Intervista con la storia
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Intervista con la storia

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Intervista con la storia

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"Non riesco a escludere che la nostra esistenza sia decisa da pochi, dai bei sogni o dai capricci di pochi, dall'iniziativa o dall'arbitrio di pochi... Certo è un'ipotesi atroce. Ancor più sconsolato ti chiedi come siano quei pochi: più intelligenti di noi, più forti di noi, più illuminati di noi, più intraprendenti di noi? Oppure individui come noi, né meglio né peggio di noi, creature qualsiasi che non meritano la nostra collera, la nostra ammirazione, la nostra invidia?" Così scrive la Fallaci nella premessa a Intervista con la storia, testo appassionato e coraggioso che raccoglie le interviste di Oriana alle figure che hanno segnato il corso del secondo Novecento, da Henry Kissinger a Willy Brandt, da Golda Meir a Indira Gandhi, da Arafat a Hussein di Giordania, da Nenni ad Amendola, fino a Giulio Andreotti. Pubblicato nel 1974, il libro trasmette tutta la caparbietà della Fallaci, la sua voglia di capire il mondo e gli uomini, il suo stile inconfondibile, la forza della sua scrittura. E ancora oggi risuona come una condanna spietata del potere, un invito alla disubbidienza, un inno appassionato alla libertà.

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Informazioni

INTERVISTA CON LA STORIA
A tutti coloro
che non amano il potere
e
alla memoria
di mia madre
Tosca Fallaci
e del mio compagno
Alessandro Panagulis

