta torna in una nuova versione che comprende una parte inedita, la quarta: quando la devozione per Jonathan, venerato come un dio, rischia di soffocare il suo messaggio, toccherà a un altro gabbiano ribelle come lui ritrovare con un gesto estremo la pura gioia del volo. "Con questo libro Richard Bach mi ha procurato due gioie: mi ha fatto volare e sentire giovane. Di entrambe gli sono profondamente grato." - Ray Bradbury

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2014
ISBN
9788858674703
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Prima parte

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Era mattina, e il sole nuovo brillava d’oro sulle increspature di un mare tranquillo. A un miglio dalla costa una barca da pesca gettava pastura nell’acqua, e la voce si diffuse come un lampo nello Stormo Buonappetito, attirando una folla di mille gabbiani pronti ad azzuffarsi per qualche boccone. Era l’inizio di un’altra dura giornata.
Ma molto lontano, isolato, solo, molto più in là della barca e della riva, il Gabbiano Jonathan Livingston si stava allenando. A cento piedi di altezza nel cielo, abbassò le zampe palmate, alzò il becco e si tese per mantenere la dolorosa torsione delle ali che gli consentiva di volare piano, e infatti rallentò finché il vento non fu un sussurro, finché l’oceano non fu immobile sotto di lui. Strizzò gli occhi, tutto concentrato, trattenne il fiato, un altro sforzo… solo… un altro… pollice… di torsione… Poi gli si arruffarono le piume, andò in stallo e precipitò.
I gabbiani, come sapete, non vacillano mai, non vanno mai in stallo. Andare in stallo è disgrazia e disonore.
Ma il Gabbiano Jonathan Livingston, intrepido, pronto a tendere le ali un’altra volta in quella complicata torsione che lo faceva tremare tutto – rallenta, rallenta, e vai di nuovo in stallo – non era un uccello come gli altri.
Un gabbiano non si preoccupa di apprendere altro che l’abc del volo: come andare dalla riva al cibo e ritorno. Per un gabbiano l’importante non è volare, è mangiare.
Per quel gabbiano però l’importante non era mangiare, ma volare. Più di ogni altra cosa, il Gabbiano Jonathan Livingston amava volare.
Quel genere di idea, scoprì, non aiuta a diventare popolari tra gli altri uccelli. Perfino i suoi genitori erano costernati quando Jonathan passava giorni interi da solo, tentando centinaia di planate a bassa quota, sperimentando.
Non sapeva come mai, per esempio, quando volava sull’acqua a un’altezza che era meno della metà della sua apertura alare riusciva a restare in aria più a lungo, con minor sforzo. Le sue planate non si concludevano con il solito tuffo in mare zampe in avanti, ma con una lunga scivolata piatta, sfiorando la superficie con le zampe aderenti al corpo. Quando cominciò a planare atterrando con le zampe vicine al corpo anche sulla spiaggia, misurando poi coi passi la lunghezza della scivolata sulla sabbia, i suoi genitori furono davvero costernati.
«Perché, Jon, perché?» gli chiese sua madre. «Perché è tanto difficile essere come il resto dello Stormo, Jon? Perché non puoi lasciare il volo a bassa quota ai pellicani e agli albatros? Perché non mangi? Figliolo, sei penne e ossa!»
«Non m’importa se sono penne e ossa, mamma. Voglio solo sapere cosa posso fare e cosa non posso fare per aria, tutto qui. Voglio soltanto sapere.»
«Senti, Jonathan» disse suo padre con dolcezza. «Non manca molto all’inverno. Le barche saranno poche, e i pesci nuoteranno in acque profonde. Se devi studiare, allora studia il cibo, e come procurartelo. Questa storia del volo va benissimo, ma non puoi mangiare una planata, sai. Non dimenticare che la ragione per cui voli è mangiare.»
Jonathan annuì obbediente. Per qualche giorno cercò di comportarsi come gli altri gabbiani; ci provò sul serio, strillando e litigando con lo Stormo attorno ai moli e ai pescherecci, tuffandosi sugli avanzi di pesce e sui tozzi di pane. Ma non ci riusciva proprio.
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È tutto così inutile, si disse infine, lasciando cadere apposta l’acciuga per cui si era battuto verso un vecchio gabbiano affamato che lo inseguiva. Potrei usare tutto questo tempo per imparare a volare. Ci sono tante cose da imparare!
Ben presto il Gabbiano Jonathan fu di nuovo solo, in mare aperto, affamato, felice, a imparare.
La sua materia era la velocità, e in una settimana di sforzi imparò sulla velocità più cose del gabbiano più veloce del mondo.
Da un migliaio di piedi, agitando le ali più che poteva, si lanciò in vertiginosa picchiata verso le onde, e imparò come mai i gabbiani non si lanciano in vertiginose picchiate. Tempo sei secondi e filava a settanta miglia all’ora, velocità alla quale l’ala diventa instabile nella fase ascendente.
Successe più e più volte. Per quanto si concentrasse e lavorasse al massimo della sua capacità, ad alta velocità perdeva il controllo.
Salire a mille piedi. Avanti diritto, al massimo, poi prepararsi alla picchiata agitando le ali. E poi, tutte le volte, l’ala sinistra andava in stallo in fase ascendente, lui scivolava violentemente a sinistra, andava in stallo mentre cercava di recuperare con l’ala destra e si avvitava a destra danzando come una fiamma.
Non riusciva a controllare abbastanza la fase ascendente. Tentò dieci volte, e tutte e dieci, raggiunte le settanta miglia l’ora, si ridusse a una massa arruffata di piume, perse il controllo e urtò contro l’acqua.
La chiave, pensò infine, bagnato fradicio, dev’essere tenere le ali ferme alle alte velocità: arrivare a cinquanta miglia e poi tenere le ali ferme.
Riprovò da duemila piedi, rollando, poi in picchiata, il becco puntato in giù, le ali dispiegate e immobili dal momento in cui superò le cinquanta miglia all’ora. Gli ci volle una forza terribile, ma funzionò. In dieci secondi era un proiettile lanciato a novanta miglia all’ora. Jonathan aveva stabilito il record mondiale di velocità gabbiana!
Ma la vittoria fu di breve durata. Non appena cercò di uscirne, non appena cambiò l’angolatura delle ali si ritrovò nello stesso vortice incontrollato, e a novanta miglia all’ora fu come dinamite. Il Gabbiano Jonathan esplose a mezz’aria e si schiantò contro un mare duro come il muro.
Quando tornò in sé era buio da parecchio. Galleggiava sulla superficie dell’oceano, al chiaro di luna. Le ali lacere erano barre di piombo, ma il peso del fallimento era ancora più opprimente. Provò il vago desiderio che quel peso lo trascinasse dolcemente a fondo, per farla finita.
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Mentre sprofondava nell’acqua, dentro di lui echeggiò una strana voce sorda. Non c’è modo. Sono un gabbiano. Sono limitato dalla mia natura. Se dovessi imparare tante cose sul volo, avrei delle mappe al posto del cervello. Se dovessi volare in velocità, avrei le ali corte di un falco, e vivrei di topi invece che di pesci. Mio padre ha ragione. Devo dimenticare questa sciocchezza. Devo volare a casa dallo Stormo e accontentarmi di quello che sono, un povero gabbiano limitato.
La voce svanì, e Jonathan assentì. Il posto per un gabbiano di notte è la riva, e da quel momento promise di essere un gabbiano come gli altri. Sarebbero stati tutti più contenti.
Si levò stancamente sull’acqua scura e volò verso terra, contento per ciò che aveva appreso sul volo a bassa quot...

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  3. Prima parte
  4. Seconda parte
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