Prefazione

di Federico Rampini

«Ah, se qualcuno avesse intervistato Gesù Cristo per fermarne la voce, le idee, le parole! Ah, se qualcuno avesse interrogato con una macchina da presa Napoleone!»
L’ambizione non le mancava: quel “qualcuno” naturalmente avrebbe voluto essere lei, Oriana Fallaci. Dei suoi contemporanei, pochi riuscirono a sottrarsi alla sua curiosità implacabile, a quegli interrogatori che potevano all’improvviso trasformarsi in requisitorie, arringhe, atti di accusa. Quello che non è possibile fare con la storia antica, lei lo ha compiuto con i personaggi-chiave della seconda metà del XX secolo. Ci ha consegnato una indimenticabile galleria di protagonisti internazionali del suo tempo: statisti di governo e di opposizione, leader democratici e dittatori, pacifisti umanitari e guerrieri, capi spirituali, ideologi, uomini d’azione. In questa raccolta d’interviste la storia mondiale si fa umana, concreta, animata da personaggi in carne e ossa, messi a nudo nelle loro storie private, nelle loro sofferenze e nei loro sogni, nei loro vizi, nelle loro debolezze, qualche volta perfino nella loro irritante mediocrità. Pochi tra i potenti della terra osarono resistere al suo assedio, alle sue richieste incalzanti. Perché la Fallaci regista e autrice di queste interviste si era già conquistata un prestigio e un’autorevolezza internazionali. Era nota come uno dei grandi reporter dell’epoca, era stata inviata in tutti i continenti, testimone in presa diretta di conflitti sanguinosi, guerre civili, colpi di Stato. Le sue domande ai leader non erano “fredde”, non nascevano da un’agenda astratta di problemi, ma scaturivano spesso dai ricordi personali dell’inviata al fronte: davanti al premier o al generale di una potenza nucleare, davanti al segretario di Stato americano o al dittatore militare di un paese del Terzo mondo, armata del suo solo taccuino da giornalista lei s’identificava con le vittime dei bombardamenti, con i popoli oppressi, con gli oppositori in carcere, con i dissidenti torturati e uccisi. Attraverso le sue domande l’umanità intera chiede dei conti ai potenti.
È importante situare queste interviste nel loro contesto, gli anni Settanta del secolo scorso: un’èra per molti versi già lontanissima, per le regole della comunicazione, lo stile e il costume giornalistico. Era un’epoca in cui molti statisti consideravano come un dovere legato al loro ruolo quello di praticare la reticenza verso i mass media; coltivavano la discrezione come un’autodifesa, osservavano la regola della riservatezza a garanzia della propria immagine. Trent’anni dopo, l’intervista è diventata un genere apparentemente facile, abusato, certamente inflazionato. Molti politici si sono trasformati in giullari che trascinano la loro immagine da un talk-show televisivo all’altro: passano la maggior parte del loro tempo a raccontarsi in pubblico, in una sorta di continuo, impudico e stucchevole striptease virtuale. Non era così all’epoca di queste “interviste con la storia”. Allora per la giornalista ogni incontro era una conquista, una fortezza espugnata, uno scoop, una miniera d’informazioni altrimenti inaccessibili. La Fallaci si preparava a quegli appuntamenti come ci si allena per un duello. Affrontava la sua preda usando ogni genere d’arma: dalla seduzione femminile alla complicità, dalla provocazione allo scherno. Era un’interlocutrice esigente, irriverente, ribelle. All’occorrenza sapeva far leva sull’astio, le invidie, i rancori e le ripicche personali degli intervistati mettendoli figurativamente gli uni contro gli altri. I suoi colloqui paralleli con Henry Kissinger e con il generale Giap, i due avversari nella guerra del Vietnam, oppure con Golda Meir e Arafat, Indira Gandhi e Bhutto sono esempi in cui la reporter “gioca” sulla triangolazione delle accuse, mette in scena una sorta di confronto a distanza tra grandi rivali.
In queste interviste, nelle vicende che raccontano, ritroviamo le radici della nostra storia contemporanea, le origini di conflitti sempre aperti, gli errori strategici che vengono pagati ancora oggi. La lettura di queste pagine fa strani scherzi ottici, come attraverso un’antica galleria degli specchi ricurvi. Alcune di queste conversazioni sembrano vicinissime, tanto attuali sono i temi trattati: per esempio l’intervista allo sceicco Yamani, ministro del Petrolio saudita, poco dopo la prima crisi energetica che vide aumentare del 130 per cento il prezzo del petrolio (ottobre 1973). Altri episodi sembrano lontanissimi, eppure densi di lezioni, come il gesto del cancelliere tedesco Willy Brandt in ginocchio a Varsavia nel ricordo delle stragi naziste nel ghetto ebraico, e le parole con cui si spiega, lui ch’era stato un oppositore di Hitler: «Non mi gettai in ginocchio perché avessi da confessare una colpa ma perché volevo identificarmi col mio popolo. Cioè col popolo da cui erano usciti coloro che avevano commesso cose tanto terribili. Quel gesto non era diretto solo ai polacchi. Era diretto anche ai tedeschi. Bisogna sopportare insieme quel peso». Sono parole oggi dimenticate, in un’epoca in cui tanti leader di potenze grandi o medie – dall’America alla Cina, dalla Russia al mondo islamico – sembrano vaccinati da ogni senso di colpa, allergici all’autocritica, affetti da pericolose amnesie storiche. La Fallaci si riconosce nei valori universali che sono sbocciati in Occidente – la liberaldemocrazia, i diritti umani, la libertà di informazione – e proprio per questo non ammette le incoerenze, non mostra indulgenza quando coglie l’Occidente in flagrante contraddizione con i suoi princìpi. Nel colloquio con il capo della CIA accusa l’America di avere sostenuto «in nome della libertà tutti coloro che uccidono la libertà»: dal generalissimo Franco in Spagna al golpista cileno Pinochet, fino ai dittatori fascisti dell’America latina o dell’Asia. Inorridisce e s’indigna di fronte alla realpolitik del segretario di Stato Kissinger: il quale continua a mandare giovani americani al massacro (nonché a far stragi di vietnamiti e cambogiani) mentre ha già deciso da tempo il ritiro dell’America dal fronte indocinese. Ma la Fallaci non è tenera neanche con chi combatte sul versante opposto, e infatti i leader vietnamiti l’accusano velatamente di essere manovrata dagli americani. Fa parte del suo destino professionale quell’essere sempre scomoda, sospetta, incontrollabile, sgradita a tutti i potenti che incontra: la Fallaci non ha scelto di essere una “ritrattista di corte”.
Nei preamboli accurati e divertenti che precedono ogni intervista lei non lascia da parte dettagli intimi: nulla deve restare fuori dal campo visivo del lettore, perché si formi un’idea completa del personaggio che sta per incontrare. Descrive a lungo il “bellone” biondo con gli occhi azzurri che lavora come guardia del corpo di Arafat, e lo indica come uno degli amanti del leader palestinese. Verso lo stesso Arafat è severa, cattiva, non esita a smontare il mito: lo trova deludente, spiega il suo presunto carisma come un’invenzione dei media. A posteriori, vista la miserrima eredità politica che Arafat ha lasciato al popolo palestinese dopo la sua morte, e la rapida demolizione del suo mito fra la sua stessa gente, questo è uno dei casi in cui l’intuito della Fallaci colse nel segno anzitempo, fu quasi profetico.
Verso alcune donne scatta una simpatia immediata, una solidarietà istintiva, e anche una scelta di campo dichiaratamente femminista. Giudica “fantastica” la premier israeliana Golda Meir, con la “modestia irritante” che le ricorda sua madre. Riesce perfino a trovarle femminilità e una forma di bellezza. La difende dalla volgare ironia maschile. Da una domanda alla Meir traspare quel che pensa in realtà la Fallaci stessa: «Una donna, per avere successo, deve essere molto più brava di un uomo». Naturalmente è la pura verità, e la giornalista italiana l’aveva sperimentata sulla propria pelle. Della premier indiana, Indira Gandhi, colpisce quel senso di solitudine delle donne al comando, gli enormi sacrifici nella vita familiare, la capacità di avere uno sguardo femminile sulla storia. La Fallaci coglie l’enorme importanza simbolica del potere di Indira in un paese dove la condizione femminile è ancora tragicamente arretrata: «È impossibile esser donna e non sentirsi riscattata, vendicata, da un successo che smentisce tutte le banalità con cui si giustificano il patriarcato e il predominio maschile». Indira, il figlio Rajiv Gandhi, il presidente Bhutto (padre di Benazir): colpisce anche la lunga lista di questi intervistati che in seguito sono finiti tragicamente, assassinati, nella scia di sangue che accompagna i destini di queste dinastie, e segna con un marchio infamante i conflitti nazionalistici o religiosi tuttora irrisolti.
Pochissime e preziose sono le interviste di personaggi italiani in questa raccolta. Non perché la Fallaci non amasse il suo paese, ma aveva interessi più vasti, altre priorità professionali. E poi faticava a decifrare l’Italia, la nauseavano i bizantinismi della politica. L’insofferenza è evidente nella domanda con cui apre l’intervista al leader socialista Pietro Nenni: «Arthur Schlesinger ha detto degli italiani: chi mai può capirvi se siete i primi a non capire voi stessi? Senatore Nenni, sono qui per chiederle di aiutarci a capire noi stessi e quel che accade oggi in Italia». Nella tortuosità del microcosmo politico romano la Fallaci si fa guidare da alcune scelte di campo: è antifascista, è risolutamente non-comunista, diffida del ruolo dei cattolici in politica, è avversa a ogni forma di totalitarismo (anche quando veste i panni dei giovani contestatori dell’estrema sinistra). Sa essere sferzante contro i vezzi del Pci: «A quel tempo, parlando con un non-comunista, i comunisti italiani avevano un’abitudine odiosa: trattarlo con ironia o condiscendenza, quasi avessero dinanzi a sé un cretino sul quale non era scesa la Pentecoste del marxismo, la Rivelazione». S’inchina però senza riserve davanti alla statura morale di Giorgio Amendola, e rende omaggio alla sua onestà intellettuale. È ammirata quando Amendola osa pronunciare questa severa lezione, così poco demagogica e sorprendente da parte di un capo dell’opposizione: «Senta, io lo dico sempre ai giovani: gli italiani non sono mai stati bene come oggi. Perlomeno, sono sempre stati peggio di oggi, hanno sempre mangiato meno. Quand’ero ragazzo io, la media del consumo di carne in Lucania era di un chilo all’anno pro capite. Le donne di Capri camminavano scalze e portavano sacchi di carbone dalla Marina in su. Siamo onesti: in Italia non s’è mai avuta tanta libertà».
Nella premessa la Fallaci è esplicita nel rivelare le sue regole del gioco, i princìpi che la ispirano, la sua idea di giornalismo. C’è in lei uno sfrontato rifiuto della neutralità. Sente il dovere di prendere sempre posizione. In questo atteggiamento c’è la radice del suo protagonismo: come un altro grande giornalista italiano, Indro Montanelli, anche la Fallaci non è mai “fuori campo”, è lei stessa un personaggio, sempre ben visibile nei suoi racconti, agli antipodi delle tradizioni anglosassoni del mestiere. Verso i potenti che frequenta prova attrazione e repulsione: sono interlocutori indispensabili per interpretare il corso della storia, e al tempo stesso fanno parte di una logica di dominio e sopraffazione che le ripugna. «Il potere io lo vedo come un fenomeno disumano e odioso.» Di qui la sua decisa preferenza per i ribelli, gli anti-sistema, chi resiste all’ordine costituito, soprattu...

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  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. INTERVISTA CON LA STORIA
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